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Genova, assemblea pubblica sulla salute e sicurezza, sulla repressione nei posti di lavoro e nel territorio
Salute e sicurezza: questioni essenziali per lavoratori e lavoratrici che ogni giorno muoiono sul lavoro e sulle strade (in itinere), sacrificati sull’altare del profitto. Molti subiscono infortuni e malattie che danneggiano per sempre i loro corpi e la loro vita.
Salute e sicurezza: aspetti in stretto legame con la precarietà e i bassi salari. Per ricatto e ritorsioni si accettano attività rischiose, carichi e orario di lavoro disumani.
Repressione: fondamentale aspetto che conferma come la questione Salute e Sicurezza non sia “neutra”, ma rientri nello scontro fra le classi, fra salari e profitti, fra operai e padroni. A centinaia, negli ultimi tempi, si contano le rappresaglie aziendali contro lavoratori attivi e militanti sindacali che denunciano le violazioni delle norme antinfortunistiche. Ultimo, l’8 febbraio scorso, il licenziamento del sindacalista di Orsa-Porti a Gioia Tauro. Due giorni dopo, il 10 febbraio, sono morti due lavoratori nei porti di Trieste e Civitavecchia.
Sempre più spesso si assiste a incidenti di lavoro sul territorio che provocano disastri sino a causare stragi come quella del 29 giugno 2009 nella stazione ferroviaria di Viareggio; o l’esplosione al porto di Beirut nell’agosto 2020; o il disastro ferroviario del 4 febbraio scorso a East Palestine negli Usa. La battaglia dei portuali del CALP di Genova contro il traffico di armi ha sempre sottolineato anche questo aspetto.
La lotta per salute e sicurezza e contro la repressione deve essere complementare alla lotta per il salario, per condizioni di lavoro umane e contro la precarietà, una lotta che necessita della più ampia unità da parte delle organizzazioni del sindacalismo conflittuale, alternative al fallimentare sindacalismo collaborazionista di Cgil, Cisl, Uil.
Il Coordinamento Lavoratori/trici Autoconvocati (CLA) non è l’ennesima sigla sindacale. È nato per promuovere l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale: dei sindacati di base, delle aree di opposizione e dei gruppi operai organizzati nei confederali, quale strumento fondamentale per restituire fiducia nella lotta sindacale, anche in Italia. Il modo con cui i sindacati in Francia stanno conducendo la lotta contro la riforma delle pensioni è ricco di insegnamenti per militanti sindacali e lavoratori anche in Italia.
Il CLA promuove dunque l’assemblea su “Salute Sicurezza Repressione” con l’intento di contribuire all’unità d’azione del sindacalismo di lotta, discutendo di esperienze pratiche: dalla vertenza/mobilitazione per il lavoro in corso da un anno e mezzo alla ex Gkn agli scioperi del Coordinamento Macchinisti Cargo (CMC), macchinisti del trasporto merci delle ferrovie in lotta da un anno per sicurezza e migliori condizioni di lavoro; dalla Cassa di solidarietà tra ferrovieri, organismo trasversale per il sostegno a ferrovieri (e non solo) colpiti da ogni forma di rappresaglia aziendale e giudiziaria all’Assemblea 29 giugno, organismo di ferrovieri, lavoratori/trici, cittadini/e, a fianco della battaglia su verità, giustizia e sicurezza, dei familiari delle 32 Vittime di Viareggio. Si tratta di realtà che, in vari modi e forme, hanno rappresentato il protagonismo e la partecipazione dei lavoratori, oltre alla salvaguardia della propria autonomia e al rifiuto della delega.
L’invito alla presenza attiva è rivolto ai delegati Rsu/Rls, ai sindacati di base, alle aree di opposizione in Cgil, ai coordinamenti e alle reti nazionali, agli attivisti e ai lavoratori, che riconoscono la lotta sindacale come aspetto fondamentale dell’emancipazione della classe sfruttata e oppressa.
Domenica 5 MARZO h. 10.30-13.30 c/o il CAP di Genova
(Circolo Autorità Portuale, in via Albertazzi 3 R, di fronte la sede centrale di VVF)
Coordinamento Lavoratori/trici Autoconvocati (CLA) per l’unità della classe
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Francia, sulle pensioni si vincerà nelle strade e negli scioperi
Comunicato del Nouveau Parti Anticapitaliste del 21 febbraio 2023
I dibattiti dell’Assemblea nazionale si sono conclusi senza un voto sull’articolo che estende il diritto alla pensione a 64 anni e il periodo di contribuzione a 43 anni. Dall’inizio della sequenza parlamentare, abbiamo assistito a una mascherata di democrazia: i deputati di Macron non rappresentano la popolazione (l’affluenza al secondo turno delle elezioni legislative è stata solo del 46%), discutono senza alcun controllo e il dibattito è stato una specie di circo. Avrà comunque permesso di smascherare la menzogna della promessa di pensioni minime a 1200 euro lordi.
In sciopero dal 7 e 8 marzo
Una cosa è ormai certa: non vinceremo la battaglia all’Assemblea nazionale o al Senato, ma attraverso scioperi, manifestazioni e blocchi del paese. L’obiettivo è quello di colpire la classe dirigente, cioè il governo e il padronato. Martedì 7 e mercoledì 8 marzo, con tutti i mezzi possibili, dobbiamo fermare il lavoro, bloccare la produzione e organizzare manifestazioni ancora più grandi delle precedenti per dimostrare la nostra determinazione.
La giornata di mercoledì 8 marzo, giornata internazionale dei diritti della donna, avrà un ruolo importante perché, come tutte le riforme pensionistiche, il progetto del governo penalizza le donne, che hanno carriere più irregolari degli uomini. Come la storia ha dimostrato più volte, le rivendicazioni femministe aprono sempre la strada a una società più giusta e a una rivolta popolare contro le classi dominanti.
Giovedì 9 marzo le organizzazioni giovanili chiamano a una grande mobilitazione. L’ingresso dei giovani nel movimento deve essere incoraggiato da tutti: andando davanti alle scuole superiori per impedire gli interventi della polizia, aiutando i giovani a organizzare assemblee generali di discussione, a manifestare o ad avviare altri progetti dinamici e stimolanti!
Blocchiamo il paese!
In seguito, il movimento deve continuare con uno sciopero a oltranza. In molti settori, i sindacati chiedono uno sciopero a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo. Questo è positivo, ma ora è in ogni azienda, in ogni reparto e stabilimento, in ogni luogo di lavoro, che si deve porre la questione dello sciopero a oltranza e dell’occupazione delle fabbriche.
La storia recente dimostra che gli scioperi per procura non funzionano. Per vincere, dobbiamo essere ovunque e nello stesso momento! Abbiamo due settimane per assicurarci che tutti siano pronti a un movimento duro, organizzando la solidarietà tra gli scioperanti, pubblicando appelli unitari a impegnarsi nello sciopero e a prolungarlo.
La prova di forza contro Macron è iniziata e va vinta
Questo potere conosce solo i rapporti di forza. Dobbiamo unire tutta la rabbia contro di lui e far fiorire tutte le nostre richieste. Ogni richiesta, che sia sui salari, sull’occupazione, sul ritorno della pensione a 60 e 37,5 anni, ha ancora più possibilità di vincere in un contesto di lotta globale contro il governo.
Lavoratori in lotta, giovani, abitanti dei quartieri popolari, Gilet gialli… tutti abbiamo interesse a costruire un movimento politico contro Macron, contro la logica capitalista che mira a farci lavorare di più, più a lungo, per sempre meno soldi. C’è molto denaro nelle casse delle grandi imprese, delle grandi società per azioni. Prendiamoli per organizzare la società in modo diverso, per i nostri bisogni sociali, per fare scelte sociali e ambientali che facciano vivere meglio e in modo sostenibile le classi lavoratrici.
L’NPA propone di costruire un’alternativa politica a Macron, basata sulla mobilitazione, con tutti coloro che vogliono porre fine alle politiche pro-capitaliste, verso una società libera dallo sfruttamento e dall’oppressione.
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Francia, dalla battaglia per le pensioni alla costruzione di un’alternativa radicale
Comunicato congiunto delle tre organizzazioni politiche Ensemble!, Nouveau Parti Anticapitaliste e Rejoignons-nous
Le tre organizzazioni firmatarie di questo comunicato conducono discussioni con vari collettivi e partiti politici interessati alla prospettiva di costruzione di una nuova organizzazione politica a sinistra e hanno sottoscritto insieme il testo che segue, che è stato pubblicato nel Club di Mediapart.
La battaglia condotta il 19 gennaio contro il progetto Borne-Macron, che ha dato vita a una serie di massicce e combattive giornate di sciopero e manifestazioni indette da un’ ‘intersindacale unitaria, è decisiva. Questa brutale controriforma non mira a migliorare le pensioni, ma a peggiorarle.
Si oppone alla grande maggioranza della popolazione, dei lavoratori e dei giovani. La vittoria è quindi possibile! Metterebbe fine al deterioramento della qualità della vita di milioni di persone e migliorerebbe l’equilibrio sociale e politico dei prossimi anni.
Metteremo tutte le nostre forze in questa battaglia, formando un fronte comune con tutte le forze di sinistra ed ecologiste per sconfiggere questo nuovo progetto distruttivo del governo. È attraverso la mobilitazione generale, in particolare attraverso la costruzione di uno sciopero a lungo termine e a oltranza, che saremo in grado di respingere questo governo.
