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Hugo Blanco ci ha lasciati
di Fabrizio Burattini
E’ morto ieri, 25 giugno 2023, Angel Hugo Blanco Galdós, leader della sinistra peruviana ed ex deputato della Repubblica. Ce lo hanno comunicato ieri i figli.
Hugo Blanco Galdós aveva 88 anni, perché era nato a Cuzco il 15 novembre 1934.
La notizia di un’indigena che era stata marchiata a fuoco sulla natica dal padrone del latifondo in cui viveva segno l’infanzia di Hugo e ne condizionò le scelte di vita.
Più grande, nel 1954 si recò a La Plata, in Argentina, per studiare agronomia e là conobbe il movimento trotskista, abbandonò gli studi e andò a lavorare come operaio in una fabbrica di confezioni di carne, dove fece le sue prime esperienze sindacali.
Durante il suo soggiorno in Argentina, il 16 settembre del 1955, si verificò il colpo di stato del generale Eduardo Lonardi contro Perón e Hugo Blanco partecipò alla resistenza al golpe.
Tornato in Perù aderì al Partido Obrero Revolucionario (POR) di Lima e si trasferì di nuovo a Cusco, il suo dipartimento natale, dove sposò Vilma Valer Delgado, originaria di Apurimac, con la quale ebbe la sua prima figlia.
Là iniziò la sua militanza nei movimenti e nei sindacati contadini, dove arrivò ad essere eletto nel 1962 segretario generale della Federazione Contadina Provinciale de La Convención, la zona di Cuzco.
Da quella postazione Hugo Blanco chiamò le forze della sinistra peruviana a sostenere le occupazioni di terre da parte dei contadini. Nacque così, su sua iniziativa, il Fronte della Sinistra Rivoluzionaria (FIR), di cui uno dei principali leader fu Juan Pablo Chang Navarro, che anni dopo morì con Che Guevara in Bolivia.
Nel 1962, durante una rivolta contadina, l’hacienda di Santa Rosa a Chaupimayo, di proprietà della famiglia Romainville, si organizza in autogestione. I contadini si organizzano in brigate di autodifesa per protestare contro i proprietari terrieri per i loro abusi.
Il governo rispose a questa radicalizzazione con una violenta repressione in tutta l’area. Così, diversi sindacati scelsero di difendersi e incaricarono Blanco di organizzare e guidare un’autodifesa armata. Nel maggio 1963 la colonna di autodifesa contadina “Brigada Remigio Huamán” (dal nome di un contadino ucciso dalla polizia), guidata personalmente da Hugo Blanco, si scontra con la polizia sopraggiunta a garantire il diritto di proprietà dei latifondisti. Nello scontro periscono tre poliziotti.
Hugo viene così arrestato e minacciato di pena di morte.
Si sviluppa così una campagna internazionale per salvargli la vita “Hugo Blanco non deve morire!” (di cui sono reperibili i materiali su “Bandiera rossa”, il periodico dei trotskisti italiani). La campagna, che raccolse tra le altre migliaia le adesioni di Amnesty International, di Jean-Paul Sartre, di Simone de Beauvoir, e di Mario Vargas Llosa, riuscì a far commutare la condanna in 25 anni di carcere.
Hugo restò in carcere otto anni, nel bagno penale dell’isola di El Fronton, fino all’amnistia concessa dal presidente generale Juan Velasco Alvarado nel 1970, ma fu esiliato in Messico, e poi in Argentina (dove venne arrestato), infine in Cile.
Durante la sua permanenza in Cile, sotto il governo di Salvador Allende, Hugo collabora con il movimrnto dei “cordones industriales”: Dopo il golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, riuscì a sfuggire alla repressione che colpì i numerosissimi rivoluzionari di altri paesi latinoamericani che si erano rifugiati in Cile, rifugiandosi nell’ambasciata svedese, nella quale ottenne l’asilo politico nel paese scandinavo.
