La campagna per la liberazione di Oscar René Vargas – e di tutti i prigionieri politici e di coscienza in Nicaragua – ha trovato una soluzione parziale in seguito alla decisione della dittatura Ortega-Murillo di esiliare 222 prigionieri politici e di far approvare dall’assemblea legislativa una legge retroattiva che li priva della cittadinanza nicaraguense, come sottolinea Sergio Ramirez.
Più di 30 prigionieri rimangono incarcerati in condizioni inique, dopo essere stati sottoposti a sedicenti processi che sono, per usare una frase di Dora Maria Tellez (nella sua intervista a El Paìs), “nient’altro che un plotone di esecuzione legale”. Tra questi, il vescovo di Matagalpa, monsignor Rolando Álvarez, rimane nelle grinfie della dittatura. Rolando Álvarez si è rifiutato di salire sull’aereo. Prima di un eventuale esilio forzato, ha chiesto di “incontrarsi con i vescovi”, cosa che avrebbe potuto provocare uno sconvolgimento politico-religioso, vista l’insistenza del cardinale Leopoldo Brenes che, ancora nel novembre 2022, ha mantenuto un “dialogo con la dittatura di Ortega-Murillo”, nel momento in cui Rolando Álvarez e altri sacerdoti venivano perseguitati. Per non parlare della chiusura di diverse istituzioni cattoliche.
Giovedì 9 febbraio, all’1.30, alcuni prigionieri sono riusciti a rientrare nei loro abiti civili. Si stava preparando un trasferimento. Sebbene alcuni temessero di essere trasferiti in altre carceri, la possibilità di un “esilio forzato” è diventata più chiara per molti una volta riuniti sugli autobus che li portavano all’aeroporto.
Oscar René Vargas è stato tenuto per diversi giorni in isolamento, in una cella di 2 metri per 2, senza cibo né medicine, nonostante avesse subito un’operazione al cuore e la sua vista stesse cedendo a causa di una cataratta. Di fronte ai suoi interrogatori, la sua risposta è stata severa: “Non ho nulla da dire perché tutto è già nei molti libri che ho scritto e nelle migliaia di articoli”. Ha posto alle sue guardie una semplice domanda: “Se questo regime continua, morirò sicuramente. È una decisione dei suoi superiori? Chiedete loro. Perché in caso di ‘incidente mortale’ un giorno sarete responsabili”. Questa volta le guardie hanno chiesto conto ai loro superiori. Così, il giorno dopo, Oscar René Vargas è stato trasferito in una cella più grande di 3 metri per 6, dove ha potuto fare esercizi, un’igiene fisica, psicologica e intellettuale per un prigioniero politico.
Al suo arrivo all’Hotel Westin di Herndon, in Virginia, in un breve video che lo ha messo in contatto con una conduttrice del canale 100Noticias – una conduttrice che lo aveva già intervistato in passato – Oscar René Vargas l’ha informata con umorismo che “le interviste provenienti dal Costa Rica erano in realtà prodotte in Nicaragua”. In questo modo ha continuato, a modo suo, il suo lavoro di informazione sulla situazione in Nicaragua.
La campagna per la sua liberazione, che in pochi giorni ha ricevuto un notevole sostegno internazionale, ha raggiunto la sua prima conclusione positiva. Questa è anche l’occasione per ringraziare tutti coloro la cui firma è stata più di un gesto formale, ma l’espressione di un impegno politico che ha assunto, in varie forme, la traiettoria storica delle rivoluzioni e controrivoluzioni, dei movimenti di emancipazione e del loro spossessamento. Questa assunzione di responsabilità è guidata da una comprensione empirica dell’evoluzione delle formazioni sociali, articolata con i principi che sono alla base del sostegno dato alle mobilitazioni emancipatorie. In questo senso, Oscar René Vargas, noto storico del Nicaragua, che la dittatura vuole trasformare in un apolide, ribadisce oggi che la soppressione della cittadinanza – in altre parole, degli effettivi diritti economici, sociali, politici e civici – viene imposta alla vastissima popolazione del Nicaragua, e non solo ai 222 prigionieri liberati. Questa è la battaglia che continuerà a combattere, come già sappiamo.
“Ogni giorno in cui non mi sono impiccata è stato un trionfo su Ortega”
Intervista a Dora María Téllez, la leggendaria guerrigliera della rivoluzione sandinista, che racconta a Iker Seisdedos e a Wilfredo Miranda di El País la sua prigionia nella temuta prigione di El Chipote a Managua, da El País
Nell’ambito del piano di tortura psicologica “disumana” a cui il regime di Daniel Ortega, presidente del Nicaragua, sottoponeva l’anziana compagna Dora María Téllez, leggendaria guerrigliera e Comandante Dos del Sandinismo, le è stato vietato di leggere l’ora. Così ha escogitato un sistema: ha appoggiato la testa contro una delle pareti della sua cella, la numero 1 della galleria di isolamento maschile dove ha trascorso un anno e otto mesi nel carcere di El Chipote a Managua, uno degli istituti di pena più malfamati dell’America Latina, e ha guardato in alto. Ha cercato di decifrare i segreti della luce naturale “completamente fioca”, “che non gli permetteva di vedere bene la mano” e che era filtrata dall’unica presa d’aria di un cubicolo di 6×4 metri senza finestre da cui non poteva uscire. “Saranno le 11”, si diceva, “non manca molto al bagno”.
Era l’unico modo per dare ordine alle sue interminabili giornate fino all’arrivo di un altro prigioniero, Álex Hernández (500 giorni nell’inferno di El Chipote). “Il ragazzo era un genio del cronometraggio”, dice. Osservava dalla sua cella, la cella 4, “come la luce del sole entrava nel piccolo pezzo di corridoio”. “Gli sussurravo: Alex, che ore sono?’. Lui rispondeva: ‘10.15’”, ha ricordato Téllez questo venerdì in un’intervista a El Paìs. “Un giorno una delle guardie, a cui era vietato portare l’orologio per non darci indizi, andò in bagno, tirò fuori il suo e, di nascosto, me lo confermò: Non so come faccia: sono le 10.15 in punto!”
Anche Téllez vuole essere precisa sui suoi 605 giorni di inferno, così prende il taccuino e la penna dei giornalisti e disegna una pianta del luogo in cui ha trascorso la sua terribile prigionia. “La cella era alta otto metri, interrotta da un tetto di cemento”, spiega, seduta con quel portamento elegante che solo la resistenza può dare nella hall di un hotel vicino all’aeroporto internazionale di Dulles. È il luogo in cui giovedì il Dipartimento di Stato americano ha ospitato d’urgenza i 222 prigionieri politici, rilasciati dal regime di Ortega e di sua moglie Rosario Murillo per essere deportati a Washington su un aereo noleggiato. Poche ore dopo, mentre si alzavano in volo verso la libertà, è arrivata la rappresaglia definitiva: l’Assemblea nazionale ha modificato la costituzione per privarli della cittadinanza nicaraguense.
Tra il gruppo di esuli ci sono giornalisti, politici, imprenditori, studenti e contadini, ma il simbolo più potente è sicuramente Téllez. “I peggiori di tutti sono stati i pomeriggi a El Chipote. Molto difficile”, continua l’ex guerrigliera. Le mattine, almeno, erano dedicate all’esercizio fisico: tre ore al giorno: “Rafforzamento dei quadricipiti, routine di base del karate…”. Ogni giorno camminava in cerchio per otto chilometri, “80 giri, 15 metri ogni giro”, dice mentre disegna un altro schema. L’ossessione è diventata tale che ha finito per farsi male a un piede.
Dopo tutto, era l’unica distrazione possibile. Storica di professione, “lettrice per necessità vitale”, le fu vietato di leggere e scrivere. Non poteva nemmeno avere libri, fogli o matite. “Abbiamo dormito su una stuoia piatta, senza nulla sul pavimento freddo. Non ci hanno dato asciugamani, ci siamo asciugati mettendo i vestiti sopra di noi. Era una costante tortura psicologica. Non sono mai stato torturato fisicamente, il trattamento degli operatori carcerari è stato gentile ed efficace; è il trattamento del regime di Ortega-Murillo che è disumano. Ho fatto i conti: su 1.440 minuti al giorno, ho parlato solo per circa un minuto, se si sommano tutti i brevi scambi con le guardie. Alla fine ho perso la voce, quindi cantavo dolcemente per compensare la perdita”. Il regime delle visite era “un’altra forma di tortura”. “All’inizio non ho visto nessuno, nemmeno il mio avvocato, per tre mesi. Poi due mesi, un mese, 40 giorni; il modo in cui le visite eranono organizzate era molto irregolare”.
Inutile dire che tutte queste misure detentive sono vietate dalle convenzioni internazionali sui diritti umani. “Ma la cosa più terribile”, ammette Tellez, “è stato l’isolamento. Le donne che si trovavano a El Chipote erano tutte isolate. Loro erano in un’altra galleria, ma Ana Margarita [Vijil], Tamara [Dávila], Suyén [Barahona] e io eravamo sempre in quel regime. Gli uomini non sono mai stati tenuti così per più di due mesi. Perché questa differenza?” Alla domanda, Téllez fa il gesto muto di sparare con un fucile. “Un‘ affetto’attenzione speciale”, scherza. “Questo è l’odio viscerale degli Ortega-Murillo verso le donne”.
La disciplina acquisita durante gli anni della guerriglia, che l’hanno resa famosa in tutto il mondo quando Gabriel García Márquez l’ha immortalata nella sua cronaca Asalto al Palacio, sul leggendario atto di resistenza alla dittatura di Somoza del 1978, l’ha aiutata a sopportare la prigionia. Lì dentro, l’o ‘ha aiutata anche a pensare alla “resistenza quotidiana”. “Sapevo di dover resistere, era il mio modo di sconfiggere Ortega ogni giorno. Ogni giorno in cui non mi sono ferita mentalmente, ogni giorno in cui non ho defecato nella cella. Che non mi sono impiccata. Ogni volta che ho avuto colloqui e interrogatori l’ho detto forte e chiaro ai funzionari. Tutto questo è progettato per ucciderci mentalmente ed emotivamente. E’ questo che volete?”, chiedevo loro. “State cercando di farmi impiccare con le sbarre”.