Contro il progetto Borne-Macron
Ci sono molti argomenti per opporsi a questa controriforma. Il rinvio dell’età pensionabile legale a 64 anni, accompagnato da un allungamento accelerato del numero di anni di contributi per ottenere un’aliquota piena, porterebbe a una riduzione delle pensioni per milioni di pensionati e aggraverebbe ulteriormente le disuguaglianze. Ciò avverrebbe in particolare per le donne, che hanno salari più bassi e carriere più brevi, e per le operaie e gli operai, che hanno un’aspettativa di vita sana più breve.
Questa controriforma distruggerebbe anche i “regimi speciali”, cioè i contratti collettivi legittimamente conquistati e negoziati, e renderebbe gli “anziani” ancora più vulnerabili sul mercato del lavoro.
I cosiddetti progressi presentati dal governo non sono tali: ad esempio, non ci sarà una migliore considerazione del disagio, poiché i principali fattori di disagio (movimentazione di carichi, posture dolorose, vibrazioni meccaniche, agenti chimici pericolosi) sono stati esclusi da Macron nel 2017. L’aumento della pensione minima a 1200 euro è subordinato a una carriera completa (che sarà dunque prolungata). Inoltre, questa pensione minima (corrispondente all’85% del salario minimo) esiste già dalla legge del 2003, che non è mai stata applicata!
Infine, gli argomenti che giustificano la riforma sono falsi: il sistema pensionistico non è in pericolo dal punto di vista finanziario (come afferma il Conseil d’orientation des retraites). In nessun caso i “risparmi” sulle pensioni dovrebbero essere utilizzati per finanziare altre spese pubbliche, come vuole Macron. Questo progetto non risponde ad alcuna necessità demografica o economica.
Come tutte le altre controriforme di questo governo, dalle ordinanze di Macron del 2017 a quella sull’indennità di disoccupazione del 2022, mira ad adattarsi al capitalismo predatorio, ad attaccare la spesa sociale, a incoraggiare la capitalizzazione per aumentare i profitti, a rendere più precari e docili i lavoratori e i pensionati. Non c’è quindi nulla da negoziare nel progetto di legge del governo.
Per opporci a questa controriforma capitalista, dobbiamo essere uniti nell’azione con l’unità sindacale e quella di tutte le organizzazioni della sinistra e dell’ecologia sociale e politica, fino al ritiro del progetto Borne-Macron, ma anche contribuire alla costruzione e alla diffusione di un progetto alternativo.
Per una riforma alternativa al servizio del mondo del lavoro
Chiediamo il pensionamento a 60 anni, una pensione minima pari al 100% del salario minimo, il ripristino dei fattori di disagio eliminati nel 2017 e una gestione democratica delle pensioni come di tutta la assistenza sociale. Insieme vogliamo il ritiro della controriforma di Macron e l’applicazione immediata di queste richieste sociali!
Presentiamo al dibattito anche proposte alternative e all’offensiva. Le pensioni sono un’estensione dei salari. Attraverso i contributi sociali, sono una parte della ricchezza collettiva che deve tornare a chi la produce. Imponiamo che i contributi sociali siano prelevati alla fonte su tutto il plusvalore delle imprese, prima di qualsiasi decisione sui dividendi e sulla distribuzione delle azioni.
Questa riappropriazione completa della ricchezza collettiva non può essere realizzata senza un controllo democratico da parte dei lavoratori sull’aliquota contributiva, la fine della CSG (la contribution sociale généralisée, una tassa “piatta” che grava su tutti i redditi, finalizzata a finanziare la previdenza e l’assistenza, ndt), delle esenzioni e della non compensazione dei contributi sociali, nonché il ripristino delle elezioni per i consigli di gestione della Previdenza sociale da parte del mondo del lavoro.
Chiediamo inoltre un tasso di sostituzione del 75% del salario lordo, che garantisca il mantenimento del tenore di vita, con pensioni indicizzate ai salari. Questo implica il ritorno a 37,5 anni di servizio per una pensione completa e l’abolizione del tasso scontato. Siamo contrari all’idea che la pensione dipenda dal “contributo” individuale di ognuno di noi. All’età di 60 anni, o di 55 per i lavori usuranti che riducono il tempo di permanenza in pensione in buona salute, tutti dovrebbero avere diritto all’aliquota piena. I periodi di studio e di disoccupazione devono quindi essere presi in considerazione. I giovani in formazione devono ricevere un pre-salario, invece di passare anni in una situazione di precarietà.
Chiediamo che venga mantenuto il salario migliore sia per i lavoratori del settore privato che per quelli del settore pubblico. Un progetto di pensionamento equo è inscindibile da un aumento dei salari e dei minimi sociali, da una reale equiparazione dei salari tra uomini e donne, dall’abolizione delle discriminazioni razziste e nei confronti delle/degli invalide/i nelle assunzioni, dalla sicurezza sociale universale o dalla garanzia di mantenere il proprio salario e i propri diritti durante i periodi di formazione e di assenza di lavoro.
Dobbiamo anche ottenere una massiccia riduzione dell’orario di lavoro con relative assunzioni, senza alcuna riduzione del salario, e il diritto di decidere sulle finalità del proprio lavoro. Diciamolo forte e chiaro: il mondo del lavoro è l’unico a produrre ricchezza. Dobbiamo quindi agire per prenderne il controllo, contro i padroni, e per una società giusta e dignitosa.
Per una trasformazione globale del sistema
Questa battaglia sulle pensioni ha anche altre fondamentali poste in gioco democratiche ed ecologiche. Oggi, gran parte dei pensionati vive in condizioni economiche e di salute che permettono alle loro attività (educative, di solidarietà concreta, ecc.), liberamente scelte e non di mercato, di contribuire alla qualità della vita sociale. Costringerli a lavorare più a lungo e renderli più precari prima e dopo il pensionamento indebolisce l’autonomia, i diritti e i poteri di tutti i lavoratori.
Inoltre, ostacola o addirittura impedisce lo sviluppo delle attività dei pensionati, che il più delle volte sono al di fuori delle logiche di mercato e fondamentali per la democrazia e l’ecologia. Il sistema pensionistico, infatti, permette a milioni di persone di smettere di partecipare alle attività produttive più inquinanti, ad alta intensità energetica e che distruggono il clima, e di dedicare il proprio tempo all’autoproduzione e alla cura. È quindi una parte importante della necessaria rivoluzione ecologica, verso un’altra economia, sociale, solidale e democratica, in rottura con il sistema capitalista.
Chiedere di andare in pensione prima, con un reddito migliore, dopo aver lavorato per meno tempo, meno intensamente, in modo più autonomo perché protetti dalla disoccupazione e con nuovi diritti democratici, tutto questo è parte integrante della lotta per un progetto di sviluppo alternativo.
Se vogliamo fermare i disastri sociali e le catastrofi ecologiche, se vogliamo uguaglianza, giustizia e democrazia per tutti, dobbiamo quindi vincere la battaglia contro questa controriforma, ma anche fare in modo che questa vittoria contribuisca a un’alternativa globale al sistema, che deve essere anticapitalista, femminista, antirazzista ed ecologica.
È con questo orizzonte di trasformazione rivoluzionaria della società che chiediamo la mobilitazione di tutte le forze del nostro campo sociale nell’attuale movimento, facendo delle giornate di sciopero del 7 e 8 marzo e del loro massiccio prolungamento nei giorni successivi passi decisivi verso la vittoria.
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Nicaragua, perché Daniel Ortega ha deciso di liberare e di privare della cittadinanza i prigionieri politici?
di Elvira Cuadra Lira, ricercatrice presso il Centro de Investigación de la Comunicación (CINCO) e l’Instituto de Estudios Estratégicos y Políticas Públicas (IEEPP) in Nicaragua, da Nueva Sociedad
La liberazione dei prigionieri politici in Nicaragia e il loro invio forzato negli Stati Uniti non costituiscono un atto umanitario da parte del regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo. E’, piuttosto, la rivelazione di un governo autoritario che si sente accerchiato e che cerca una qualche forma di normalizzazione.
Lo scorso 9 febbraio il Nicaragua si è svegliato con una notizia ce molti consideravano difficile da credere: Daniel Ortega aveva ordinato la scarcerazione di 222 persone recluse per motivi politici. Tra queste Dora María Tellez, la «comandante 2» della Revolución ed ex-ministra sandinista, e Cristiana Chamorro, incarcerata a seguito del suo tentativo di presentare la prorpia candidatura alle elezioni presidenziali del 2021.
Reclusi fino ad allora in vari centri di detenzione, compresa il famigerato carcere di El Chipote, i prigionieri politici sono usciti dal carcere e sono stati messi in volo charter diretto versso gli Stati Uniti. Le informazioni disponibili in quel momento erano scarse, ma il governo statunitense e vari familiari hanno conferato la notizia. Ma, quando gli ex-prigionieri politici erano già in volo, e prima che l’aereo atterrasse a Washington, l’Assemblea nazionale nicaraguense, controllata da Ortega, ha approvato una riforma costituzionale finalizzata a privare queste persone della nazionalità nicaraguense e a inibire in maniera perpetua i loro diritti politici e civili per “tradimento della patria”.
La notizia ha scatenato un turbine di emozioni tra i parenti dei liberati e degli esiliati, nella maggior parte della società nicaraguense, nella comunità internazionale e nella stampa. La percezione generale è stata di sollievo, considerando le numerose accuse di tortura e maltrattamento a cui erano stati sottoposti dalla loro cattura a metà del 2021, quando il governo Ortega iniziò un’escalation di violenza di stato che continua tuttora. Tra le persone rilasciate ed espatriate ci sono quelle che aspiravano a candidarsi alla presidenza nelle elezioni del 2021, leader di partiti politici, di organizzazioni civili e di movimenti sociali, nonché di organizzazioni giovanili. Ci sono anche numerosi giornalisti, diplomatici, uomini d’affari, difensori dei diritti umani, attivisti sociali, sacerdoti e persino sostenitori di Ortega che avevano osato criticarlo pubblicamente.