Nel 1976, dopo la crisi del governo militare guidato dal generale Francisco Morales Bermudez, Blanco riuscì a tornare in Perù, dove si candidatò all’Assemblea Costituente nelle liste del Frente Obrero Campesino, Estudiantil y Popular, FOCEP (Fronte dei lavoratori, dei contadini, degli studenti e del popolo).
Hugo Blanco riesce così a parlare a più riprese alla televisione, negli spazi gratuiti consentiti dalla campagna elettorale. E lì denuncia, senza mezzi termini, l’esorbitante aumento dei prezzi dei generi alimentari di base e fa appello alla partecipazione ad uno sciopero generale indetto dalla Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù (CGTP).
Ciò spinge il governo ad espellerlo di nuovo. Ma, a seguito della sua elezione alla Costituente con il voto più alto tra i candidati della sinistra, gli è stato permesso di tornare in Perù.
Successivamente, sarà deputato al parlamento (1980-1985) per il Partido revolucionario de los trabajadores peruanos e membro della Commissione per i diritti umani della Camera dei deputati.
Fu poi di nuovo eletto come senatore nel 1990 per Izquierda Unida, ma il suo mandato è stato interrotto violentemente dopo l’ “autogolpe” di Alberto Fujimori nel 1992.
Nel 1994, quando viveva temporaneamente in Messico, la ribellione zapatista lo indusse a riflettere sul ruolo strategico delle popolazioni indigene.
Il mensile da lui diretto “Lucha Indígena” ha pubblicato numersi articoli su vari temi legati alle lotte indigene e contadine. Autore di vari libri (segnaliamo Terra o morte” del 1971 e Noi, gli indios nel 2017).
Per me, come per molti altri allora giovani trotskisti, è stato un esempio, un punto di riferimento. Quando verso la metà degli anni ’70 in Francia ebbi l’onore di incontrarlo, di stringergli la mano e di ascoltarlo, fu un po’ come aver incontrato Guevara.
Oggi, di fronte alla notizia della morte, ci resta comunque il suo esempio indelebile.
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Ricominciare su nuove basi
Questo testo vuole affrontare il tema della necessità ed urgenza di superare l’attuale fase socioeconomica globale nella prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo. Naturalmente il tema è complesso e richiede uno sforzo collettivo da parte delle soggettività politiche, sindacali, di movimento a livello internazionale. In questa sede si vogliono solo gettare delle coordinate utili per sviluppare il dibattito.
C’è sicuramente ampio consenso sulla drammaticità della situazione sociale e politica che stiamo attraversando. Ma, nella “sinistra radicale” manca invece una sufficiente consapevolezza del fallimento storico di tutto ciò che, negli scorsi decenni, si è autodefinito “sinistra”. E, di conseguenza, non c’è affatto la percezione di dover ridefinire i programmi e le strategie.
Invece, noi crediamo che avere coscienza di ciò sia la premessa necessaria (ovviamente non sufficiente) per una “ripartenza” che deve necessariamente innovare metodi, prospettive, forme dell’azione politica, adeguandola ai nuovi scenari che hanno stravolto la storia di questo secolo.
Assistiamo impotenti alla distruzione e all’eliminazione delle conquiste e dei diritti, tutti reinterpretati a favore delle élite e delle grandi imprese.
Potremmo perfino dire che la stessa categoria di “essere umano” viene riconfigurata in base al denaro che ciascuno possiede, al luogo in cui si è nati, al colore della propria pelle.
Cosicché il sistema universale di protezione dei diritti umani si trova in una fase di accelerata decomposizione. Ogni quattro secondi un essere umano muore di fame. Ogni giorno sette persone muoiono nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ogni undici minuti una ragazza o una donna viene uccisa da un familiare. Gli ultimi otto anni hanno registrato le temperature più alte degli ultimi secoli. Il lavoro minorile è potentemente riemerso anche nel “Nord del mondo”. Ovunque, la violenza contro le donne, contro gli attivisti ambientali e contro i difensori dei diritti umani è in aumento: in Colombia, nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati assassinati 55 leader sociali.