Téllez prosegue con l’elenco degli effetti che la reclusione in isolamento può avere sulla salute. È un elenco basato sulla sua esperienza: “Disturbi d’ansia, profondi disturbi del sonno (anche se dormo con piacere), disturbi della defecazione, disturbi alimentari, malattie della pelle, emicranie, problemi di pigmentazione, perdita dei denti, perdita della vista, perdita dell’equilibrio. Ora devo fare attenzione, se vado di traverso potrei finire sul pavimento”.
Uno dei momenti peggiori della prigionia è avvenuto durante la notte, quando il suo ex compagno d’armi, il Comandante Uno, il generale in pensione Hugo Torres, ebbe una ricaduta nella sua cella, la numero sei, all’estremità opposta del corridoio. “Ho sentito il rumore e ho sbirciato attraverso le sbarre; ho visto un movimento degli agenti”, ricorda la donna. “Qualcuno stava correndo. Hanno aperto la cella e ne è uscito un giovane ufficiale piuttosto grosso con in braccio Hugo. Mi resi conto che non si trattava di uno svenimento, ma di qualcos’altro: il suo braccio sinistro era senza vita…”, racconta Téllez. Dopo un po’, Torres è stato riportato in cella. In seguito, a El Chipote non ha ricevuto le cure mediche necessarie e ha avuto una nuova ricaduta. È stato trasferito in ospedale, dove è morto. Questo, dice Tellez, è stato un colpo tremendo.
Quando mercoledì le è stato detto di sbrigarsi a togliersi l’uniforme blu da carcerata, all’inizio ha pensato che forse la stavano preparando per un colloquio. Poi, con il passare delle ore, si è insospettita: “Ci hanno portato fuori all’1.30 del mattino, e a quel punto ho escluso le altre ragioni: ci stavano cacciando dal paese. Non sapevo se verso il Messico, la Colombia o negli Stati Uniti”.
A Washington si è finalmente riunita al suo compagno, che ha scontato anch’egli una pena. “Il giorno dell’arresto, ho riso un po’ quando li ho visti entrare [la polizia inviata per arrestarli]. Sono entrati con AK [fucili d’assalto AK-47], giubbotti antiproiettile, buttando giù le porte, in posizione di combattimento. Eravamo lì in silenzio, ad aspettarli, con i nostri cagnolini. Era tutta una fantasia: la fantasia di chi ha paura. Un agente mi ha spinto, ma non hanno usato altra violenza”.
Una volta arrivata negli Stati Uniti, dice di voler continuare la lotta da questa parte del mondo. “Ortega pensava di spezzarci, ma non una sola persona in prigione ha chiesto perdono. Tutti abbiamo resistito. È tempo di riorganizzarsi e continuare a lottare. Tornerò in Nicaragua, non so quando, ma lo farò, e recupererò tutte le mie libertà. Nessuno può togliermi la nazionalità, che ho per diritto di nascita, per un crimine che non ho commesso”, afferma.
Per il momento, si accontenta di tornare a leggere. Sapiens, un saggio di Yuval Noah Hariri, che era in attesa di essere pubblicato al momento della sua incarcerazione, la attende. Ha anche un libro in attesa di pubblicazione su “100 anni di diversità sessuale da parte di uno storico nicaraguense e di uno scienziato sociale americano”, oltre a ritornare sulla Storia del XX secolo di Eric Hobsbawn, lo storico marxista britannico. La letteratura la aiuta anche a rispondere alla domanda su cosa, secondo lei, abbia fatto cambiare Ortega negli anni trascorsi dal suo incontro. “È un’analisi che mi viene sempre chiesta e che sono riluttante a fare; mi sembra che non sia nemmeno rilevante. Ortega andrebbe annoverato con una di quelle biografie profondamente psicologiche di Stefan Zweig: una biografia come Fouché. Sono molto simili. Fouché non era né di destra né di sinistra, tutt’altro. Un uomo di potere, essenzialmente senza scrupoli. Ecco cos’è Ortega: un animale di potere senza scrupoli”.
Un altro compito urgente per Téllez, ora che ha riacquistato la libertà, è “recuperare le albe”, di cui è stata privata per un anno e otto mesi. Ha iniziato proprio questo venerdì. Si è svegliata temendo che “fosse stato solo un sogno”, per poi meravigliarsi dalla sua stanza d’albergo in esilio mentre guardava il sole sorgere in una splendida alba della Virginia. Uno di quelle albe in cui “il cielo è completamente arancione”.
Le differenze tra la repressione peruviana di oggi e quella cilena del 2019
di Carlos Ugo Santander, politiologo, professore e ricercatore associato presso l’Università Federale di Goiás (Brasile), dottorato di ricerca in Sociologia presso l’Università di Brasilia (UnB e presso l’Università LUISS (Italia), specializzato in studi comparativi sull’America Latina, da Latinoamérica21, 9 febbraio 2023
Alcuni gruppi dell’estrema destra peruviana sembrano non preoccuparsi del numero di morti nelle strade dopo l’inizio delle proteste il 7 dicembre 2022. A differenza di questi, nell’esplosione sociale cilena del 2019, i gruppi parlamentari conservatori hanno ceduto nel giro di un mese, dopo la violenza manifestata dalle forze dell’ordine. Il 15 novembre 2019, con un bilancio di 20 morti, l’allora presidente cileno Sebastián Piñera ha annunciato ufficialmente che si sarebbe tenuta una consultazione popolare. Questa decisione è stata influenzata dalle pressioni della società civile, degli organi istituzionali e dello stesso apparato produttivo, con l’obiettivo di abbandonare la strategia violenta del governo e delle forze di polizia. Il massacro in Perù dura ormai da due mesi, con un bilancio di oltre 60 morti, eppure le forze conservatrici non hanno mostrato alcun interesse al dialogo.
L’approvazione delle elezioni anticipate in Perù non è stata sufficiente a calmare gli animi. La richiesta di “chiusura del Congresso” da parte dei cittadini mobilitati, che non è una mossa letterale o apertamente antidemocratica per imporre un regime autoritario, mira a porre fine alle costanti manovre antidemocratiche del parlamento, compreso lo smantellamento degli organi elettorali, nonché a porre fine al discorso razzista e violento contro le masse popolari.
Sembra che ai parlamentari di destra non interessi molto apparire incivili di fronte alla comunità internazionale, a causa delle palesi violazioni dei diritti umani. Sono persino disposti a sacrificare la democrazia stessa per salvare se stessi. La richiesta di dimissioni di Dina Boluarte è un’altra delle richieste delle mobilitazioni, dopo il tradimento della presidente, che prima era una sostenitrice dell’assemblea costituente e che ora è passata a reprimere violentemente i manifestanti.
Se le piazze chiedono un cambiamento della Costituzione, perché non consentire una consultazione con i cittadini per decidere se sono d’accordo? La Costituzione cilena non prevedeva una consultazione per sostituirla, eppure questa prerogativa è stata approvata con urgenza dal parlamento cileno. I problemi legali possono essere superati. Tuttavia, la destra parlamentare peruviana ritiene di trovarsi in una posizione di vantaggio dopo la caduta di Pedro Castillo, ma la sua intransigenza potrebbe finire per trascinarla in un esilio temporaneo.
Una differenza sostanziale con il caso cileno è che la presidente Dina Boluarte si trova in una posizione di debolezza e, in risposta, si è alleata con la strategia dei parlamentari di destra, in un atteggiamento bellicoso e inutile. Dopo tutto, ha poco da perdere, visto che non ha un partito. Ma se presentasse una proposta di legge per una consultazione popolare, avrebbe molto da guadagnare, in quanto attenuerebbe la sua posizione autoritaria per affermarsi contro la violenza dei gruppi di destra del Congresso. Così facendo, riuscirebbe anche a disinnescare il clima politico.
D’altra parte, la sfida delle proteste, composte per la maggior parte da cittadini provenienti dalle zone più lontane del paese e disposti a stabilire un nuovo patto politico, dipende dalla loro intensità e dalla loro permanenza nel tempo. Queste mobilitazioni non si erano mai viste prima e si sono scontrate con aperte dichiarazioni di razzismo da parte delle istituzioni.
In risposta, è stata espressa la necessità di promuovere una “grande marcia” peruviana, ma, date le circostanze, sembra che questo non sarà sufficiente. Tuttavia, l’occupazione di spazi pubblici, soprattutto nella capitale (Lima) come piazze e viali, è rilevante e di recente è diventata la conquista strategica dei diversi movimenti contro l’arroganza del primo ministro Alberto Otárola, che in precedenza aveva dichiarato che avrebbe impedito alle proteste di entrare nella capitale.
Tuttavia, la paura più grande della destra peruviana non è il disagio delle proteste che attraversano le strade di Lima, ma il rischio che soffochino il circuito economico della capitale e di tutto il paese. Se il blocco dell’aeroporto principale di Lima e del porto di Callao, così come degli accessi stradali in diversi tratti, inizierà ad avere effetto, i costi della repressione saranno molto più alti di quelli della tolleranza.
di Sergio Ramírez, ex vicepresidente del Nicaragua dal 1985 al 1990, ha ricevuto il Premio Cervantes nel 2017.
La stragrande maggioranza dei prigionieri politici che stavano scontando la loro pena nelle carceri della dittatura di Ortega-Murillo, per reati mai commessi, inventati da leggi repressive dettate a questo scopo, sono stati liberati, messi su un aereo charter e mandati in esilio negli Stati Uniti all’alba di ieri, 9 gennaio. Questo è stato fatto nello stesso modo arbitrario in cui sono stati arrestati e processati in processi che non hanno mai avuto valore legale. Incarcerati inoltre in condizioni ingiuste in celle di isolamento, alcuni di loro agli arresti domiciliari.
I prigionieri politici José Adán Aguerri e Suyen Barahona (in alto), Óscar René Vargas e Juan Sebastián Chamorro (in basso), al loro arrivo negli Stati Uniti.