Gli arresti sono aumentati nel maggio 2021, nel contesto di una campagna per le elezioni presidenziali che si sarebbero tenute nel novembre dello stesso anno. Diversi candidati sono stati imprigionati e solo quelli che non contestavano il regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo, vicepresidente e moglie di Ortega, sono stati ammessi alla “competizione”.
Fin dall’inizio, i prigionieri politici e le loro famiglie sono stati considerati ostaggi da Ortega e trattati con crudeltà. Nell’agosto del 2022, Ortega li ha esposti all’opinione pubblica e gli effetti dei maltrattamenti ricevuti sono diventati evidenti. Gli arresti sono continuati e sono addirittura aumentati alla fine dello stesso anno, nel contesto delle elezioni municipali tenutesi a novembre. I dettagli della situazione vissuta dai prigionieri vengono ora alla luce. Poco dopo il loro arrivo a Washington, le testimonianze dei detenuti raccontano le torture, i trattamenti degradanti e le perversioni a cui sono stati esposti fin dal primo momento della loro detenzione – cibo scadente, isolamento, isolamento in condizioni di oscurità o di illuminazione permanente, interrogatori continui, mancanza di cure mediche, visite irregolari da parte dei familiari e divieto di visita dei bambini, tra gli altri. Dal loro arrivo negli Stati Uniti e una volta presa coscienza della loro nuova condizione, si interrogano sul loro futuro, sul luogo in cui si stabiliranno e sul destino dei loro parenti in Nicaragua ora che sono apolidi ed esiliati, come se si trovassero nel Medioevo.
Segnali preliminari e preparativi
Diverse dichiarazioni di funzionari del governo statunitense e dello stesso Daniel Ortega hanno chiarito che il rilascio, l’espatrio e l’esilio sono stati decisi unilateralmente e senza condizioni da Managua. Gli Stati Uniti hanno accettato di ricevere i prigionieri politici a condizione che fossero disposti a farlo e che avessero il passaporto. Al di là di questo, nessuno dei due governi ha riconosciuto alcun negoziato preliminare. Poco dopo dell’arrivo a Washington, il Segretario di stato americano Antony Blinken ha riferito di una conversazione telefonica con il ministro degli Esteri nicaraguense Denis Moncada, in cui ha affermato di aver discusso “l’importanza di un dialogo costruttivo tra gli Stati Uniti e il Nicaragua per costruire un futuro migliore per il popolo nicaraguense”.
Le dichiarazioni del governo statunitense, seppur stringate, rivelano l’esistenza di un canale di comunicazione aperto, ma ribadiscono che, se la deriva autoritaria continuerà, verranno mantenute le sanzioni sulle istituzioni coinvolte negli atti repressivi, sulla stessa famiglia presidenziale e su un buon numero di suoi stretti collaboratori. Inoltre, gli Stati Uniti hanno ripetutamente affermato che il primo passo per l’apertura di negoziati con il Nicaragua è la liberazione dei prigionieri politici e il ripristino delle libertà e dei diritti civili. Il primo passo è già stato fatto, ma il resto della società nicaraguense rimane ostaggio di un governo che negli ultimi due anni ha “istituzionalizzato” uno stato di polizia per mantenere il controllo e la sorveglianza sulla popolazione.
La coppia Ortega-Murillo ha ripetutamente chiesto la revoca delle sanzioni e ha sempre negato l’intenzione di negoziare, anche se i segnali di un loro tentativo in tal senso sono visibili da tempo, come si è saputo nel maggio 2022 quando è trapelato alla stampa che uno dei figli della coppia presidenziale si era avvicinato agli Stati Uniti. D’altra parte, fin dall’agosto 2022, quando Ortega ordinò di mostrare pubblicamente un gruppo di detenuti politici, furono lanciati allarmi per gli evidenti segni di torture e maltrattamenti, ma negli ultimi mesi dello stesso anno il trattamento dei prigionieri fu modificato con il miglioramento della qualità del cibo, la concessione di permessi per le visite con i figli e l’allentamento delle condizioni di isolamento.
All’inizio del 2023, Daniel Ortega ha fatto visita al fratello Humberto, generale in pensione, ex capo dell’esercito ed estraneo al governo, che nel 2019 aveva chiesto in una lettera la liberazione dei prigionieri politici. Quando la notizia dell’incontro è stata resa pubblica, un comunicato del governo ha affermato categoricamente che si trattava di motivi di salute, ma è chiaro che la conversazione ruotava anche intorno a questioni politiche e ha generato una serie di speculazioni che hanno portato a sospettare che ci fosse qualcosa in ballo. L’opacità con cui il governo nicaraguense gestisce l’informazione pubblica e la segretezza con cui si sono svolti i preparativi per la decisione presidenziale hanno reso impossibile vedere chiaramente i segnali e, di conseguenza, anticipare la liberazione dei prigionieri politici.
Uno scenario sfavorevole
Tra gli interrogativi sollevati dalla notizia, il più ricorrente è legato alle ragioni che hanno spinto Ortega e Murillo a espellere i prigionieri politici dal Nicaragua, soprattutto quando non c’erano negoziati o condizioni in ballo. Gli indizi si trovano nello scenario con cui è iniziato l’anno.
Ortega e Murillo si sono assicurati la continuità al potere con i risultati controversi delle elezioni presidenziali del 2021, perché i cittadini non avevano condizioni o garanzie per esercitare liberamente il loro diritto di voto (secondo il sito indipendente Urnas abiertas il tasso reale di partecipazione al voto nelle presidenziali del novembre 2021 sarebbe stato di solo il 18,5%, ndt). Consapevoli che il loro nuovo mandato iniziava con una legittimità ridotta al minimo tra i cittadini, hanno deciso di “istituzionalizzare” lo stato di polizia attraverso l’approvazione di un quadro giuridico che legalizza le politiche repressive e mette lo stato nel suo complesso al servizio del loro progetto politico dinastico e autoritario. Secondo i loro calcoli, con la legittimità che speravano di ottenere dalle elezioni, avrebbero potuto chiudere il capitolo della crisi socio-politica iniziata nel 2018 ed entrare in un periodo di maggiore stabilità. Tuttavia, il rifiuto dei cittadini di recarsi alle urne li ha costretti a cercare legittimità tra altri attori interni, come le imprese private e la Chiesa cattolica. Non essendo riusciti a ottenere legittimità anche in questi ambiti (l’alleanza con l’imprenditoria privata è stata rotta con il ciclo di proteste del 2018), hanno intrapreso una nuova ondata di violenze e persecuzioni, soprattutto contro vescovi e sacerdoti.
La deriva autoritaria ha isolato Ortega dalla comunità internazionale, che oltre a respingere l’escalation repressiva del 2021, ha chiesto condizioni e garanzie per i processi elettorali, il ripristino delle libertà e dei diritti dei cittadini, nonché la ricerca di una soluzione democratica alla crisi. Un gruppo di paesi europei, insieme a Stati Uniti e Canada, ha imposto sanzioni a diverse istituzioni direttamente collegate alle gravi violazioni dei diritti umani, a persone della più stretta cerchia di fiducia di Ortega-Murillo e a diversi membri della famiglia presidenziale. Di fronte a questo isolamento e a questo rifiuto, Ortega si è rivolto a paesi come la Russia, la Cina e l’Iran in cerca di sostegno politico ed economico, promettendo l’appoggio del Nicaragua in cambio di un tiepido sostegno e praticamente nessun beneficio in termini di cooperazione.
L’esaurimento e l’insoddisfazione stanno ora raggiungendo la sua stessa base d’appoggio, tanto che nell’ultimo anno si è verificata un’accelerazione dell’erosione del sostegno tra i suoi sostenitori. Numerosi dipendenti pubblici hanno lasciato il loro posto di lavoro per fuggire silenziosamente negli Stati Uniti, mentre diversi dei suoi stessi militanti sono stati puniti con il carcere e le minacce per aver espresso la loro insoddisfazione per la direzione del paese, per il modo in cui il partito del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) al potere viene gestito e per il livello di stanchezza causato dalla costante pressione del regime. Questo malcontento ha già raggiunto i livelli più vicini a Ortega e Murillo, che negli ultimi mesi hanno lavorato per riorganizzare la loro cerchia di fedeltà e fiducia.
A questo complesso scenario politico si aggiungono le difficili condizioni economiche e le sfavorevoli proiezioni per l’immediato futuro. Dall’inizio della crisi socio-politica nel 2018, i settori economici più importanti hanno subito un significativo deterioramento, mentre la disoccupazione, la povertà e l’economia informale sono aumentate. La pandemia di Covid-19 ha aggravato le già difficili condizioni del paese, portando a un esodo di massa di nicaraguensi verso gli Stati Uniti e il Costa Rica. Per sfuggire alla sorveglianza e al controllo politico e per trovare migliori opportunità di vita, circa il 7% della popolazione ha lasciato il Paese tra il 2021 e il 2022 (molto più del 10% della popolazione nicaraguense è emigrata in altri paesei, soprattutto USA e Costarica, ndt). Le fonti e i fondi del governo per i finanziamenti esterni si sono ridotti nell’ultimo anno e, sebbene le rimesse familiari dall’estero siano aumentate, non sono sufficienti a colmare i divari economici o a sostenersi nel tempo. Date queste condizioni, sembra logico che Ortega cerchi un’opportunità di negoziare con quello che considera il suo interlocutore e principale avversario: gli Stati Uniti.