Tutto ciò viene presentato come “incidente” collaterale che non avrebbe nulla a che fare con il modello altrimenti trionfante, come errori che l’evoluzione dello sviluppo neoliberale correggerà, quando invece tutte queste tendenze si stanno espandendo in maniera pervasiva perché intrinsecamente necessarie al “modello capitalistico terminale”.
Le crisi interconnesse tra loro
Il pianeta intero sta attraversando una crisi multidimensionale che si intreccia con l’inasprirsi dell’offensiva capitalista.
Generalmente, si analizzano separatamente le diverse “crisi” che attraversano il pianeta: ecologica, economica, demografica, militare, democratica. Sarebbe, invece, più produttivo cogliere la radice di tutte le espressioni della “crisi complessiva”, cioè la sempre più evidente incapacità del modo di produzione capitalistico di continuare a reggere il sistema mondo.
Occorre dire che il capitalismo oggi, proprio per le sue molteplici e sempre più gravi crisi, non appare più agli occhi delle grandi masse un sistema sociale ed economico portatore di uno sviluppo culturale e sociale, per quanto disegualmente distribuito. Ma, paradossalmente, il capitalismo continua a raccogliere un consenso passivo e spesso regressivo proprio perché appare privo di qualunque alternativa.
Questa assenza di alternative è il suo principale strumento di conservazione, imposto sia grazie al collasso del “modello sovietico”, sia grazie al largo fallimento di tutte le principali correnti della sinistra “novecentesca”.
La tradizionale divisione dei paesi del mondo in due sfere di influenza con riferimenti economici sociali e politici diversi è finita con la caduta del muro, ma, invece di un nuovo ordine mondiale, si è prodotto un disordine crescente con l’emergere di potenze sub-regionali e super-regionali in competizione economica, politica e, in prospettiva, militare.
I conflitti si moltiplicano e si cronicizzano ed i protagonisti non sono solo gli stati, ma anche le fabbriche d’armi, le agenzie del capitalismo militare, mentre i “nuovi capitani di ventura” tendono ad assumere funzioni di gestione amministrativa.
La crisi economica non si deve misurare solo in termini di diminuzione complessiva del PIL e di aumento dell’inflazione, ma, più concretamente, in un aumento generalizzato delle disuguaglianze, un impoverimento progressivo delle classi medie e una crescente emarginazione dei diseredati, espulsi dal contesto del vivere civile.
Il disastro ecologico produce effetti disastrosi, alcuni previsti e prevedibili, altri inattesi: il sistema è definibile fisicamente con una dinamica non lineare, ma “caotica”. Il disastro ecologico non è solo relativo ai cambiamenti climatici, ma include elementi quali il consumo di suolo, l’inquinamento, l’estinzione di numerose specie, i disequilibri microbiotici con periodiche ripetizioni di pandemie delle quali è imprevedibile il tasso di letalità.
L’atteggiamento dei governi e dei centri di potere economico è passato prima dall’incredulità all’allarme per il dilagare di eventi e di fenomeni che stridevano platealmente con l’ideologia del capitalismo trionfante che risolve ogni male. Ora il ceto dominante cerca di adattarsi alla situazione e, ancora una volta, di trarre profitto dalla cosiddetta “riconversione ecologica”, che, in buona sostanza, altro non è che speculazione finanziaria sui presunti “meccanismi di compensazione”.
Parallelamente i trend demografici comportano incrementi insostenibili di alcune popolazioni e invecchiamento e decremento di altre, con i conseguenti, crescenti e inarrestabili fenomeni migratori, che riversano grandi masse da un territorio all’altro.