Ho appena visto il video ufficiale in cui un magistrato, il presidente della Corte d’Appello di Managua, Octavio Rothschuh Andino, legge con voce cavernosa, in una sala senza pubblico del complesso giudiziario, la Sala Uno del Tribunal de Apelaciones de Managua (TAM), la sentenza con cui la pena detentiva è sostituita dalla messa al bando. I prigionieri sono anche privati di tutti i loro diritti politici e civili a vita per “tradimento”, un altro atto arbitrario senza alcun fondamento.
Poco dopo, l’Assemblea Nazionale, riunita d’urgenza, ha approvato doverosamente e all’unanimità un decreto per revocare la cittadinanza nicaraguense ai “traditori della patria”, cioè a coloro che sono stati deportati con un volo charter, in violazione della Costituzione. Ancora arbitrarietà. E i rappresentanti eletti dimenticano che le leggi non sono retroattive, secondo un principio universale, anche se si tratta di una legge costituzionale. Ma in Nicaragua i principi universali non valgono più.
Esiliato, apolide, ma libero. Il Signore scrive le linee della libertà in modo storto, ma con mano ferma. E questa è solo la prima pagina. Le pagine migliori devono ancora venire.
Vengono spogliati della loro nazionalità per trovare un modo di compiacere le orecchie di fanatici rabbiosi, militanti ciechi, paramilitari compromessi con il loro sangue nella repressione, che ormai devono essere preoccupati, abituati come sono al discorso rabbioso, martellato ogni giorno, che questi traditori della patria, terroristi responsabili di un colpo di stato sventato nel 2018, non vedranno mai la luce del giorno. Questa è la linea ufficiale. Traditori, terroristi, feccia, venduti. E l’hanno visto, hanno visto la libertà. Come un giorno lo vedrà l’intero paese.
Chi sono gli esiliati
Tutti i prigionieri politici della dittatura, quelli che sono saliti sull’aereo che li ha portati in esilio – e quelli che sono rimasti, non sappiamo ancora perché – sono nicaraguensi esemplari. Hanno resistito con dignità per lunghi mesi in isolamento, in celle disciplinari, e hanno fatto della prigione la loro trincea di lotta, una prigione dove non avrebbero mai dovuto essere. Uomini e donne coraggiosi, leader politici, sindacali e contadini, difensori dei diritti umani, imprenditori, giornalisti, leader studenteschi, avvocati, accademici, sacerdoti cattolici e persino un vescovo, capo delle diocesi di Matagalpa ed Estelí, monsignor Rolando Álvarez, una voce profetica della verità [in realtà nelle mani della dittatura restano almeno due detenuti che si sono rifiutati di salire sull’aereo e che sono voluti restare in Nicaragua: il vescovo Álvarez e Fanor Alejandro Ramos, ex agente di polizia destituito per “tradimento”, entrambi sono stati di nuovo reclusi nel carcere di La Modelo, a Tipitapa, ndt].
Tutti accusati di un reato tirato fuori da un cappello giuridico, “violazione della sovranità nazionale”; una sovranità di cui si è appropriata una coppia, una famiglia al potere, un vecchio partito rivoluzionario trasformato nella parodia di un sogno da tempo abbandonato, infranto [più sotto l’elenco nominativo degli esiliati].
Non si sono mai inchinati. Non hanno mai chinato la testa davanti a giudici nani in udienze orwelliane. Hanno indossato le uniformi carcerarie senza violare la loro dignità. Hanno dato un esempio di dignità a un paese messo a tacere con la forza, che nel frattempo vede migliaia di persone andare in esilio, attraverso le feritoie delle frontiere, in fuga dalla repressione, dal silenzio, dalla paura. Un popolo che non si è ancora svegliato dal suo lungo incubo – dopo un’altra dittatura ancora più feroce [quella di Somoza] – ma che quando l’aereo che porta i prigionieri deportati decolla, festeggia questa “partenza” interiormente, con una gioia contenuta, pur sapendo di essere lontano dalla meta finale della libertà e della democrazia.
Le illusioni della dittatura
Prigionieri in cambio di qualcosa: le sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea, dal Canada, dalla Svizzera, dall’Inghilterra, agli enti governativi, alle aziende pubbliche e private favorevoli al regime, ai funzionari di polizia, ai dipendenti pubblici e ai membri della famiglia dittatoriale. Hanno ottenuto qualcosa? Non si sa ancora cosa abbiano ricevuto in cambio.
Il volo speciale su cui hanno viaggiato gli ostaggi era diretto all’aeroporto di Washington Dulles, ma il Dipartimento di Stato si è affrettato a precisare, in una comunicazione ai membri del Congresso, che si trattava di una decisione unilaterale di Ortega, “una sua decisione”, e che esorta Ortega-Murillo a compiere ulteriori passi verso il ripristino della democrazia e della libertà in Nicaragua, senza riconoscere alcuna transazione.
In ogni caso, la dittatura è rimasta a mani vuote. La sua strategia migliore sarebbe stata quella di negoziare gli ostaggi in lotti, e non liberarli tutti allo stesso tempo, per mantenere le sue carte di riserva, per nascondere il suo gioco. Un brutto segno, per quanto la riguarda. Rilasciarli non è un segno di forza, ma di debolezza. Lo dimostra dichiarandoli apolidi, una vendetta finale, quando sono già fuori dalla portata dei loro artigli. Questo con l’idea che i loro decreti, le sentenze e le leggi dei loro accoliti, i giudici e i deputati, abbiano valore perpetuo e che per sempre il Nicaragua continuerà a essere sotto il loro dominio.
Questi esuli sono più nicaraguensi che mai.
Altre notizie, dalla stampa nicaraguense
Tanto per chiarire come funziona la “giustizia” nicaraguense e la sua “indipendenza” dal potere politico, lo stesso Daniel Ortega candicamente rivela alla stampa, alla radio e alla televisione nazionale che l’esilio per i detenuti sarebbe stata un’idea di Rosario Murillo, vicepresidente e moglie del presidente, che ha detto: “Perché non dire all’ambasciatore di portare con sé tutti questi terroristi? Gliel’ho detto, forse lì lo ascolteranno”.
Le associazioni dei nicaraguensi emigrati negli USA (sono oltre un milione) si è mobilitata per sostenere i 170 esiliati che non hanno familiari o amici che li ospitino e ha messo online un modulo (“Aiutiamo questi eroi nicaraguensi”) per raccogliere offerte e sostegno. Nel frattempo il governo spagnolo ha offerto ospitalità e la possibilità di naturalizzarsi e di ottenere la cittadinanza spagnola agli esiliati.
Quelli che seguono sono i 222 prigionieri politici nicaraguensi esiliati nelle prime ore del 9 febbraio dalla dittatura di Daniel Ortega e Rosario Murillo. Tra i prigionieri rilasciati ci sono quelli che erano detenuti nelle carceri di La Modelo e La Esperanza da più di due anni e quelli che erano detenuti nella prigione di El Chipote o agli arresti domiciliari da più di 600 giorni. Questo è l’elenco dei prigionieri politici (in neretto quelli di cui Rosarossaonline.it ha già parlato in altri articoli):
Dolina, Slovenia meridionale, il 31 luglio 1942. Soldati italiani fucilano Franc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec, cinque abitanti del villaggio di Dane presi in ostaggio qualche giorno prima(altro…)
Alcuni anni fa, a ridosso dell’insediamento della presidenza di estrema destra di Jair Bolsonaro, si era costituito in Brasile un “Collettivo sindacale” denominato “Travessia” che si proponeva (citiamo dal manifesto di presentazione) “di discutere fraternamente divergenze e convergenze per costruire un intervento unitario nei sindacati e nei movimenti”, un collettivo sindacale e popolare di attivisti e organizzazioni “con il compito di rafforzare la resistenza dei lavoratori in una lotta economica e ideologica contro la forza sempre più aggressiva del capitale”.
“Il Brasile (continuava il manifesto) riflette le conseguenze del disordine del sistema mondiale, che minaccia le egemonie e la crisi economica mondiale che si trascina dal 2008. Il risultato più espressivo di questo processo è visibile nelle strade di tutto il paese: milioni di lavoratori disoccupati, precari e con minori tutele sociali, che contribuiscono ad approfondire le disuguaglianze e ad aumentare la concentrazione del reddito. Se, da un lato, poche famiglie hanno una ricchezza materiale assurdamente esagerata, dall’altro, milioni di persone si abbrutiscono in una vita di sacrifici e in un futuro desolante”.
Il collettivo Travessia ha seguito e partecipato attivamente a tutte le principali lotte sindacali che si sono svolte in Brasile durante la presidenza Bolsonaro, ha commentato e propagandato sui social (Instagram e Facebook) le mobilitazioni, le proposte e i dibattiti nel movimento sindacale del paese sudamericano. Ha sostenuto sempre la costruzione della massima unità d’azione tra le organizzazioni centrali, i movimenti sindacali, i movimenti popolari, i movimenti studenteschi, delle donne, degli LGBT, delle donne e degli uomini di colore, degli immigrati e dei popoli indigeni, le organizzazioni che lottano per i diritti civili e democratici e in difesa dell’ambiente. Il tutto in una prospettiva classista, internazionalista e di trasformazione socialista
Nella sua piattaforma costitutiva il collettivo afferma che “tra gli obiettivi di un collettivo popolare deve esserci la lotta contro l’avanzata burocratica che si sviluppa nei sindacati e nelle organizzazioni della nostra classe” al fine di “creare le condizioni che permettano la partecipazione dei lavoratori alle strutture decisionali … impedendo il personalismo e l’eccessiva concentrazione di potere”.
Nella foto alcuni esponenti del collettivo Travessia con il ministro del Lavoro a cui hanno appena consegnato il documento
Alcuni giorni fa, a Brasília, in un salone del 2° piano del Palazzo Planalto, il palazzo della presidenza delle repubblica e del governo, si è tenuto un incontro tra il presidente Lula (che si è insediato al potere un mese fa), accompagnato dal ministro del Lavoro Luiz Marinho, e dirigenti e quadri di tutti i sindacati operanti nel paese.