Continuità della deriva autoritaria
Nonostante sia stato costretto a ammorbidire la repressione liberando gli ostaggi, Ortega mantiene lo stato di polizia e la persecuzione della popolazione nicaraguense. Persiste anche nella sua determinazione a punire coloro che considera nemici. È il caso del vescovo Rolando Álvarez, rapito dalla sua parrocchia lo scorso agosto e tenuto agli arresti domiciliari fino al 9 febbraio, quando si è rifiutato di lasciare il paese insieme al resto dei detenuti liberati. Per rappresaglia, Ortega ha ordinato l’anticipazione del suo processo ed è stato condannato a 26 anni di carcere per i presunti reati di “compromissione dell’integrità nazionale” e “diffusione di notizie false”. Da allora è detenuto nel carcere noto come La Modelo, secondo quanto dichiarato dallo stesso Ortega. Il Vaticano, per voce dello stesso Papa Francesco, ha espresso la sua preoccupazione per il vescovo Álvarez.
Le recenti misure non costituiscono quindi un atto di umanità, tanto meno di condiscendenza, poiché la decisione di espellere i prigionieri politici e di privarli della nazionalità e dei diritti di cittadinanza si aggiunge a un discorso che li accusa di essere “mercenari” antinicaraguensi. Inoltre, per Ortega si è trattato di mettere le mani avanti per garantire che nessuno di loro possa competere in un’eventuale competizione elettorale, uno scenario probabile se si faranno progressi nei tanto attesi negoziati con gli Stati Uniti.
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Siria, l’abisso siriano e l’abbandono internazionale
Si sono dovuti aspettare otto giorni perché il primo convoglio di aiuti umanitari specificamente destinati alle vittime del terremoto entrasse nel nord-ovest della Siria, martedì 14 febbraio 2023. Un convoglio composto da undici camion, una goccia d’acqua in un oceano di miseria. Secondo il Segretario generale delle Nazioni Unite, per aiutare le vittime del terremoto in Siria per tre mesi servirebbe l’equivalente di 400 milioni di dollari. A ciò si aggiunge l’incertezza su chi si appropria deglidegli aiuti, sotto varie forme, in primo luogo la rete mafiosa del governo di Bashar al-Assad.
Sivanka Dhanapala, rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Siria, ha dichiarato: “Per la Siria, questa è una crisi nella crisi. Abbiamo subito shock economici, il Covid e ora siamo in pieno inverno, con bufere di neve che imperversano nelle zone colpite”.
Prima del terremoto, Idlib ospitava circa 4 milioni di persone, 2,8 milioni delle quali sfollate a causa della guerra. Il dittatore Bashar al-Assad e i suoi complici della “sicurezza” sono soggetti a sanzioni occidentali per il loro coinvolgimento nella morte di circa 350.000 persone dal 2011, stando alle cifre fornite da diversi gruppi per i diritti umani.
Non esistono statistiche affidabili sul numero di persone morte in seguito al terremoto, mentre già cercavano di sopravvivere a temperature sotto lo zero, senza ricevere aiuto. Secondo le Nazioni Unite, il bilancio delle vittime potrebbe raggiungere le 4.400 unità. Il gruppo di soccorso della protezione civile siriana, i Caschi Bianchi, che opera nelle aree controllate dai ribelli, ha contato 2.274 vittime e circa 14.000 feriti nella regione nord-occidentale (secondo quanto riferito dal sito Middle East Eye il 17 febbraio).
Questo gran numero di feriti ha messo a dura prova un settore medico fragile, già alle prese con la carenza di medici, attrezzature mediche e medicinali dopo 12 anni di guerra. Ricevere migliaia di feriti mentre gli ospedali sono distrutti, danneggiati o non hanno personale qualificato a sufficienza, aggiunge un’ulteriore tragedia. Un fatto medico raramente menzionato dai media è che le persone schiacciate dalle macerie per un lungo periodo di tempo hanno bisogno di dialisi a causa della compressione delle fibre muscolari. Per questo sono necessarie macchine per la dialisi. Un’esigenza così urgente non viene soddisfatta.
È in questo contesto che i medici Raphaël Pitti e Ziad Alissa hanno inviato una lettera pubblica al presidente Emmanuel Macron, ospitata il 13 febbraio dal quotidiano Libération. La riproduciamo qui di seguito e indichiamo anche il modo per sostenere finanziariamente un’organizzazione medica che è presente da tempo in questa regione, nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli messi in atto con la metodica volontà distruttiva del regime di Bashar el-Assad. Questo aiuto a una popolazione molto disagiata, ferita nel corpo e nell’anima, dovrebbe trovare uno spazio che la Catena della Solidarietà non necessariamente occupa. (Introduzione a cura della redazione del sito A l’Encontre)
In Siria, giorni e giorni dopo il terremoto, dove sono gli aiuti internazionali?
“Signor Presidente della Repubblica,
è con un profondo senso di rivolta che noi, medici umanitari, presenti in Siria da dodici anni, chiediamo il suo impegno.
Il terremoto in Turchia e in Siria è un cataclisma senza precedenti. La risposta internazionale è inadeguata e non corrisponde alle dimensioni del disastro. Nel nord-ovest della Siria, le popolazioni già martoriate sono letteralmente abbandonate al loro destino. Sette giorni dopo la scossa e le sue scosse di assestamento, i soccorritori, il personale medico e le organizzazioni umanitarie, gli unici ad agire sul posto, non hanno ricevuto alcun sostegno dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che non hanno dichiarato l’emergenza. Non hanno preso la misura della deflagrazione rappresentata da questo terribile terremoto.
Le chiediamo, signor Presidente, in qualità di membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di introdurre una risoluzione per prolungare di un anno il corridoio umanitario di Bab al-Hawa e per riaprire un secondo corridoio umanitario a Bab al-Salam, essenziale per la sopravvivenza del popolo siriano. [1]
Dopo la guerra e il terremoto, il caos… Nel nord-ovest della Siria, il terremoto ha colpito una regione già devastata da dodici anni di guerra. Gli edifici sventrati, dove la gente viveva nonostante tutto e, per di più, sfollata in mancanza di qualcosa di meglio, sono completamente distrutti. A Jindires, a Sarmada, interi villaggi sono stati cancellati dalla mappa. Nel cuore della notte, alle 4 del mattino, di fronte al crollo del terremoto, coloro che erano riusciti a rifugiarsi all’esterno si sono ritrovati al freddo, a -4°C, con la neve a tratti, e con i vestiti che indossavano come unico bagaglio. Senza cibo, acqua potabile o riscaldamento, sono stati abbandonati. Hanno perso tutto per l’ennesima volta. Avevano sperimentato il bombardamento di diversi edifici nell’arco di uno o più giorni. Ma come affrontare un terremoto che distrugge diverse migliaia di edifici in una frazione di secondo?
Fin dal primo giorno, gli aiuti internazionali sono stati inadeguati. Per i primi tre giorni, i soccorritori sono stati costretti a rimuovere le macerie a mani nude a causa della mancanza di attrezzature per il sollevamento e il puntellamento. Oggi si è chiusa la finestra cruciale di 72 ore per la ricerca di sopravvissuti.
Il momento di agire è qui e ora
Se aspettiamo ancora, le persone continueranno a morire per mancanza di cure e di supporto per intervenire. I bisogni sono immensi e urgenti. Dobbiamo agire qui e ora, non domani per ricostruire sui morti. Gli operatori sono sovraccarichi negli ospedali, nei centri sanitari e nelle cliniche mobili. Sono a corto di tutto. Per il momento, curano i feriti solo con le scorte disponibili nei magazzini. Per quanto riguarda i sopravvissuti che si trovano senza casa, è necessario fornire loro aiuti di emergenza di base: tende, riscaldamento, cesti di cibo e cure mediche, ecc. Gli ospedali sono stati distrutti dalla guerra e le strutture mediche hanno dovuto chiudere per mancanza di fondi. Come possiamo quindi fornire una risposta di emergenza a un simile terremoto?
I corridoi umanitari transfrontalieri devono essere riaperti e resi operativi. Al momento in cui scriviamo, solo una decina di camion sono riusciti ad arrivare in territorio siriano, cinque giorni dopo la tragedia. La maggior parte di essi sono carichi di attrezzature inadatte alla crisi perché programmate da tempo, e rappresentano un aiuto molto limitato rispetto alle reali necessità della popolazione di far fronte alle dimensioni della tragedia che l’ha colpita. La Francia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, deve presentare una risoluzione per aumentare i corridoi umanitari e chiedere un “cessate il fuoco”. Infatti, il giorno del terremoto, mentre il villaggio di Marea piangeva i suoi morti, è stato bersagliato da bombardamenti, un attacco spietato e odioso.
Nel momento di questo cataclisma, la Francia potrebbe essere all’origine di una risoluzione di pace, di solidarietà, sinonimo di vita per i milioni di siriani.