La drammaticità bruciante di impellenti esigenze primarie (fame, guerre, siccità, inondazioni, povertà, precarietà, mancanza di alloggio, ecc.) spingono le masse alla ricerca di “soluzioni concrete e immediate”, con la conseguenza di eludere ogni ricerca di possibili alternative di sistema e di indirizzare i consensi su personaggi ritenuti salvifici. Si diffondono pulsioni populiste, nazionaliste, integraliste.
La “privatocrazia”
Lo stato, come espressione della tutela degli interessi delle classi dominanti, di mediazione tra le diverse loro fazioni, ma anche di gestione del consenso sociale in forza dei dogmi neoliberali, tende sempre più a ritrarsi.
Nei “Trenta gloriosi” (1945-1975), governare significava spendere e amministrare direttamente. Nell’era neoliberista governare sempre più significa incentivare e coordinare una serie di attori privati (aziende, imprese sociali, istituzioni private) a cui si delegano funzioni un tempo cruciali nella politica pubblica: sanità, scuola, distribuzione dell’energia e dell’acqua, gestione delle comunicazioni, raccolta dei rifiuti, trasporti e sicurezza, asili nido e assistenza agli anziani e ai disabili…
Sappiamo bene che queste “liberalizzazioni” il più delle volte riproducono meccanismi di gestione privata monopolistica molto simile ai “vecchi” monopoli pubblici, con la differenza che ora sono in mano a privati, senza costituire affatto esempi di efficienza né di risparmio né di trasparenza gestionale. Hanno però il pregio di separare in modo visibile lo “stato” dagli strumenti con cui un tempo si gestiva il consenso di massa.
Inoltre la perdita di sovranità fiscale degli stati, dovuta a un movimento globale dei capitali sempre più massiccio ma anche incontrollato, sottrae un’altra importante funzione sociale agli apparati istituzionali, quella di una seppure parziale redistribuzione delle risorse.
Cosicché, la “privatocrazia” si è andata a sovrapporre alla “democrazia”, inducendo parti crescenti di opinione pubblica dal ritenere sempre meno rilevante la scelta della forza politica da cui farsi amministrare, visto che buona parte dei servizi sociali, almeno apparentemente, non dipendono più dalla politica.
Inoltre la spinta alla privatizzazione aiuta a spostare la gestione del consenso dalle clientele dei partiti politici (un tempo di massa) nelle mani dei “leader” (di vario colore) che possono così più agevolmente costruire i propri clan, i gigli magici, le cordate, le reti di relazioni interpersonali fatte di amicizie, scambio di favori, convergenza di interessi non sempre confessabili e spacciati come condivisione di progetti politici.
Il passaggio di tanti servizi ai privati fa sì che i politici di governo (nazionale o locale che sia) si deresponsabilizzano. La qualità, la quantità, la fruibilità di quei servizi non dipende più da loro.
Il disinteresse alla poltica
Tra le tante concause dell’astensionismo elettorale e del disinteresse di parti crescenti dei cittadini riguardo alla politica c’è dunque anche il fatto che i cittadini non vedono più lo stato come il fornitore prioritario dei beni essenziali; così smettono di interessarsi alle sue sorti e di partecipare più o meno attivamente alla politica.
E il rapporto dei leader con l’opinione pubblica e con l’elettorato diventa sempre più legato al loro “carisma” piuttosto che ai risultati concreti per le persone concrete. La politica diventa sempre più “marketing elettorale”, tanto più di fronte al pervasivo utilizzo dei social network.
Non a caso l’istituzione del Reddito di cittadinanza da parte del Movimento 5 Stelle è stata spudoratamente etichettata come un’operazione di “scambio elettorale”: per la politica neoliberale non deve più esserci alcuna relazione tra il voto, il consenso e gli interessi sociali.
Ulteriore prova della crescente “irrilevanza del consenso” nella gestione “democratica” della “cosa pubblica” è stata la decisione sfacciatamente antidemocratica di Emmanuel Macron di imporre nottetempo a un paese e persino ad un parlamento riottoso una riforma delle pensioni smaccatamente impopolare.