Nell’occasione, è stato istituito un gruppo di lavoro di valutazione permanente sul salario minimo, composto, oltre che da leader sindacali anche da lavoratori in produzione del settore petrolifero, della scuola, dei trasporti, dipendenti pubblici, addetti alla distribuzione di piattaforme digitali, ecc.
L’incontro è stato concluso dal presidente, che ha affrontato tutte le diverse questioni riguardanti la classe lavoratrice, tra le quali la mancanza di diritti certi per i lavoratori delle piattaforme digitali, la necessità di valorizzare il lavoro nella funzione pubblica, penalizzato da otto anni di blocco degli stipendi, l’impegno ad arrivare alla esenzione totale dall’imposta sul reddito per coloro che guadagnano fino a 5 mila reais (900 euro circa), tassando i più ricchi per compensare le entrate.
Al termine dell’incontro, esponenti del collettivo Travessia hanno consegnato nelle mani del ministro del Lavoro Luiz Marinho un documento intitolato: “Un programma di transizione per superare anni di battute d’arresto”.
Ieri martedì 7 febbraio, mentre all’Assemblea nazionale si apriva, in un clima di tensione il secondo giorno di dibattito sulla riforma delle pensioni voluta da Macron e da Borne, nelle vie di Parigi e di altre 250 città della Francia sfilavano centinaia di migliaia di francesi (2 milioni secondo i sindacati, 757.000 per il ministero dell’Interno, di cui 57.000 a Parigi) nel terzo sciopero indetto dall’intersindacale che riunisce tutte le principali organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori. In numerosi posti di lavoro (come ad esempio in gran parte delle raffinerie della Total, nei porti e in tante centrali elettriche) lo sciopero si prolunga anche alla giornata odierna.
I numeri, visibilmente minori di quelli del 31 gennaio e sostanzialmente pari a quelli del 19 (che comunque era stata definita una “giornata storica”), risentono senz’altro dell’inizio delle “vacanze scolastiche” di febbraio che sono iniziate in metà del paese (le pause didattiche in Francia sono articolate su due zone, al fine di gestire meglio il turismo interno).
Per il movimento il prossimo appuntamento è per i cortei previsti per il prossimo sabato 11 febbraio. E’ evidente che il movimento si trova ad un punto di svolta cruciale, come abbiamo ampiamente analizzato in articoli dei giorni scorsi e in particolare in quello di Léon Crémieux. Il comunicato del NPA di ieri, non a caso dice: “Oggi gli scioperanti e i manifestanti erano forse un po’ meno numerosi, ma la rabbia è intatta e la mobilitazione dei lavoratori è sempre molto forte”. E prosegue: “Le nuove manifestazioni di sabato 11 febbraio devono essere massicce, perché in piazza, insieme, riacquistiamo fiducia nei nostri numeri e ancor più nella nostra forza comune, nella nostra capacità collettiva di resistere alla rassegnazione e alle politiche antisociali”.
Ma puntualizza: “Abbiamo bisogno di una strategia per vincere. Con ripetuti giorni di mobilitazione, c’è il rischio che gli scioperanti si esauriscano in questo difficile periodo di fine mese, quando ogni giorno di sciopero costa di più. Non si può iniziare una gara di lunga distanza senza un vero piano di battaglia. Per vincere, dobbiamo continuare a organizzarci: vedere come esercitare la massima pressione bloccando l’economia; costruire la mobilitazione”.
Il fronte intersindacale sembra tenere. Il governo cerca, per ora invano, di sollecitare contrasti tra i sindacati tutti uniti nello stimolare e sostenere il movimento. Punta a mettere in contraddizione soprattutto la CFDT (e altri sindacati minori politicamente moderati) ma ha finora ricevuto risposte drastiche anche da questo lato. Proprio ieri sera, il segretario generale CFDT, Laurent Berger, intervistato ad uno dei tanti talk-show dedicati al tema, ha respinto l’accusa ai sindacati di dare spazio ai black block e a chi “vuole fare casino”, imputando al governo e al suo “progetto regressivo” la responsabilità di “suscitare la collera della popolazione” e di ogni manifestazione di degenerazione di questa collera.
A Palais Bourbon, la sede del parlamento francese, si è infiammato il dibattito sull’articolo 1 del progetto di legge e sul centinaio di emendamenti presentati su questo articolo che riguarda alcuni “regimi speciali” attualmente previsti per certi lavori particolarmente usuranti e che Macron intende sopprimere.
L’opposizione della NUPES ha fatto notare l’esistenza di ben altri privilegi, come le cosiddette retraites chapeaux, cioè quelle norme che consentono ai dirigenti delle grandi imprese di beneficiare di laute pensioni (a volte milionarie) per di più tassate meno delle pensioni dei lavoratori normali. Un deputato della NUPES, a proposito dei “privilegi” che la “controriforma” vorrebbe abolire, ha chiesto al ministro del Lavoro, il discusso Olivier Dussopt, e al suo collega al Bilancio, Gabriel Attal, seduti sui banchi del governo: “Come vi sentireste se foste autisti del trasporto pubblico parigino (una delle categorie a cui la legge attuale consente di andare in pensione con un leggero anticipo) dopo una giornata di guida di un autobus doppio nelle vie della capitale?”. L’esame dell’articolo 1 prosegue oggi.
Editoriale del sito Esquerda online (sito curato dalla Corrente Resistencia del PSoL), 4 febbraio 2023
Non era mai successo nella storia del Brasile che un governo si insediasse e sette giorni dopo fosse oggetto di un tentativo di colpo di stato. L’invasione da parte di Bolsonaro dei tre principali edifici governativi [esecutivo, legislativo e giudiziario] è un simbolo del pericoloso momento storico che il Brasile e il mondo stanno attraversando, in cui il neofascismo sta emergendo come una forza politica e sociale importante. Lula ha battuto Bolsonaro alle elezioni. L’abbandono della presidenza genocida, anche se per una piccola differenza di voti, è stata un’importante vittoria politica per i lavoratori e la democrazia. Ma, come abbiamo visto l’8 gennaio, il fascismo è vivo e vegeto. Non deve essere sottovalutato. Finché il bolsonarismo manterrà un’influenza di massa e una penetrazione nelle istituzioni dello Stato, soprattutto nelle forze armate e nella polizia, il pericolo rimane. Pur lanciando l’allarme, il fallimento dell’insurrezione bolsonista apre la strada alla controffensiva democratica, che deve essere incessante. Il compito è quello di infliggere una sconfitta effettiva al fascismo. A tal fine, sono necessarie due azioni combinate: i golpisti devono essere severamente repressi e devono essere sviluppate misure economiche e sociali per migliorare la vita dei lavoratori. Il primo mese del nuovo governo è stato segnato da molti eventi. Il prossimo periodo sarà caratterizzato da grandi sfide e pericoli, ma anche da opportunità. In questo editoriale di Esquerda Online, vi offriamo una panoramica dell’inizio del terzo mandato di Lula.
Il popolo ha partecipato all’insedimento di Lula e ha gridato “no all’amnistia”
La notte del 30 ottobre, non appena è stata confermata la vittoria di Lula, le strade di centinaia di città in tutto il paese si sono riempite di grandi manifestazioni. È stata una notte di celebrazioni imponenti, emozionanti e indimenticabili.
Il secondo momento significativo di mobilitazione popolare è stato il viaggio a Brasilia per l’insediamento di Lula. Secondo un sondaggio del sito web Poder360, più di 150.000 persone hanno partecipato all’evento del 1° gennaio. Secondo il sito web, la presenza all’insediamento di Lula è stata più massiccia rispetto all’insediamento del 2002 e a quello di Bolsonaro nel 2018, o alla mobilitazione dei sostenitori bolsonaristi del 7 settembre 2022 a Rio de Janerio.
Lavoratori e studenti di tutte le regioni del paese sono arrivati in carovane organizzate da movimenti sociali e partiti di sinistra. Ma non sono venuti nella capitale federale solo per festeggiare la vittoria di Lula. Hanno percorso anche grandi distanze per affermare a gran voce: “nessuna amnistia” per i crimini del bolsonismo.
Un governo di larghe intese e un Congresso conservatore
La nomina dei ministri ha confermato il carattere di fronte ampio del nuovo governo, già evidente con la nomina di Geraldo Alckmin [ex governatore di San Paolo, poi capo del partito di destra PSDB, ndt] a vicepresidente. Una personalità di cui la classe dirigente si fida. Si tratta, in termini marxisti, di un governo di conciliazione di classe, formato da rappresentanti della sinistra e dei movimenti sociali, ma anche da leader della destra e da personalità legate al grande capitale. Ci sono diversi ministri del PT [come Paulo Teixeira, Wellington Dias, Camilo Santana, Anielle Franco, Fernando Haddad], del PCdoB [Luciana Santos], della Rede autosufficiente [un partito di centrosinstra, come Marina Silva] e dei movimenti sociali. [C’è anche un ministro del PSoL, Sonia Guajajara, ministro dei Popoli indigeni, membro del PSoL dal 2011, eletta deputato federale per lo stato di San Paolo – ndr].
Ma ci sono anche diversi altri ministri del partito centrista MDB [Simone Tebet], di União Brasil [Juscelino Filho, Waldez Góes, Daniela do Waguihno], del PSD [Carlos Favaro, Alexandre Silveira, André de Paula], del PSB [Geraldo Ackmin, che nel 2022 ha lasciato il PSDB ed è entrato nel PSB, Flavio Dino, Marcio Franca] e del PDT [Carlos Lupi]. Molti di questi partiti di destra hanno partecipato nel 2016 al golpe contro Dilma Rousseff e si oppongono a vari punti del programma che ha portato all’elezione di Lula, come la cancellazione della riforma bolsonarista del lavoro.
Così, lo stesso governo che comprende Silvio de Almeida, Sonia Guajajara e Anielle Franco (nomi di sinistra e riferimenti per la lotta antirazzista e indigena), comprende anche José Múcio (di destra e amico dei generali golpisti), Daniela do Waguinho (legata alle milizie di Rio de Janeiro) e Carlos Fávaro (rappresentante delle potenti aziende agroalimentari).