Esortiamo pertanto la Francia e la comunità internazionale a istituire un aiuto d’emergenza su larga scala attraverso l’ultimo corridoio umanitario rimasto di Bab al-Hawa e riaprire il corridoio umanitario di Bab al-Salam, dove migliaia di persone sono sotto le tende in condizioni disastrose; istituire un ospedale mobile al confine turco-siriano per prendersi cura delle vittime del terremoto che non dispongono di strutture di rianimazione, ventilazione e dialisi; chiedere un cessate il fuoco immediato in Siria per facilitare gli aiuti alle vittime del terremoto; essere un attore nel rispetto del diritto umanitario internazionale per fornire aiuti completi a tutte le vittime del disastro in Siria, anche nel nord-ovest del Paese, a Idleb e nella sua regione. “
Firmano:
il dottor Ziad Alissa, anestesista-rianimatore, presidente Mehad (ex-UOSSM Francia)
e il dottor Raphaël Pitti, anestesista-rianimatore, specialista in medicina di guerra, responsabile della formazione MehadPer tutte le donazioni, cliccare sul seguente link: Mehad
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Francia, milioni di manifestanti pronti a paralizzare il paese
di Yorgos Mitralias
In Francia, quello che è successo nei tre giorni precedenti di mobilitazione popolare contro la (contro)riforma delle pensioni del governo, si è ripetuto nel quarto, sabato 11 febbraio: molte centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in 240 città, 2,5 milioni secondo le stime dei sindacati e circa 1 milione secondo la polizia. Tuttavia, il presidente Macron continua a provocare, incurante dell’opposizione della stragrande maggioranza della società francese, e sembra deciso a far passare la sua legge a tutti i costi e contro questa società…
Così, giorno dopo giorno, la crisi si aggrava e raggiunge il culmine, sia nelle strade che in parlamento, mentre le confederazioni sindacali, che rimangono unite, sono ora sottoposte a pressioni fortissime da parte delle loro basi per intensificare ulteriormente la loro azione, generalizzando gli scioperi e paralizzando di fatto il paese! Facendo un primo passo in questa direzione, i sindacati hanno indetto uno sciopero generale per il 7 marzo sia nel settore pubblico che in quello privato, invitando tutti i professionisti (commercianti, agricoltori, ecc.) a fare lo stesso.
Tutti i sindacati dei principali settori del trasporto urbano (metropolitane, autobus…) hanno già annunciato che dal 7 marzo paralizzeranno decine di città francesi con uno sciopero a oltranza, che sarà rinnovato ogni giorno dalle assemblee generali di tutti i lavoratori in sciopero, sindacalizzati e non. I sindacati delle raffinerie, dell’elettricità e dell’energia in generale, altrettanto importanti, stanno iniziando a fare lo stesso questa settimana. E le tre confederazioni sindacali più radicali, CGT, FO e Solidaires (SUD), sono già favorevoli a un’escalation della lotta, con il rinnovo quotidiano degli scioperi da parte delle assemblee generali degli scioperanti, mentre i messaggi che arrivano da ogni parte, anche dalla base della confederazione sindacale più moderata, la CFDT, non lasciano dubbi sullo stato d’animo della stragrande maggioranza dei lavoratori francesi: tutti vogliono un’escalation e una radicalizzazione della lotta!
Ciò che sorprende e non ha precedenti nella situazione attuale, tuttavia, è che lo stesso stato d’animo di indurimento della lotta prevale ora tra i settori sociali che prima stavano a guardare le lotte degli altri, o addirittura le osteggiavano attivamente. Così, secondo tutti gli ultimi sondaggi, mentre tre quarti dei cittadini francesi sono sempre più contrari alla (contro)riforma, il 40-45% sta cercando di “bloccare il paese” (!), ritenendo che questo sia l’unico modo per sconfiggere Macron e impedire l’approvazione della sua infame legge.
Quindi, tutti in Francia, amici e nemici, persino gli stessi parlamentari del governo, concordano sul fatto che ci troviamo di fronte a un rarissimo, se non inedito, scontro totale tra la “società profonda” e i suoi governanti neoliberali. E la cosa straordinaria è che il presidente Macron, il suo primo ministro Elisabeth Borne e i suoi ministri non stanno più cercando di persuadere l’opinione pubblica perché sembrano essersi resi conto di non poter fare nulla con questa schiacciante maggioranza di francesi! Ed è per questo che stanno facendo di tutto per far passare la loro legge a metà marzo in un caotico parlamento francese in perenne crisi di nervi, grazie al voto dei deputati della destra tradizionale, ma anche questo non è più scontato, anche se il suo leader storico, l’ex presidente Sarkozy, sta ora sostenendo con convinzione Macron…
Con l’acuirsi della crisi politica e la crescente radicalizzazione del movimento popolare, non è un caso che l’inquietante ed eloquente slogan/punizione “Voi ci fate il 64, noi vi rifacciamo il 68” (di cui avevamo parlato in un nostro precedente articolo) cominci a farsi sentire nelle manifestazioni di tutta la Francia e venga affisso sui muri delle città! Il fatto è che l’atmosfera è quella di una polveriera: i cittadini francesi di tutte le età, e non solo i salariati, sono determinati a fare tutto ciò che è in loro potere questa volta per sbarazzarsi non solo della famigerata legge, ma anche del “monarca” Macron e del suo regime. In altre parole, la scelta di Macron di trasformare la sua (contro)riforma delle pensioni in un simbolo della sua intera politica neoliberista e in una sfida centrale contro “quelli in basso” sta ora costringendo proprio “quelli in basso”, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini, a trasformare la loro opposizione alla legge in una sfida e in un confronto frontale con il “regime” di Macron e con le stesse politiche neoliberiste attuate da tutti i governi – di destra e di sinistra – degli ultimi 40 anni!
Naturalmente, molto dipenderà dall’ingresso in massa nella lotta dei giovani delle università e delle scuole superiori. Per il momento, la loro partecipazione alle manifestazioni è impressionante, ma le occupazioni di scuole e istituti superiori rimangono limitate (circa 15 università e 200 licei), mentre la repressione poliziesca dilaga e le condanne scandalose degli “occupanti” aumentano. Tuttavia, la “proletarizzazione” degli studenti e il loro crescente impoverimento li avvicina oggettivamente sempre più ai salariati e ai loro problemi. La maggior parte di loro è costretta a lavorare per sbarcare il lunario, mentre uno studente su quattro vive abitualmente ben al di sotto della soglia di povertà, ed è diventata una cosa normale che anche gli studenti senza fissa dimora facciano la fila ogni giorno per ottenere un piatto di cibo da un ente di beneficenza!
L’esito dello scontro è quindi incerto, ma gli eventi che seguiranno saranno certamente emozionanti. Macron sembra deciso a portare il conflitto alle estreme conseguenze, ma i lavoratori francesi non si arrendono e sembrano aver tratto utili lezioni dalle loro lunghe ma inefficaci lotte degli ultimi decenni: le manifestazioni sono buone e utili per la massificazione della lotta e l’autostima delle popolazioni in lotta, ma gli scioperi generalizzati e democraticamente “rinnovati” dagli stessi salariati, quando addirittura paralizzano il paese, sono certamente ancora meglio. E soprattutto più efficaci!
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Francia, contro Macron e il suo mondo, dal 7 e 8 marzo, blocchiamo il paese
Comunicato del NPA del 14 febbraio
Il 16 febbraio sarà il quinto giorno di mobilitazione di un movimento storico contro la riforma delle pensioni. In diverse città, le manifestazioni di sabato scorso sono state le più grandi della storia! Di fronte a ciò, Macron e il governo si danno un’immagine di intransigenza. Ma come possono mantenere una riforma tanto ingiusta quanto ingiustificata quando il 90% del mondo del lavoro rifiuta questo progetto? Macron e la sua cricca hanno perso la loro legittimità, ma hanno scelto di continuare il braccio di ferro. La posta in gioco è il blocco del paese per porre fine alla riforma e all’intero regime di Macron.
È tempo di regolare i conti
La profondità della mobilitazione esprime un rifiuto massiccio della riforma delle pensioni. Porta con sé anche richieste più ampie.
Innanzitutto, per i nostri salari, che sono stati ridotti un po’ di più dall’inflazione. Dobbiamo chiedere un aumento generale di 400 euro per tutti. Nessuno dovrebbe essere pagato meno di 2000 euro al mese. È il minimo per vivere dignitosamente! Inoltre, aumentare i salari significa aumentare i contributi pensionistici. Questa è la soluzione per riprenderci parte della ricchezza che i datori di lavoro ci stanno rubando, e per trovare i soldi che ci permetterebbero di riottenere la pensione a 60 anni dopo 37,5 anni di servizio!
Per i servizi pubblici distrutti da decenni di politiche liberiste e privatizzazioni, la sanità, la scuola, il settore energetico, l’industria farmaceutica, devono essere immediatamente ritirati dal mercato. Profitti e bene comune, profitti ed ecologia, sono incompatibili. Dobbiamo mettere i settori essenziali dell’economia al servizio del maggior numero di persone. Questo ci permetterebbe anche di recuperare enormi quantità di ricchezza che oggi sono monopolizzate da una piccola minoranza.
Per vincere, questa volta, niente sciopero per procura!
Martedì 7 marzo, l’intersindacale ha chiesto di fermare tutto, di bloccare il paese. Mercoledì 8 marzo, si creerà un collegamento tra lo sciopero contro la riforma e lo sciopero delle donne. In diversi settori, come la RATP, le intersindacali chiedono uno sciopero rinnovabile a partire da quella data. Se vogliamo vincere, non possiamo lasciare che alcuni settori vadano avanti da soli. È vero che i ferrovieri, i netturbini e i raffinatori hanno un potere di blocco più visibile rispetto ad altre professioni, ma isolati non saranno in grado di resistere. D’altra parte, il blocco della produzione industriale, delle amministrazioni, dell’istruzione… è altrettanto importante. Non esistono settori inutili. Tutti devono fare la loro parte per vincere!
Oltre al blocco del lavoro, dobbiamo pensare anche a forme di blocco territoriale. La questione della partecipazione al blocco del paese può essere discussa per distretto o per area occupazionale. In ogni caso, per essere più forti, per acquisire legittimità, dobbiamo organizzare assemblee generali e riunioni ovunque, nei luoghi di lavoro, nei quartieri o nei luoghi di studio, per discutere e organizzarci, con le organizzazioni sindacali, le forze politiche di sinistra, le associazioni e tutti coloro che vogliono contribuire alla vittoria.