Nei decenni del dopoguerra la “democrazia” occidentale era esibita come “prova di superiorità” rispetto al “totalitarismo”. Il confronto propagandistico stridente esimeva le classi dominanti dal dover specificare le caratteristiche profonde della “democrazia”.
L’idea di politica, intesa come scelta cosciente tra progettualità alternative, è messa così da parte e l’autoritarismo, la repressione del dissenso, l’individualismo, la violenza, l’irrazionalità, il fascismo acquistano spazi sempre più vasti.
Naturalmente le crisi sconvolgono in maniera differente i singoli stati, ma i lineamenti essenziali si riproducono ovunque.
In questi contesti, la “personalizzazione leaderistica” della politica e l’assottigliamento sempre più visibile dello stato hanno messo in crisi gli strumenti novecenteschi della politica come i partiti, un tempo “organizzatori delle idee”.
E il “trionfo antidemocratico” del leaderismo si verifica anche nella totale mancanza di percorsi democratici dentro i partiti politici, tutti retti da un uomo (o da una donna) al comando.
Non essendoci più i centri di organizzazione territoriali, mancando il confronto e la discussione, l’afferenza politica è ridotta ai minimi termini ed è determinata nella capacità persuasiva del leader, da interessi di categoria, da vincoli clanici spesso malavitosi, dagli spazi di illegalità promessi.
Le conseguenze sulla sinistra
La proclamazione della politica come idealità complessiva e come affermazione di principi di giustizia e di interessi collettivi è dunque largamente messa fuori gioco in questo contesto.
Ma, soprattutto, sono divenute per niente credibili le strategie basate sui “piccoli passi”, riforma dopo riforma, sperando un giorno di “entrare nella cabina di comando”; le elezioni sono basate sull’affidamento al leader e al suo clan. Votare per un partito che è strutturalmente escluso dall’esercizio del potere risulta un esercizio testimoniale, ininfluente per le larghe masse, perché incapace di incidere sulla realtà sociale.
Il lento ma deciso avanzamento (o arretramento) elettorale che un tempo si verificava nei cicli elettorali non ha più senso; e ancor meno senso ha l’idea che dalla opposizione parlamentare si possano ottenere risultati sociali o, almeno, “limitare i danni”.
E non si tratta più solo del più volte richiamato “esaurimento dei margini di riformismo”. La crisi ecologica rende sempre meno plausibile una strategia che si basi su di un approccio espansivo e produttivistico che punti a dare di più ai ceti popolari non modificando le dimensioni delle diverse fette della torta ma auspicando una torta più grande. Non può essere la “crescita del PIL” a soddisfare anche solo in parte i bisogni popolari.
Il XX secolo è stato il secolo dell’affermarsi della politica, Il XXI è il secolo dell’esaurirsi della politica.
La cabina di comando è saldamente in mano al potere economico che indirizza le istituzioni e rende irrilevante l’esistenza dell’opposizione parlamentare, non concede spazi né tregua; se tentenna e sembra in crisi è solo per il permanere di interessi contrastanti all’interno dei diversi settori capitalistici, in concorrenza tra loro, ma uniti nell’aumentare sempre più lo sfruttamento dei lavoratori, nell’incrementare sempre più l’astio dei penultimi nei confronti degli ultimi.
La cosiddetta “sinistra di alternativa”, quella cioè che si schiera a sinistra del PD, critica la pratica compromissoria, sottolinea l’allontanamento dai modelli sociali della fase precedente, e si propone come alternativa istituzionale coerente con gli interessi delle classi subalterne. Ma lo fa con l’assillo della “presenza istituzionale”, una presenza considerata sia rivelatore veritiero del proprio radicamento sociale sia il più efficace strumento di azione a sostegno dei bisogni dei più. Ma si rimuovono le constatazioni che fin qui abbiamo cercato di indicare e, soprattutto, si evita di trarne lezioni e conseguenze.