A causa di queste marcate differenze nella sua composizione, il governo è nato con evidenti contraddizioni interne. Mentre le ali più progressiste cercheranno di spingere il programma più a sinistra, i settori di destra faranno il contrario. Saranno un ostacolo all’attuazione di un programma di sinistra e persino all’avanzamento della lotta democratica. Il ruolo di José Múcio, ministro della Difesa, che ha appoggiato gli accampamenti bolsonaristi allestiti davanti alle caserme pochi giorni prima del tentato golpe, è molto esemplificativo di questa considerazione. Pertanto, chiediamo le dimissioni di José Múcio [che è stato ministro delle Relazioni istituzionali nel secondo governo Lula dal 2007 al 2011; ha sempre coltivato relazioni con i diversi partiti, non solo nella sua base di Pernambuco; di fronte alle pressioni delle correnti del PT che chiedevano le sue dimissioni, su richiesta di Lula ha cambiato il capo dell’esercito – ndr].
È inoltre importante sottolineare che il parlamento nazionale è caratterizzato da una maggioranza conservatrice, oltre ad avere un’importante gruppo parlamentare di bolsonaristi. In seguito agli accordi con i partiti di destra e ai negoziati per i ministeri, è probabile che il governo ottenga la maggioranza al Congresso, sia al Senato che alla Camera. Ma questa maggioranza tenderà ad essere instabile e precaria, data la natura “sleale” di questi “alleati”.
Il partito fascista e il colpo di stato in caserma
Sebbene sia stato sconfitto alle urne, Jair Bolsonaro è uscito dalle elezioni con 58 milioni di voti. E anche più. I candidati sostenuti dall’ex presidente sono diventati governatori in diversi stati, tra i più importanti, come San Paolo, Minas Gerais e Rio de Janeiro. Il gruppo parlamentare dei bolsonaristi nel Congresso è grande e influente.
E la forza dell’estrema destra va oltre le elezioni. Come è stato osservato durante il tentativo di colpo di stato dell’8 gennaio, il bolsonarismo ha una roccaforte nei settori borghesi (soprattutto nell’agrobusiness) e una grande influenza nei circoli militari e della polizia.
Ma non è tutto. Esiste una rete fascista che organizza decine di migliaia di persone, tra cui piccoli e medi imprenditori, polizia e militari. È quindi in grado di organizzare blocchi stradali, accampamenti in tutto il paese, esplosioni di fake news e altre azioni.
Non esiste un partito di estrema destra ufficiale e legalizzato, ma esiste un grande partito fascista clandestino, composto da vari gruppi e ali e guidato dalla famiglia Bolsonaro. Si avvale di finanziamenti aziendali e di sofisticati meccanismi di organizzazione dei suoi sostenitori e di una rete professionalizzata di comunicazione di massa, nonché di un coordinamento internazionale [tra gli altri negli Stati Uniti, ma anche in Argentina e in tutto il Sud America].
Va sottolineato il ruolo speciale dell’esercito. Senza la protezione e l’incoraggiamento dell’esercito, non sarebbe stato possibile per gli accampamenti bolsonaristi insediarsi fuori dalle caserme per due mesi. Senza la mediazione del comando militare, l’invasione della Piazza dei tre poteri a Brasilia non sarebbe stata possibile.
Le dimissioni del comandante dell’esercito, il generale Arruda, sono state una decisione importante di Lula. È stato il primo passo per sconfiggere il complotto golpista all’interno dell’esercito. Ma resta ancora molto da fare per de-bolsonizzare le forze armate.
Per questi motivi, si deve ritenere che il bolsonarismo, nonostante la battuta d’arresto del fallito golpe, rimarrà attivo e influente. Il suo obiettivo politico è creare le condizioni per il rovesciamento di Lula da parte delle forze di estrema destra. La sua scommessa strategica è quella di impiantare nel paese un regime autoritario con caratteristiche fasciste.
È necessario intensificare l’offensiva contro i golpisti
La rivolta dell’8 gennaio è fallita. In assenza delle condizioni internazionali e interne per un colpo di stato vittorioso, il comando militare non ha mosso le truppe per prendere il potere. I militari sanno che gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina, la Russia e la maggioranza della grande borghesia nazionale non appoggiano un colpo di stato in Brasile in questo momento. Grazie all’intervento federale per la sicurezza del Distretto Federale di Brasilia, il governo Lula è riuscito a espellere gli invasori dai palazzi. Le immagini della barbarie di Brasilia hanno suscitato una diffusa disapprovazione popolare. Il Tribunale Supremo Federale (STF) e i presidenti della Camera e del Senato hanno fermamente disconosciuto l’azione golpista. I mass media hanno fatto eco al rifiuto degli strati dirigenti della borghesia nei confronti di questa rottura istituzionale. La sinistra è scesa in piazza contro il colpo di stato. La stragrande maggioranza del popolo ha rifiutato l’azione di forza.
Con la sconfitta del tentativo di colpo di stato, i golpisti si trovano in una posizione difensiva. Gli accampamenti sono stati smantellati e più di mille fascisti sono in carcere, tra cui l’ex ministro della Giustizia, Anderson Torres. Il pericolo, tuttavia, è che il processo di repressione dei golpisti non raggiunga i vertici della catena di comando, cioè: Bolsonaro e i suoi figli, generali, importanti uomini d’affari e politici di spicco. È necessario confiscare i loro beni e imprigionarli.
Mantenere le promesse della campagna elettorale è fondamentale
È un’illusione credere che Bolsonaro sarà schiacciato solo dalla repressione. È necessario migliorare la vita delle persone facendo in modo che la classe operaia, i più poveri e le classi medie beneficino dell’attuazione delle promesse fatte da Lula durante la campagna elettorale. Questo è il modo più efficace per il governo di prosciugare l’influenza bolsonarista sulle masse. In questo senso, Lula ha fatto bene a garantire, attraverso il Patto di transizione, un assegno familiare di 600 reais [pari a 107,5 euro] con un supplemento di 150 reais per figlio [pari a 26 euro]. Ma ha sbagliato a non garantire un aumento reale del salario minimo da gennaio [il salario minimo passerà da 1.302 a 1.320 reais pari a 236,68 euro, solo il 1° maggio 2023, ndt].
I lavoratori vogliono più posti di lavoro e diritti, e un aumento significativo dei salari, per far fronte all’inflazione accumulata. I piccoli imprenditori e gli agricoltori chiedono credito a basso costo per produrre e vendere. I nostri bambini e i giovani chiedono un’istruzione pubblica di qualità a tutti i livelli. I cittadini vogliono un SUS (Sistema Sanitario Unico, ndt) adeguatamente strutturato e dotato di risorse, oltre a gas, energia e cibo più economici. I neri chiedono progressi concreti contro il razzismo in tutti i settori, a partire dalla fine del genocidio dei giovani neri nelle periferie e nelle favelas. Le famiglie povere vogliono avere accesso ad alloggi di qualità e liberarsi dal debito bancario. Le donne chiedono parità nel mercato del lavoro e lotta alla violenza di genere. Le persone LGBTI chiedono progressi nelle politiche pubbliche per combattere la violenza e la discriminazione. I lavoratori e la classe media vogliono pagare meno tasse. I popoli indigeni chiedono il pieno diritto alla loro terra e la salvaguardia dell’ambiente.
Nulla di tutto ciò sarà possibile, tuttavia, senza affrontare i privilegi e le prerogative delle élite. I grandi capitalisti vogliono continuare a non pagare praticamente nessuna tassa sui loro beni, redditi e profitti. Non accettano un aumento del salario minimo e una maggiore spesa sociale. Vogliono più privatizzazioni. Vogliono continuare ad assumere lavoratori nel modo più precario possibile e con salari bassi. Vogliono continuare a usare il razzismo e il machismo per mantenere un alto livello di sfruttamento. Vogliono continuare a fare soldi con attività che distruggono l’ambiente. E insistono nel mantenere l’autonomia della Banca Centrale e un tasso di interesse assurdo, che rende felici i banchieri, ma strangola la crescita economica.
La borghesia sta facendo pressioni sul governo, dall’interno e dall’esterno, affinché si sposti sempre più a destra. I mercati finanziari ricattano e criticano ogni dichiarazione di sinistra di Lula. La classe dirigente, compreso il settore che si oppone al golpe di Bolsonaro, chiede la continuazione della politica economica neoliberista. In breve: non vogliono che Lula mantenga le sue promesse sociali.
Lula è tradizionalmente un conciliatore: cerca sempre di soddisfare entrambe le parti. Tuttavia, nella situazione attuale del paese, questo sembra poco pratico e pericoloso. L’economia è in cattive acque da anni e la crisi sociale è intensa. Le previsioni di crescita del PIL per quest’anno sono dell’1%. A ciò si aggiunge la minaccia di un rallentamento dell’economia internazionale. Il governo dovrà quindi affrontare scelte difficili.
Per mantenere le promesse fatte alle masse lavoratrici, Lula dovrà affrontare e scontentare la borghesia. Se non manterrà le sue promesse, cedendo alle pressioni dei potenti, deluderà le masse lavoratrici e povere. Deludendo il popolo, soprattutto le famiglie povere che lo hanno eletto, perderà popolarità. In questo caso, ci sarà un vincitore politico: il bolsonismo, che approfitterà di questo affaticamento del governo per eseguire un nuovo colpo di stato. Nel caso positivo, invece, mantenendo le sue promesse, Lula guadagnerà forza popolare, diminuendo l’influenza politica dell’estrema destra tra le masse lavoratrici. Questo è il modo per sconfiggere il bolsonarismo.
Mobilitazione e organizzazione popolare per vincere
Il fascismo, storicamente, non è mai stato sconfitto solo con mezzi istituzionali ed elettorali. La lotta e l’organizzazione delle masse da parte della sinistra sono strategiche per la vittoria. In un doppio senso: sia per stroncare il colpo di stato dell’estrema destra nelle strade, sia per aprire la strada a cambiamenti sociali, economici e democratici più profondi, eliminando le condizioni sociali oggettive che alimentano il fascismo.