Costruire un’alternativa anticapitalista a Macron
Con questa mobilitazione, Macron e il suo governo mettono in gioco il resto del mandato quinquennale. Anche noi! Vogliamo il ritiro della riforma ma anche la caduta di questo potere politico che non si fermerà alla riforma delle pensioni se gliela lasceremo fare.
Contro Macron e i suoi amici capitalisti, l’NPA difende l’unità di tutta la sinistra sociale e politica. E discute anche la costruzione di un’alternativa politica anticapitalista che riunisca tutti coloro che, sulla scia di una mobilitazione finalizzata a far cadere Macron e il suo governo, sono pronti a mettere in atto una politica fedele agli interessi dei lavoratori quanto Macron lo è al Medef e agli azionisti delle principali aziende del paese.
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Nicaragua, “Non ho tradito la giovane guerrigliera che ero”
di Atahualpa Amerise, da bbc.com
Intervista alla leggendaria guerrigliera nicaraguense Dora María Téllez rilasciata dopo 20 mesi di carcere.
Se c’è una figura dell’opposizione particolarmente scomoda per il governo di Daniel Ortega in Nicaragua, questa è Dora María Téllez. Con lo pseudonimo di “Comandante Dos”, Téllez (nata a Matagalpa nel 1955) ha combattuto a fianco di Ortega nella rivoluzione sandinista che nel 1979 ha posto fine a oltre quattro decenni di dittatura della famiglia Somoza.
Dopo aver partecipato ai primi governi sandinisti come ministro della Sanità, l’ex guerrigliera e storica si è disillusa e si è unita all’opposizione per rivendicare gli ideali di democrazia e giustizia sociale che considerava dimenticati. Il suo ex compagno di guerriglia, di nuovo al potere dal 2007, non l’ha mai perdonata.
Nel giugno 2021 Téllez è stata rinchiusa nella temuta prigione El Chipote di Managua per “tradimento” e successivamente accusata di “cospirazione”.
Il governo di Ortega e di sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo, ha deportato qualche giorno fa negli Stati Uniti gli oppositori, da studenti a sacerdoti e politici, considerandoli “traditori della patria” e revocando loro la nazionalità nicaraguense.
Tra questi c’è la figura leggendaria di Dora María Téllez, che BBC Mundo ha intervistato nella capitale statunitense 24 ore dopo il suo arrivo.
Perché pensa che siete stati rilasciati?
Perché abbiamo resistito più del regime. È una lotta di resistenza. Il regime non ha potuto resistere alla solidarietà internazionale, alle preghiere, alle suppliche che la gente ha fatto per noi nelle chiese o nelle loro case, alle pressioni dei nicaraguensi, dei governi e delle organizzazioni internazionali per il nostro rilascio. Abbiamo resistito e non c’è stato un solo prigioniero che abbia chiesto perdono a Daniel Ortega e Rosario Murillo, che abbia detto “fatemi uscire di prigione e parlerò bene di voi”. Neanche uno.
Come si è sentita quando è stata rilasciata?
Una volta sull’aereo, ho provato un’emozione contraddittoria. Lasciare il Nicaragua è un grande strazio, ma allo stesso tempo la gioia di essere liberi. Siamo liberi qui negli Stati Uniti, ma abbiamo il diritto di essere liberi in Nicaragua. È un nostro diritto come persone e cittadini.
Si dice che sull’aereo ci siano stati momenti di commozione.
Sì, ho visto il mio compagno dopo un anno e 8 mesi che non gli parlavo, perché era imprigionato in un’altro reparto del carcere. È stato un incontro con persone che non vedevamo, non toccavamo, non abbracciavamo, non parlavamo da molto tempo; i detenuti del Modelo (un altro carcere), le donne… è stata una cosa molto forte.
Come si sente rispetto alla perdita della nazionalità nicaraguense?
Francamente, nessuno può togliermi la nazionalità nicaraguense. Né Daniel Ortega né nessun altro. Sono nata in Nicaragua, sono figlia di nicaraguensi e ne ho diritto per territorio, per sangue, queste sono le mie radici e nessuno può togliermi la nazionalità. E recupereremo il diritto di dimostrare la mia nazionalità insieme a tutti i diritti dei nicaraguensi, perché non si tratta solo di noi. Gli Ortega-Murillo hanno tolto la nazionalità a tutti i nicaraguensi: non abbiamo diritto al voto, alla libertà di espressione, alla libertà di movimento, a nulla.
Quali erano le condizioni nel carcere dove ha trascorso 20 mesi?
El Chipote è un carcere di massima sicurezza dove quattro di noi donne sono state tenute in isolamento, in celle individuali separate, senza poter parlare con nessuno. Ho trascorso 20 mesi in un silenzio quasi totale. Ed ero in una cella completamente buia. Era sigillato con una lastra di cemento sopra, e se si entrava dal corridoio non si poteva vedere. Quando sono tornata dall’area del sole ho dovuto aspettare 20 minuti per vedere le cose nella cella.
Qual è stata la cosa più difficile?
La privazione totale. Il regime in quel carcere è concepito in modo tale da privarti di tutto: delle visite familiari, dei rapporti con la famiglia, della possibilità di difendersi rivolgendosi a un avvocato, dei libri o delle attività sociali. La socializzazione è ridotta a zero e questa è una forma di tortura emotiva e psicologica. Ho avuto fame due volte nella mia vita: una volta era fisica, di cibo, estrema, e questa volta era fame di vita, di non avere nulla da leggere. Leggevo le etichette delle bevande che mi arrivavano; sapevo a memoria quante calorie avevano, quanti grammi di zucchero, quante proteine, chi le produceva e dove, la data di scadenza, il numero di lotto, tutto.
Quali conseguenze ha avuto?
Ho avuto una depigmentazione della pelle, problemi di vista, di equilibrio, di denti e anche alcune lacune nella memoria, che si devono recuperare man mano che si entra in contatto con la realtà. Ogni volta che esco alla luce ondeggio, perché ho una perdita di equilibrio dovuta ai cambiamenti di luce, al fatto di essere sempre al buio. Ci sono altre persone che hanno perso i denti e soffrono di disturbi d’ansia, del sonno e della pelle.
Ha lottato per tutta la vita in Nicaragua, continuerà a lottare da fuori e quali sono i suoi piani?
Lo stesso. Noi nicaraguensi abbiamo il diritto di recuperare tutte le nostre libertà. Continueremo a lottare per questo obiettivo finché non lo raggiungeremo, e lo raggiungeremo. Sono convinta che siamo molto vicini a recuperare i nostri diritti di cittadini.
Perché lo vede così vicino?
Credo che il regime sia in un processo di decomposizione che si sta accelerando, e la prova è l’eccesso di controllo. Inoltre, il ricorso all’azione senza precedenti di espatrio forzato di oltre 200 nicaraguensi è un segno della loro incapacità di affrontare la resistenza del popolo nicaraguense e la solidarietà internazionale.
Come vi organizzerete?
Non lo sappiamo ancora perché è troppo presto. Il carcere è come una vertigine, bisogna adattarsi un po’, stabilizzarsi e pensare. Al momento i compagni stanno parlando con le loro famiglie e stanno valutando il da farsi.
Cosa resta della guerrigliera Dora?
Io stessa. È il mio passato e io sono il mio passato. Sono qui perché ero lì. In carcere uno degli agenti che facevano gli interrogatori mi ha fatto una domanda e io mi sono rifiutata di rispondergli senza vedere il mio avvocato o la mia famiglia. E mi disse: “Sei un ribelle”. E ho pensato: che gioia, essere un ribelle a 14, 16 o 22 anni è una meraviglia, ed essere un ribelle a 65 anni, come ero all’epoca, è un’altra meraviglia. L’essere umano vuole sempre essere migliore, quindi deve ribellarsi a ciò che è sbagliato. Se non c’è ribellione non c’è progresso.
Se avessimo detto alla guerrigliera Dora cosa sarebbe successo in Nicaragua, cosa avrebbe pensato?
Che qualcuno mi stava raccontando una brutta storia. Francamente, credevo che la rivoluzione stesse aprendo le porte a un Nicaragua diverso. Credo che la convinzione democratica della rivoluzione sandinista non fosse così profonda come la convinzione di giustizia sociale, ma non avrei immaginato che si evolvesse in una dittatura in stile Somoza. Sento di essere coerente con me stessa e con la giovane donna che ero. Sono di fronte a quella giovane guerrigliera e sento di non averla delusa.
E come si posiziona ideologicamente oggi?
Sono una donna di sinistra, ma non di una sinistra autoritaria, bensì di una sinistra democratica. Credo che ci debbano essere libertà individuali, libertà sociali e diritti sociali ed economici; che ci debba essere un’economia di mercato, ma anche la preoccupazione di migliorare le condizioni della maggioranza delle persone nei nostri paesi che sono estremamente povere. Nessun paese può andare avanti con l’estrema povertà e privazione che abbiamo.
Come vede la sinistra in America Latina?
Si sta evolvendo. Ho l’impressione che la sinistra autoritaria degli anni ’60, ’70 e ’80, persino quella di Chávez, sia stata soppiantata da altri modelli come la Colombia, Lula in Brasile, il Cile o l’Uruguay. È una sinistra che agisce come una sinistra democratica e questo mi rende molto felice, perché questo spostamento del modello stalinista è essenziale in America Latina.
E che dire dell’asse di sinistra Nicaragua-Venezuela-Cuba?
Cuba dubito che sia di sinistra e Daniel Ortega non è di sinistra; non ha un’ideologia. È un opportunista politico la cui unica ambizione è il potere e può destreggiarsi in qualsiasi cosa pur di rimanere al potere.
Come è passato il sandinismo in Nicaragua dalla lotta contro una dittatura alla situazione attuale?
È una questione complessa. Ma è un dato di fatto che all’interno del sandinismo si è generato quello che io chiamo Orteguismo, che è il nucleo ideologico e politico di questa dittatura; è lì davanti a noi. Ed è chiaro che le due grandi forze politiche del XX secolo, il liberalismo e il marxismo, hanno entrambe generato dittature.
Lei ha combattuto fianco a fianco con Ortega. Crede che fosse un idealista che è cambiato nel tempo, o ha sempre cercato il potere?
Non so, è una cosa che mi interessa poco. Quello che mi interessa è che Daniel Ortega e Rosario Murillo hanno una dittatura, una tirannia sul Nicaragua e sui nicaraguensi, e che noi liquideremo questa tirannia. Recupereremo i nostri diritti e le nostre libertà.
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Francia, cresce ancora la lotta contro la riforma di Macron
di Andrea Martini
Ha funzionato la scommessa dei sindacati. Persino il ministero degli Interni francese riconosce che alle manifestazioni di ieri 11 febbraio erano presenti ancora più persone, anche se continua il balletto delle cifre tra le valutazioni dell’Intersindacale (almeno 2,5 milioni di manifestanti) e le cifre “ufficiali” del governo (963.000). Era la quarta uscita in piazza quella di ieri 11 febbraio 2023, da Place de la République a Place de la Nation a Parigi (e in centinaia di altre città francesi), su appello dei sindacati CGT, CFDT, FO, SOLIDAIRES, SUD, UNSA e con la partecipazione dei partiti politici. In fondo all’articolo il comunicato dell’Intersindacale dell’11 febbraio
Così, i sindacati sono riusciti nella loro scommessa e mantengono la loro pressione sull’esecutivo, dicendosi pronti a “bloccare la Francia” il 7 marzo.
La CGT ha contato 500.000 persone nella marcia di Parigi, il ministero 93.000. Una società “terza” che ha effettuato delle valutazioni “obiettive” per conto dell’Agenzia France Press ne ha contate 112.000.
La mobilitazione di sabato per i sindacati non era alternativa agli scioperi ma, obiettivamente, ha consentito la partecipazione anche di persone che avrebbero avuto difficoltà in un giorno infraesettimanale. Infatti erano presenti anche molte famiglie, compresi molti bambini. Una donna, ingegnere di 43 anni, intervistata dalla AFP infatti ha dichiarato: “Sono qui perché è sabato, durante la settimana non sarebbe stato possibile”, e ha spiegato, guardando i i suoi tre figli, “anche per mostrare loro che dobbiamo difenderci”.
Prima della partenza della manifestazione parigina, i leader degli otto principali sindacati hanno confermato il loro appello per un quinto atto il 16 febbraio. Hanno inoltre dichiarato di essere pronti a “indurire il movimento” e a “bloccare il paese il 7 marzo” se il governo e il parlamento “rimarranno sordi” alle mobilitazioni.
Secondo Philippe Martinez (CGT), “la palla è nel campo” dell’esecutivo, mentre il suo omologo della CFDT Laurent Berger ha aggiunto che “vogliamo lasciare un po’ di tempo al governo se vogliono reagire”. Ma l’intersindacale dei lavoratori dei trasporti parigini (CGT, FO, UNSA, CFE-CGC) ha già indetto sabato il primo sciopero a oltranza del movimento, a partire dal 7 marzo. I ferrovieri della CGT hanno intenzione di fare lo stesso. L’aeroporto di Orly è stato bloccato dallo sciopero totale dei controllori di volo.
Come nelle precedenti occasioni, i cortei sono stati generalmente esenti da incidenti, a parte alcuni episodi a Rennes, Nantes e Parigi. Erano stati mobilitati 10.000 poliziotti e CRS (i reparti mobili della gendarmeria), di cui 4.500 nella capitale, dove 10 persone sono state arrestate.
Macron, che si trovava a Bruxelles, dove ha partecipato al vertice europeo, ha fatto orecchie da mercante , ma ha auspicato che “il lavoro possa continuare in Parlamento” senza che la protesta “blocchi (…) la vita del resto del Paese”.
I sindacati da parte loro sottolineano il rischio di una radicalizzazione della base e di “disperazione sociale” che potrebbe tradursi in un voto per l’estrema destra. “Il signor Macron, se conta sull’usura, è nel paese sbagliato”, ha sentenziato Jean-Luc Mélenchon, considerando il suo modo di agire come “un incitamento alla violenza”. “Se il governo non ascolta la mobilitazione è molto grave”, ha dichiarato Fabien Roussel (PCF). E Olivier Besancenot, portavoce del Nuovo partito anticapitalista ha detto durante un affollatissimo meeting del partito a Tolosa: “Colpiremo sempre più forte, tutti insieme, per parecchi giorni di seguito”.
In parlamento continua l’esame delle decine di migliaia di emendamenti presentati soprattutto dai deputati della Nupes, emendamenti che vengono discussi in un’atmosfera tumultuosa. “Vogliamo vedere chi voterà effettivamente a favore o contro”la misura sull’età” ha detto Philippe Martinez, il segretario generale della CGT, annunciando che è intenzione comune dei sindacati di chiedere a ognuno dei parlamentari dell’arco repubblicano (cioè escludendo l’estrema destra) che esprimano “la loro responsabilità”.
Oltre alle giornate del 16 febbraio e del 7 marzo, i sindacati stanno programmando azioni anche per l’8 marzo, la giornata dei diritti della donna, “per sottolineare la grande ingiustizia sociale di questa riforma nei confronti delle donne”.
Comunicato dell’Intersindacale dell’11 febbraio
Dal 19 gennaio, la popolazione ha continuato a dimostrare la sua forte determinazione a respingere il progetto di riforma delle pensioni del governo attraverso scioperi, manifestazioni e anche attraverso il sito internet della petizione online che ha raggiunto un milione di firme.
Con il passare delle settimane, anche i sondaggi mostrano un aumento di questo rifiuto massiccio, dato che oramai più di 7 francesi su 10 e 9 lavoratori su 10 si dichiarano contrari al progetto di riforma. Questo movimento sociale, di portata totalmente inedita, si è ormai affermato nel panorama sociale. Il governo, così come i parlamentari, non possono rimanere sordi ad esso.
Mentre i dibattiti parlamentari proseguono, i sindacati dei lavoratori e le organizzazioni giovanili continueranno e amplieranno la loro mobilitazione. Per questo motivo hanno indetto una giornata d’azione azioni in tutto il paese per il 16 febbraio. In questa occasione, i segretari generali o presidenti delle organizzazioni sindacali manifesteranno ad Albi (un comune di 50.000 abitanti nel Sud della Francia, ndt) per sostenere il forte radicamento di questo movimento ovunque sul territorio, nei piccoli centri come in quelli più grandi.
Inoltre, i parlamentari chiamati a pronunciarsi su questo progetto di riforma devono sentire, al pari del governo, il malcontento della popolazione, e il rifiuto massiccio di quel testo. È una loro responsabilità. È in questo contesto che tutti i segretari generali e i presidenti scriveranno a ciascun parlamentare dell’arco repubblicano per riaffermare la nostra opposizione e quella della popolazione. Allo stesso tempo, inviteremo le nostre strutture locali a interrogare i deputati e i senatori nelle loro circoscrizioni.
Infine, se nonostante tutto il governo e i parlamentari rimarranno sordi alla protesta popolare, l’Intersindacale chiederà ai lavoratori, ai giovani e ai pensionati di rafforzare il movimento facendo fermare la Francia in tutti i settori il 7 marzo.
L’intersindacale si mobiliterà l’8 marzo, giornata internazionale di lotta per i diritti delle donne, per sottolineare la grande ingiustizia sociale di questa riforma nei confronti delle donne.
L’intersindacale si riunirà la sera del 16 febbraio. Nell’ettesa, chiede al governo di ritirare il disegno di legge e ai parlamentari di assumersi le proprie responsabilità di fronte al massiccio rifiuto della popolazione di fronte a questo disegno di legge ingiusto e brutale.
Parigi, Bourse du Travail, 11 febbraio 2023
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Turchia-Siria, il terremoto si somma alla corruzione, ai profitti e ai regimi autocratici
di Elif Shafak, scrittrice turca che nel 2002 ha ricevuto il Premio degli scrittori turchi. Vive a Londra, il suo romanzo La bastarda di Istanbul (Ed. Rizzoli, 2013) tratta – attraverso la storia di due famiglie, una turca e l’altra armena – del genocidio armeno, che l’ha portata a essere perseguita ai sensi dell’articolo 301 del codice penale turco: “Umiliazione dell’identità turca”. Da Alencontre.org
Nel cuore della notte, un terremoto di magnitudo 7,8 ha colpito la Turchia sudorientale e la Siria settentrionale. Il suo epicentro è stato nei pressi di Gaziantep, una “Città gastronomica creativa” nominata dall’UNESCO, famosa per la sua cucina variegata e per i dolci al pistacchio. È sede del più grande museo di mosaici del mondo, con un’affascinante collezione proveniente dall’antica città di Zeugma sull’Eufrate. La scossa è stata così potente da essere rilevata dai sismografi di tutto il mondo. Alla fine del terremoto, interi edifici erano stati spianati, le strade sventrate e migliaia di persone intrappolate sotto cumuli di cemento. Nove ore dopo, un secondo potente terremoto ha colpito la stessa zona, con epicentro vicino alla città di Kahramanmaras. Con una magnitudo di 7,5, è stato quasi traumatico come il primo. Nelle gelide condizioni invernali, le persone sono rimaste senza casa e indifese, senza cibo e acqua. Anche coloro che sono stati estratti da sotto le macerie nelle prime ore della tragedia hanno rischiato di morire congelati. Si è trattato di un cosiddetto “disastro naturale di grandi proporzioni”. Ma a renderla così letale e a farle soffrire così tanto non è stata la natura stessa. Si trattava di sistemi di disuguaglianza e corruzione creati dall’uomo.