Il governo Lula, per il suo carattere di fronte ampio – anche se avanza su alcuni punti e adotta alcune misure – mostrerà necessariamente limiti, contraddizioni ed errori. Sarebbe quindi un errore per la sinistra, i movimenti sociali e i sindacati adottare una posizione passiva nei suoi confronti. Non dobbiamo stare fermi ad aspettare. È necessario organizzare la lotta alla base e condurre un processo di discussione ideologica con i lavoratori e gli oppressi, partendo dalle loro richieste più sentite.
Più lotte sociali e lavoro di base la sinistra porta avanti, più forza avrà per affrontare il fascismo e agire per misure che concretizzino un orientamento di sinistra nel paese. La borghesia si sta organizzando in modo efficace per fare pressione sul governo affinché soddisfi le sue richieste. Le organizzazioni della classe operaia e dei settori oppressi devono fare lo stesso.
In questo senso, è ancora più importante costruire una forte mobilitazione per l’8 marzo, giorno della lotta delle donne. Si tratta quindi di un’ampia manifestazione per la difesa dei programmi femministi e della lotta antifascista, nonché per il mantenimento e l’avanzamento dei diritti sociali e del lavoro.
Il ruolo del PSoL e la difesa di un programma anticapitalista
Il PSoL (Partido do Socialismo e da Liberdade), che ha contribuito all’elezione di Lula, ha ribadito il suo impegno a lottare contro l’opposizione bolsonarista e per l’attuazione di un programma di misure progressiste. Per farlo nel migliore dei modi e con autonomia, il partito ha giustamente deciso di non entrare nel governo, dando priorità alla mobilitazione nei luoghi di lavoro e nelle strade, oltre che in parlamento. In questo senso, consideriamo sbagliata qualsiasi integrazione in una posizione ministeriale in questo governo, a nome del PSoL o con una designazione del PSoL o di una delle sue correnti.
Il partito si opporrà a qualsiasi colpo di stato contro Lula, ma manterrà la sua indipendenza per lottare per l’agenda del popolo.
Noi di Resistencia, corrente del PSoL, riteniamo che la lotta coerente contro il fascismo richieda anche la difesa di un programma di trasformazione socialista. L’estrema destra si nutre della crisi del sistema capitalistico e si appoggia a settori della borghesia per consolidare la propria forza. La soluzione strategica, per rompere il fascismo e cambiare strutturalmente il paese, è costruire l’organizzazione e la mobilitazione delle masse lavoratrici, sfruttate e oppresse, per sostenere un governo di sinistra senza alleanze con la borghesia e la destra, un governo che si basi sulla forza del popolo che agisce.
“Noi, donne prigioniere politiche, viviamo in un carcere dove l’ombra delle condanne a morte e delle minacce di morte incombe su molte delle nostre compagne di detenzione”, scrive l’avvocata Nargess Mohammadi nella sua cella di Evin.
di Hasti Amiri, Noushin Jafari, Raha Asgarizadeh, Sepideh Qalyan, Nargess Mohammadi, Alieh Motlebzadeh, Bahareh Hedayat, da Libération del 4 febbraio 2023
La pena di morte, privando il diritto alla vita, è una delle più evidenti violazioni dei diritti umani. Per decenni, la società iraniana ha sofferto per l’esecuzione dei suoi parenti, e in questi giorni abbiamo assistito nuovamente all’esecuzione di alcuni giovani manifestanti, altri sono ancora a rischio di esecuzione.
Noi, donne prigioniere politiche, viviamo in un carcere dove l’ombra delle condanne a morte e delle minacce di morte incombe su molti dei nostri compagni di detenzione. Tra loro ci sono Sepideh Kashani e Niloufar Bayani, due attiviste ambientaliste che sono state acclamate dagli iraniani per il loro lavoro volto a preservare l’ambiente e il futuro della nostra terra. Cinque anni fa sono state arrestate in seguito a un caso inventato dalle Guardie rivoluzionarie. Sono state sottoposte a pressioni psicologiche e fisiche per due anni nelle celle di isolamento dell’ala di sicurezza, affinché confessassero ciò che non avevano fatto e i loro interrogatori potessero giustificare la loro esecuzione. Uno degli strumenti più disgustosi utilizzati dalle Guardie Rivoluzionarie per estorcere confessioni è quello di mettere i detenuti di fronte alla messa in scena della propria esecuzione. Essere minacciati di morte nella solitudine di una cella non è lontano da una vera e propria esecuzione. Sepideh Kashani e Niloufar Bayani, insieme ad altri attivisti ambientali, sono state processate in queste circostanze e sono state accusate di spionaggio senza alcuna prova legale e persino di “corruzione sulla terra” [l’accusa più grave del Codice penale iraniano che di solito prevede la pena di morte].
Un’altra nostra compagna di prigionia, Maryam Haj Hosseini, scienziata di fama nel paese, è stata imprigionata per 412 giorni nel complesso di sicurezza del ministero della Difesa in una zona remota di Teheran (una regione montuosa) e ogni giorno è stata minacciata di esecuzione. È stata accusata di “corruzione in terra”.
Mahahvash Shahriari e Fariba Kamalabadi (entrambe bahaiste, una minoranza religiosa perseguitata in Iran) sono state tenute in isolamento per molti mesi e sottoposte a intense pressioni mentali e fisiche. Dal loro arresto, a causa delle loro convinzioni, sono state minacciate di morte per “corruzione sulla terra” e spionaggio. Durante il loro ultimo arresto, i loro interrogatori hanno chiarito che il ministero dell’Intelligence voleva impiccare sette bahaisti.
Zeinab Jalalian (attivista per i diritti delle donne curde iraniane) è stata torturata mentalmente e fisicamente per farle confessare il coinvolgimento in una lotta armata, che non ha mai accettato. Shirin Alam Holi, attivista curda, è stata sottoposta agli stessi metodi e la violenza del sistema giudiziario ha portato alla sua esecuzione.
È vero che non possiamo capire la profondità dell’angoscia e della sofferenza che hanno subito, ma abbiamo il dovere di gridare contro le esecuzioni e questo processo di minaccia di morte per le donne nella solitudine delle loro celle.
Noi, prigioniere politiche della sezione femminile del carcere di Evin, abbiamo deciso di dichiarare il nostro sostegno a queste attiviste ambientaliste in detenzione da cinque anni e di chiedere il supporto delle istituzioni internazionali per i diritti umani, dei combattenti per la libertà e dell’opinione pubblica per il loro rilascio.
A questo proposito, sottolineiamo l’importanza del racconto per registrare i fatti storici. Raccontare la storia della tortura è l’unico modo per fermare le tragedie umane. Sosteniamo e apprezziamo il gesto di prigionieri come Sepideh Kashani e Nilofar Bayani, che hanno raccontato i crimini e la repressione nelle stanze buie degli interrogatori e hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Dichiariamo il nostro rifiuto della pena di morte, della privazione del diritto alla vita e di tutte le forme di tortura fisica e psicologica, facciamo appello all’opinione pubblica internazionale affinché si batta continuamente per fermare la condanna a morte dei manifestanti”.
Hasti Amiri è una studentessa e attivista per i diritti umani. Arrestata dopo aver organizzato una manifestazione studentesca l’8 marzo 2022, è stata condannata a un anno di carcere per “propaganda contro il sistema”, in particolare per la sua posizione contro la pena di morte.
Noushin Jafari è una fotografa e giornalista condannata nel 2019 a cinque anni di carcere per “insulto all’Islam” e “propaganda contro il sistema”.
Raha Asgarizadeh è una fotografa, giornalista e attivista per i diritti umani che nel 2022 è stata condannata a due anni di carcere per “cospirazione contro la sicurezza nazionale”.
Sepideh Qalyan è un’attivista per i diritti civili. Nel 2020 è stata condannata a cinque anni di carcere per “cospirazione contro la sicurezza nazionale”.
Nargess Mohammadi è avvocata, attivista per i diritti umani e vicepresidentessa del Defenders of Human Rights Center, guidato dal premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. Nel 2016 è stata nuovamente condannata a 16 anni di carcere per aver fondato e guidato “un movimento per i diritti umani che sostiene l’abolizione della pena di morte”.
Alieh Motallebzadeh è fotografa, giornalista e attivista per i diritti delle donne, nonché vicepresidentessa dell’Associazione per la difesa della stampa libera in Iran. Nel 2020 è stata condannata a tre anni di carcere per “cospirazione contro la sicurezza nazionale”.
Bahareh Hedayat è un’attivista per i diritti delle donne. Ha lavorato alla campagna “Un milione di firme” per cambiare le leggi discriminatorie contro le donne in Iran. È già stata incarcerata per sette anni dal 2009 e nel 2020 è stata nuovamente condannata a quattro anni di carcere.
Circa mezzo milione di lavoratori ha scioperato in Gran Bretagna il 1° febbraio nella più grande ondata di scioperi da oltre un decennio. Questo non solo ha comportato l’astensione dal lavoro della manodopera e l’allestimento di picchetti sul proprio posto di lavoro, ma spesso la partecipazione a vibranti dimostrazioni e comizi nei centri cittadini. L’azione aveva due obiettivi: da un lato, ulteriori controversie sui salari e sulle condizioni di lavoro con i propri datori di lavoro; dall’altro, l’opposizione alle leggi anti-sindacali ancora più dure che il governo britannico dei conservatori sta facendo approvare in fretta dal Parlamento di Westminster. Questo articolo inquadra la lotta in corso in un contesto più generale e illustra la situazione del sindacalismo in Gran Bretagna.
Il 1° febbraio sono entrati in azione sei sindacati. Il PCS (Public and Commercial Services Union), il sindacato della funzione pubblica, è stato il primo a chiamare a raccolta oltre 100.000 iscritti in 124 dipartimenti del Regno Unito e dei governi decentrati. In precedenza, i lavoratori di molti dipartimenti avevano raggiunto una soglia di partecipazione molto alta nelle votazioni a sostegno di un’azione di sciopero richieste delle leggi antisindacali e reazionarie esistenti. Gli iscritti al PCS in questi dipartimenti sono stati coinvolti in azioni a rotazione dalla fine di dicembre. Il sindacato sta procedendo a una nuova votazione tra gli iscritti in altri dipartimenti in cui i lavoratori non hanno ancora raggiunto la soglia di partecipazione richiesta.