Il 17 agosto 1999 mi trovavo a Istanbul quando si è verificato il terremoto di Izmit di magnitudo 7,6. Non dimenticherò mai di essermi svegliata e di aver trovato l’intero edificio che oscillava come una zattera in una tempesta; un rumore assordante si levava dal suolo mentre le pareti si muovevano e crollavano gradualmente. Quella notte morirono circa 18.000 persone.
In seguito, mentre raccoglievamo le macerie fisiche ed emotive, sono state fatte grandi promesse alla gente. Le autorità hanno fatto discorsi infuocati su come le norme edilizie sarebbero state più severe. È vero che le norme sono state inasprite, ma tutto è rimasto sulla carta e non è mai stato pienamente attuato. Erano solo chiacchiere. Le crepe sono state coperte, le fessure sono state coperte con il “trucco” e gli edifici danneggiati sono stati rimessi in uso. I critici sono stati chiamati “traditori”.
La triste verità è che un numero allarmante di edifici nel mio paese è al di sotto degli standard. Interi isolati di case sono stati distrutti in questo terremoto; per il bene di maggiori profitti e guadagni, privilegi personali e nepotismo, sono state sacrificate delle vite. Il governo probabilmente darà la colpa ai singoli imprenditori. Molti sono i responsabili diretti di questa calamità, ma le autorità non possono fare così facilmente finta di niente. Sono stati concessi permessi ufficiali che non avrebbero mai dovuto essere concessi. Non sono stati solo gli edifici residenziali a crollare in quello che gli esperti chiamano “crollo a frittella”, ma anche gli edifici comunali, compresi gli ospedali che erano stati inaugurati con grande clamore.
Nessuna lezione dal passato
La Turchia ha un numero incredibile di scienziati e ingegneri. Molti di loro hanno supplicato i funzionari di prestare attenzione al pericolo imminente, ma le loro voci non sono mai state ascoltate dalla leadership. Al contrario, sono stati accusati di “incutere timore”.
Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) al governo ha periodicamente concesso “permessi di costruzione” a edifici che sfidavano palesemente le norme antisismiche. Secondo Pelin Pinar Giritlioglu, responsabile dell’Unione delle Camere degli Ingegneri e degli Architetti turchi con sede a Istanbul, solo nella zona sismica sono stati concessi permessi per 75.000 edifici. Il geologo Celâl Sengör sostiene giustamente che la concessione di tali permessi generalizzati in un paese dilaniato da linee di faglia è a dir poco un crimine. È dolorosamente ironico che il governo stesse per adottare una nuova dispensa generale solo pochi giorni prima del disastro. Non hanno mai imparato dalle sofferenze e dagli errori del passato. Non si sono mai liberati della loro arroganza. L’avidità e il clientelismo [due caratteristiche esacerbate dalla logica inarrestabile della rendita fondiaria urbana che assicura una rapida accumulazione di capitale finanziario – ndr] sono stati i principi guida di coloro che dominano.
Terremoto e democrazia
Dopo il terremoto del 1999, lo Stato ha imposto una tassa i cui proventi avrebbero dovuto essere utilizzati per il disastro successivo. Ma quando gli è stato chiesto del denaro nel 2020, il presidente Recep Tayyip Erdogan si è arrabbiato per aver dovuto spiegare come era stato speso: “Abbiamo speso i fondi per ciò che era necessario”, ha detto ai giornalisti. Non c’è trasparenza, ma solo censura e soppressione sistematica delle informazioni.
Esiste una correlazione tra la mancanza di democrazia in un paese e il livello di distruzione lasciato in seguito ai disastri naturali. In una democrazia funzionante, chi è al potere può essere chiamato a rendere conto del proprio operato, ci sono controlli e contrappesi per controllare la spesa e il pubblico viene informato in ogni fase. In assenza di democrazia, la sofferenza umana è inevitabile.
Pianto e indignazione
Lo stato non è riuscito a condurre operazioni di soccorso rapide e sistematiche. In molte zone del disastro, le persone sono state abbandonate a se stesse, cercando di salvare i propri cari a mani nude, scavando tra le macerie con quello che riuscivano a raccogliere. Alcuni sono riusciti a sentire le voci sotto le rovine e hanno provato l’immenso dolore e il trauma di non poter aiutare le loro famiglie e i loro amici. Un padre è rimasto seduto per ore a tenere la mano della figlia morta, con il solo braccio visibile attraverso il cemento. Per ore incredibilmente lunghe, nessun aiuto ufficiale è arrivato in città come Hatay, al confine con la Siria. Le persone intrappolate sotto gli edifici distrutti hanno inviato tweet che indicavano la loro posizione, implorando aiuto. È incredibile che l’accesso a Twitter sia stato bloccato dal governo il giorno successivo [in seguito alle critiche rivolte a Erdogan], in un momento in cui ogni minuto era fondamentale per salvare vite umane.
C’è tanta rabbia, tanto dolore. Che ci troviamo in Turchia o nella diaspora, oscilliamo tra il dolore e la rabbia. Un attimo prima piangiamo in modo incontrollato, un attimo dopo bruciamo di indignazione, consumati da un senso di impotenza. Il terremoto ha rotto qualcosa nella psiche collettiva.
Giustificare l’ingiustificabile
Nel frattempo, Erdogan fa quello che fa sempre: attacca i suoi critici e mette a tacere le loro voci. In nome dell’“unità nazionale”, ci si aspetta che siamo silenziosi e compiacenti, che chiudiamo la bocca e siamo riconoscenti. Erdogan riconosce che ci sono state “carenze” nella risposta del governo, ma punta il dito contro le condizioni meteorologiche, aggiungendo che non era possibile prepararsi a un disastro di questa portata, cosa semplicemente non vera. Un terremoto di questa portata avrebbe lasciato danni immensi in tutto il mondo, ma non su scala così terribile se gli edifici fossero stati costruiti a norma e se i soccorsi fossero stati coordinati correttamente.
La solidarietà vera
È evidente che molti cittadini turchi non si fidano del governo e delle sue istituzioni di parte e politicizzate. Le organizzazioni più affidabili per le operazioni di soccorso sono state le iniziative della società civile, come l’associazione di ricerca e soccorso AKUT e, in particolare, AHBAP, una ONG che è diventata un faro di speranza per innumerevoli persone.
C’erano raggi di luce in mezzo alle tenebre. I turchi non dimenticheranno mai le squadre di soccorso accorse da tutto il mondo per salvare vite umane. Dal Messico alla Spagna, al Regno Unito, all’Ungheria, a Israele, all’Armenia e persino all’Ucraina devastata dalla guerra. La Grecia è stata uno dei primi paesi a inviare aiuti. Le stazioni televisive greche iniziavano i loro notiziari con una canzone molto popolare su entrambe le sponde dell’Egeo. Non conosco nessuno che possa guardarlo senza scoppiare a piangere. Su un paio di guanti inviati dalla Grecia con attrezzature vitali, c’era un biglietto scritto a mano in greco e turco: “Che tu possa guarire presto, komsu/vicino”.
Non dimenticare nessuno
È anche importante notare che la terribile situazione in Siria non ha ricevuto sufficiente attenzione da parte dei media globali. In molte aree, l’accesso rimane limitato. Si tratta di aree che ospitano molti rifugiati, aree che hanno già sofferto per la povertà, i conflitti e la guerra. Sia la Turchia che la Siria hanno urgente bisogno di assistenza. Ricordiamo anche che le donne e i bambini sono colpiti in modo sproporzionato nei disastri. Dobbiamo creare spazi sicuri per loro, e soprattutto per i bambini che hanno perso i genitori.
Al momento in cui scriviamo, il bilancio delle vittime è di oltre 19.000 persone [ormai se ne contano quasi 30.000, ndt] e l’orribile verità è che la cifra reale sarà molto più alta.
Tra egoismo e altruismo
Ci sono stati anche dei miracoli. I bambini bellissimi e con gli occhi spalancati tirati fuori da sotto le macerie, l’uomo che, dopo essere stato salvato, ha abbracciato ognuno dei suoi soccorritori, il bambino nato sotto le macerie in una zona curda, con il cordone ombelicale ancora attaccato alla madre morta. Ci sono stati momenti incredibili di resilienza.
Nel Signore delle mosche (1956), lo scrittore William Golding ha sottolineato che gli esseri umani sono selvaggi ed egoisti per natura, e in tempi di calamità questo diventa ancora più evidente. Ma la risposta a questo terribile terremoto è stata di segno opposto: un’enorme ondata di solidarietà ed empatia nella regione e non solo. Gli esseri umani si sono comportati in modo più simile a quello descritto dallo storico olandese Rutger Bregman nel suo libro Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, dimostrandosi capaci di gentilezza e altruismo.
Tuttavia, il terremoto e le sue dolorose conseguenze hanno dato ragione a Golding. La sua descrizione della natura umana egocentrica ed egoista si adatta perfettamente allo stato della politica e di chi detiene il potere nella mia patria: la Turchia.