L’UCU (University and College Union), il sindacato degli insegnanti dell’istruzione superiore e universitaria, ha chiamato a raccolta 70.000 iscritti nel settore universitario in questo giorno, nell’ambito di 18 giorni di azione che si svolgeranno nei prossimi due mesi, a seguito del fallimento delle ultime trattative con i 150 datori di lavoro, che non sono riusciti a presentare un’offerta in grado di sanare in alcun modo il taglio dei salari avvenuto negli ultimi 12 anni di governo dei conservatori. Anche la crescente precarizzazione del settore sta spingendo verso la militanza. I membri dell’UCU dell’istruzione superiore in Inghilterra e Galles non sono stati chiamati a scioperare il 1° febbraio, anche se sono anche loro in conflitto sui salari. Hanno compiuto brevi atti di solidarietà in qualche college. Gli insegnanti dei college scozzesi del sindacato EIS (Educational Institute of Scotland) hanno combattuto scioperi aspri ma vincenti negli ultimi anni e hanno fornito supporto logistico ai loro membri nelle attuali vertenze nelle scuole e nelle università. Alcuni membri dell’UCU sono anche arrabbiati per il dimezzamento del loro regime pensionistico.
Il sindacato dei macchinisti ASLEF (Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen) ha riunito il 1° febbraio la maggior parte dei suoi 21.000 iscritti, impiegati in oltre una dozzina di compagnie ferroviarie. L’ASLEF terrà ulteriori azioni dopo il mancato raggiungimento di un accordo con i datori di lavoro su salari e condizioni di lavoro; questo sarà il suo settimo giorno di sciopero. Anche il sindacato dei trasporti RMT (National Union of Rail, Maritime and Transport Workers) ha fatto scendere in campo i suoi membri macchinisti il 1° febbraio, mentre l’ASLEF sciopera un altro giorno. Sembra un’occasione persa per l’RMT, che per molti versi è stato la spina dorsale del movimento di sciopero dall’estate scorsa, dato che la maggior parte dei suoi membri non sono autisti ma svolgono altri ruoli. L’RMT sta sottoponendo al voto dei membri una nuova proposta, ma si prevede un rifiuto.
Per questi sindacati dei trasporti e per i loro passeggeri, la posta in gioco in queste vertenze, che per l’RMT hanno comportato azioni di sciopero per nove mesi, comprende anche importanti perdite di posti di lavoro. La proposta di far sì che molti treni siano guidati da un solo guidatore ha enormi implicazioni per la sicurezza e renderà i treni ancora meno accessibili alle persone disabili, molte delle quali dipendono dall’assistenza al momento di accedere o di lasciare i treni.
L’altro sindacato che ha intrapreso un’importante azione di sciopero in Inghilterra e Galles il 1° febbraio è il NEU (National Education Union), il principale sindacato degli insegnanti in questi paesi, che ha chiesto un aumento salariale equo e pienamente finanziato. Il NEU ha annunciato il risultato dello scrutinio il 16 gennaio. In Galles sono riusciti a ottenere risultati abbastanza forti da far scioperare tutti i loro iscritti, ma in Inghilterra hanno scioperato solo i membri del corpo docente, poiché una percentuale non sufficientemente alta di personale scolastico non docente ha restituito la scheda elettorale. Il secondo sindacato degli insegnanti in Inghilterra e Galles, il NASUWT (National Association of Schoolmasters/Union of Women Teachers), ha votato a grande maggioranza per lo sciopero, ma non ha raggiunto la soglia di partecipazione. Alcuni membri del NASUWT si sono uniti al NEU per scioperare, e oltre 40.000 nuovi membri si sono uniti al NEU da quando sono stati annunciati i risultati delle votazioni e il programma di sciopero.
L’istruzione scolastica in Scozia è diversa da quella dell’Inghilterra e del Galles, e il sindacato degli insegnanti, l’EIS, è impegnato in un diverso modello di azione sindacale, con scioperi nazionali di un giorno a gennaio, seguiti da un programma di azioni di un giorno a rotazione nei mesi di gennaio e febbraio che riguarderà due aree comunali alla volta. Seguiranno due giorni di sciopero a oltranza in tutta la Scozia il 28 e il 1° marzo. Si tratta di una vertenza tra i datori di lavoro degli enti locali e il governo del Partito Nazionale Scozzese (SNP), sostenuto dai Verdi. L’EIS è il principale sindacato delle scuole scozzesi, in particolare di quelle elementari, ma anche tre sindacati minori di insegnanti hanno votato per lo sciopero.
I picchetti nelle scuole e la partecipazione alle manifestazioni locali sono cresciuti in modo significativo durante l’azione, e i membri dell’EIS, prevalentemente donne, stanno diventando sempre più combattivi: è molto probabile che le scuole scozzesi vengano chiuse completamente per due giorni.
la popolarità delle lotte
Nonostante i media tradizionali abbiano attaccato gli scioperanti per mesi, spesso in collaborazione con il governo britannico, e abbiano cercato disperatamente di trovare presunti “esponenti dell’opinione pubblica” che li contrastassero, gli scioperi rimangono estremamente popolari.
Ci sono molti resoconti di genitori e studenti che si uniscono ai picchetti fuori dalle scuole a sostegno di coloro che vi lavorano. Anche gli studenti universitari che sostengono l’azione di sciopero dell’UCU si sono uniti ai picchetti e alle manifestazioni nei campus di tutta la Gran Bretagna, e i gruppi di solidarietà degli studenti in sciopero stanno iniziando a diventare una caratteristica della vita nei campus e a sollevare la questione dell’impatto del costo della vita su un milione di studenti, che attualmente è in gran parte nascosto.
Le manifestazioni del 1° febbraio sono state accolte dai clacson di autobus e auto che suonavano in segno di solidarietà e dalle persone che uscivano dai luoghi di lavoro e dalle case per applaudire. Un numero crescente di lavoratori riconosce che la crisi del costo della vita è un attacco a tutti noi, lavoratori e non, e a tutte le generazioni.
L’affluenza alle manifestazioni è stata impressionante. 40.000 a Londra, 9.000 a Oxford, 7.000 a Bristol, 1.000 a Cardiff, 500 a Swansea, 2.000 a Leeds, 4.000 a Manchester, 1.000 a Glasgow, 700 a Nottingham in una manifestazione al coperto, e molti altri in corteo in un numero minore in altri luoghi. Per molte altre proteste, i rapporti si limitano a dire che hanno marciato in migliaia.
Ciò che è stato importante, oltre all’affluenza, è stato lo stato d’animo: la certezza che le rivendicazioni salariali avanzate dai sindacati sono completamente giustificate e che i servizi forniti dai lavoratori, così come i loro salari, sono stati devastati da oltre un decennio di austerità. È chiaro che la “legge sui servizi minimi” – il nome formale della proposta di legge anti-sindacale – è uno scherzo di cattivo gusto in un paese in cui la carenza di personale e il sovraccarico di lavoro fanno sì che i servizi stiano fallendo, soprattutto nel servizio sanitario nazionale, e le leggi esistenti sono così draconiane. I sindacati britannici sono soggetti a leggi molto restrittive che ostacolano gli scioperi: devono tenere votazioni postali, cartacee e non elettroniche; devono votare un gran numero di iscritti; le controversie possono riguardare solo i singoli datori di lavoro, non gli organi di controllo come i governi; e gli scioperi devono essere comunicati con un preavviso di 14 giorni. La mancata osservanza delle regole porterebbe i tribunali a confiscare i fondi del sindacato e a perseguirne dirigenti e membri.
I media britannici fanno un gran parlare del fatto che nel 2011 più del doppio dei lavoratori ha scioperato contro gli attacchi alle pensioni del settore pubblico. Ma le situazioni non sono paragonabili. La maggior parte dei lavoratori sapeva già all’epoca che l’azione del 2011 non era altro che una protesta simbolica. Il 1° febbraio fa parte di un’ondata di azioni che per alcuni sindacati si è protratta per sette lunghi mesi, e che potrebbe non essere ancora terminata.
In Scozia e in Galles, i governi decentrati dell’SNP (con il sostegno dei Verdi) e dei laburisti (con il sostegno di Plaid Cymru, il “Partito del Galles”) hanno cercato di fare offerte salariali migliori rispetto al governo britannico dei conservatori, per cui alcuni scioperi sono stati evitati in uno o in entrambi i paesi. Formalmente, tutti e quattro questi partiti a prevalente influenza socialdemocratica sono favorevoli alle rivendicazioni sindacali e al diritto di sciopero. Tuttavia, non hanno i poteri legali o fiscali del governo britannico e i partiti socialdemocratici sono intrappolati nei vincoli della devolution britannica. A meno che non riescano a liberarsi da questa costrizione, alla fine saranno parte del problema piuttosto che della soluzione.
Azione futura
Se sei sindacati hanno scioperato il 1° febbraio, ciò non include tutti quelli attualmente impegnati in azioni sindacali. Nessun sindacato della sanità era in sciopero quel giorno, ma i quattro principali entreranno in azione in Inghilterra tra il 6 e il 10 febbraio. Il sindacato degli infermieri, il Royal College of Nursing (RCN), sciopererà il 6-7 febbraio. Per la maggior parte dei suoi 100 anni di storia, l’RCN ha vietato gli scioperi, quindi l’azione attuale segna un cambiamento significativo. Anche i lavoratori delle ambulanze aderenti alle due confederazioni GMB (General, Municipal, Boilermakers) e Unite the union (più conosciuta come Unite) sciopereranno in Inghilterra il 6 febbraio, mentre il terzo sindacato, l’Unison, ha indetto uno sciopero dei lavoratori delle ambulanze il 10 febbraio in Inghilterra. La Chartered Society of Physiotherapy sciopera il 9 febbraio. Quindi c’è un solo giorno della settimana in cui nessun operatore sanitario entrerà in azione. Anche i medici in formazione in Inghilterra, appartenenti al sindacato BMA (British Medical Association), stanno votando per un’azione di sciopero per la retribuzione, e gli scioperi potrebbero seguire a marzo. In Galles, il GMB ha sospeso l’azione per presentare ai suoi membri una nuova offerta del governo gallese.
Vanno citati altri due gruppi. I lavoratori postali del sindacato dei lavoratori della comunicazione (CWU-Communication Workers Union) hanno intrapreso 18 giorni di sciopero per le retribuzioni e le condizioni di lavoro prima di Natale.
In realtà, hanno avuto due votazioni separate a distanza di poche settimane l’una dall’altra – nessuno con cui ho parlato ne ha capito il motivo. In base alle leggi antisindacali in vigore, il loro mandato di azione sulle retribuzioni è scaduto e hanno dovuto ripetere le votazioni. La prima era sulla retribuzione, la seconda sulle condizioni – dove la direzione sta generalmente cercando di aumentare la produttività, costringere i conducenti di furgoni a diventare lavoratori autonomi e trasformare la Royal Mail in una società di consegna pacchi come Amazon.
In base alle leggi antisindacali vigenti, il loro voto per un’azione sulle retribuzioni è scaduto e hanno dovuto rifare le votazioni. Purtroppo, i risultati del ballottaggio non sono attesi prima del 16 febbraio e il preavviso di 14 giorni al datore di lavoro dell’intenzione di scioperare significa che gli scioperi su questo tema non possono essere ripresi prima dell’inizio di marzo. Nel frattempo, hanno annunciato uno sciopero per le condizioni di lavoro per il 16 febbraio, in una situazione in cui la direzione sta imponendo cambiamenti unilaterali.
Il sindacato dei vigili del fuoco, FBU (Fire Brigades Union), ha annunciato il 30 gennaio il risultato del voto per l’azione sindacale in tutto il Regno Unito, con un magnifico 88% di sì e un’affluenza del 73%. Hanno dato ai datori di lavoro e ai governi 10 giorni di tempo, fino al 9 febbraio, per presentare un’offerta migliore da sottoporre ai loro iscritti. L’FBU è relativamente piccola, con meno di 35.000 iscritti, ma in una posizione molto strategica.
Nel frattempo, per tutti i sindacati che hanno scioperato il 1° febbraio, quella giornata è stata solo una di una serie che varia a seconda del sindacato e del settore. Si sta discutendo di un’altra giornata di azione coordinata, forse all’inizio di marzo, e chi è particolarmente impegnato nella campagna contro le leggi antisindacali chiede una manifestazione nazionale contro la nuova legge. In ogni caso, il morale è indubbiamente più alto dopo il 1° febbraio che prima. Oltre un milione di lavoratori ha attualmente un’indicazione di sciopero, ma il 1° febbraio è stata la prima giornata coordinata in tutta la Gran Bretagna; molti si aspettano un maggiore livello di coordinamento in futuro.
I sindacati britannici sono all’altezza del compito che li attende?
La storia, il modello e le tradizioni dell’organizzazione sindacale in ogni paese variano. Una caratteristica insolita della Gran Bretagna è l’esistenza di un’unica confederazione sindacale a livello nazionale, il Trade Union Congress (TUC), a cui sono affiliati 98 sindacati, dunque quasi tutti. Ci sono delle eccezioni. L’RCN non è affiliato al TUC britannico ed è stato fondato come organizzazione professionale piuttosto che come sindacato. D’altro canto, esistono sindacati più piccoli, tra cui l’Industrial Workers of the World UK, l’Independent Workers Union of Great Britain e United Voices of the World, che si considerano più democratici dei sindacati tradizionali, spesso si rivolgono a gruppi di lavoratori della gig economy e di lavoratori migranti, e sono anche indipendenti dal TUC. In Scozia, da oltre un secolo esiste un centro indipendente per l’organizzazione sindacale, lo STUC (Scottish Trades Union Congress), ma i suoi iscritti si sovrappongono in larga misura a quelli del TUC; esiste un riconoscimento reciproco e lo STUC funziona in larga misura come organizzazione sindacale unitaria del paese.
Tra i sindacati affiliati al TUC ci sono differenze significative. Alcuni sono sindacati industriali che si organizzano in un singolo settore, mentre altri sono sindacati generali che reclutano in molti ambiti. Molti sindacati sono presenti in tutto il Regno Unito, compresa l’Irlanda del Nord, mentre alcuni reclutano anche nella Repubblica d’Irlanda. L’EIS, il sindacato degli insegnanti che si organizza solo in Scozia, è stato ricordato in precedenza, e c’è anche un piccolo sindacato dell’istruzione che si organizza solo in Galles. Stranamente, l’Artists’ Union of England sostiene solo gli artisti residenti in Inghilterra.
Tradizionalmente, la maggior parte dei sindacati industriali era affiliata al Partito Laburista, mentre quelli che si organizzavano nei lavori impiegatizi o nel settore pubblico avevano meno probabilità di esserlo. L’affiliazione consente ai sindacati di influenzare formalmente la politica del Partito Laburista. Ma spesso ha anche permesso a molti leader sindacali di opporsi agli scioperi sulla base del principio di “non disturbare il manovratore”. Questa cautela si applica non solo quando i laburisti sono al governo, ma anche nel periodo che precede le elezioni generali, quando si vuole presentare la cacciata dei conservatori come la cosa più importante, e a volte l’unica. Ma dato che la stessa TUC adotta lo stesso approccio, tali argomentazioni hanno un impatto anche sui sindacati non affiliati al Labour.
Il livello di organizzazione dei luoghi di lavoro varia enormemente. Prima della storica sconfitta dello sciopero dei minatori del 1984-85, c’è stato un aumento significativo del numero e del coordinamento dei delegati sindacali, rappresentanti eletti nei luoghi di lavoro e tra le sezioni di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro. Questi attivisti sono serviti come voce degli iscritti nelle controversie con la dirigenza, come nastro trasportatore di messaggi sindacali agli iscritti e come sfida alle idee di partenariato sociale che i sindacalisti a tempo pieno stavano cercando di diffondere.
Ma dopo la sconfitta degli scioperi dei minatori e di altri scioperi chiave, questo livello di militanza è stato seriamente indebolito dalle sconfitte industriali e politiche, tra cui i licenziamenti di massa e le chiusure in tutta l’industria.
Non è stato nemmeno possibile reclutare un numero significativo di nuovi attivisti più giovani, nemmeno nei settori pubblici e dei servizi in espansione, dato che la stragrande maggioranza dei dirigenti sindacali spingeva per il partenariato sociale o per un modello di “servizio” (iscriversi a un sindacato per ottenere un’assicurazione più economica, ecc.).
Lo spostamento a destra non è stato universale, ma i sindacati più piccoli e più militanti, come l’RMT e l’FBU, non sono riusciti a spostare l’equilibrio generale delle forze. Il numero di giorni di sciopero persi è sceso ai minimi storici, così come il numero di iscritti ai sindacati, soprattutto nel settore privato. La percentuale di dipendenti britannici iscritti ai sindacati è scesa al 23,1% nel 2021. Si tratta del tasso di iscrizione al sindacato più basso mai registrato tra i lavoratori del Regno Unito per i quali disponiamo di dati comparabili. Nel 1979, il TUC dichiarava di avere 13 milioni di iscritti; nel 2022, solo 5,5 milioni.
Gli scioperi degli ultimi sette mesi hanno iniziato a ribaltare la situazione, reclutando più iscritti al sindacato, motivando un maggior numero di attivisti e dando a molti il primo assaggio del loro potere collettivo. Il fatto che il governo britannico dei conservatori, spesso responsabile direttamente o indirettamente dei livelli salariali, sia intransigente e disprezzato, ha un impatto sulla dinamica. Mentre alcuni datori di lavoro del settore privato si sono accordati con accordi salariali a due cifre dopo nessuna azione di sciopero o controversie relativamente brevi, finora non c’è alcun segno di movimento in questi grandi scioperi del settore pubblico.
Ciò significa che, nonostante il fatto che i laburisti siano molto più avanti dei conservatori al governo nei sondaggi d’opinione del Regno Unito, qualsiasi tentativo di usare la retorica del “non disturbare il manovratore” non avrà un effetto significativo sulla combattività. Sta iniziando a svilupparsi anche un movimento sociale più ampio in solidarietà con gli scioperi, spesso ispirandosi ai gruppi di sostegno ai minatori che esistevano nel 1984-85 (e che sono stati rappresentati nel popolare film “Pride”). Le organizzazioni sindacali locali – i Consigli di categoria – sono state marginali per decenni, ma potrebbero iniziare a svolgere un ruolo più importante.
In molti sindacati, compresi quelli che stanno attualmente conducendo azioni di sciopero, i funzionari a tempo pieno, piuttosto che le persone elette dai membri laici, hanno la principale voce in capitolo nella gestione delle vertenze e nella proclamazione degli scioperi. I gruppi di sinistra nella maggior parte dei sindacati sono deboli e frammentati, e spesso passano tanto tempo a discutere tra loro quanto con il datore di lavoro o la burocrazia sindacale, e non si concentrano praticamente su come coinvolgere i nuovi attivisti che si stanno radicalizzando sul posto di lavoro.
Ciò significa che sono necessari due dibattiti strategici. Da un lato, è necessario discutere di come vincere negli scioperi in corso, un tema su cui la sinistra radicale è molto d’accordo con le parole d’ordine dell’escalation e del coordinamento. Ma al di là di questo, e a prescindere dal fatto che riusciamo o meno a respingere l’assalto ai nostri livelli di vita, alle nostre condizioni di lavoro e al nostro diritto di organizzarci, dobbiamo fare un passo indietro e considerare come rifare i nostri sindacati in modo che siano i lavoratori stessi a decidere come e quando agire, e non i dirigenti sindacali che sono nostri dipendenti, che dovrebbero essere lì per aiutare a mettere in pratica quelle decisioni, non per ostacolarne o smorzarne l’efficacia.