La “democrazia istituzionale” è stata oggi praticamente annullata, via via con il maggioritario, con le soglie di sbarramento, con la diminuzione del numero degli eletti, con leggi elettorali diverse tra elezioni nazionali e locali, tra regione a regione, con l’uninominale, con una sempre più difficile raccolta di firme per presentare le liste. Questo processo di devastazione antidemocratica è tuttora in atto con i progetti di presidenzialismo e di autonomia differenziata. Tutto ciò ha potentemente contribuito all’allontanamento dal voto e dalle istituzioni.
La difesa degli spazi di agibilità politica è stata una battaglia mancata ed ora si spaccia per democrazia l’occupazione delle istituzioni da parte di una esigua minoranza degli elettori, peraltro sempre più trincerati nelle zone benestanti delle città. Dunque, inseguire le elezioni, inventandosi liste mediaticamente “accattivanti”, non può essere una strategia pagante per chi vuole tentare di opporsi al sistema. È necessario trovare una strategia alternativa.
Sicuramente non ci si può aggrappare alla ripetizione di vecchi schemi che al massimo può mettere insieme i militanti di classe dispersi nelle frantumazioni dei “movimenti”. Una strategia di trasformazione ha senso se riesce a parlare alle masse, a tutte le vittime del capitalismo, cioè alla grande maggioranza delle persone: lanciare messaggi semplici, apparentemente limitati, ma con un’intrinseca valenza anticapitalista; messaggi che accolgono le speranze, le aspettative, anche quelle inconsce, della gente.
Non si può rivendicare un inverosimile ampliamento del “benessere occidentale”, dei modelli di vita degli ultraricchi, ma il “buen vivir”, cioè la sicurezza e la tranquillità della vita, il riposo, lo svago: tutte parole d’ordine apparentemente minimali, ma incompatibili con l’attuale capitalismo e, al contrario, compatibili con l’ecosistema. Non i privilegi, non la scalata sociale, ma l’uguaglianza dei diritti, la sicurezza di non essere sopraffatti e di non sopraffare.
L’égalité della Rivoluzione francese è ancora attuale, come lo è la fraternité, cioè il vivere bene con gli altri, praticare interessi condivisi. La specie sapiens è una specie cooperativa e la lotta, lo sfruttamento, l’oppressione, lo scontro, la violenza non gli appartengono, ma sono strumenti delle classi dominanti e del capitale. Oggi fraternité significa antimilitarismo, antirazzismo, antiomofobia.
Quali possono essere gli strumenti per rivendicare e per conquistare questi obiettivi? Certamente non una lista elettorale, bensì le mobilitazioni di massa, l’intersezione dei movimenti sui vari obiettivi: il movimento dei lavoratori, i movimenti femministi, quelli per l’ambiente.
La tela da tessere è quella convergenza che deve tendere all’obiettivo della rivolta, obiettivo per ora lontano, che certamente al momento va solo prospettato, ma che non si costruisce senza dare una soluzione di fase.
Attualmente non esiste nessuno spazio di vera affermazione istituzionale. Non vogliamo qui negare la possibilità di presenza elettorale in assoluto, ma occorre essere consapevoli del fatto che questa presenza è uno strumento largamente impraticabile e che dunque il suo perseguimento, perlomeno nell’Italia di questa fase, è del tutto subordinato all’azione sui terreni sociali.
E tantomeno è possibile rivendicare come programma “la difesa e l’applicazione della Costituzione”, una Costituzione che, certo, nel 1948, risultava “la più bella del mondo”, una seppur illusoria “promessa di rivoluzione”, ma che oggi risulta ai più un feticcio residuale. La sinistra “costituzionalista” si aggrappa ad un testo che rappresenta senza alcun dubbio la cristallizzazione di rapporti di forza che oggi non esistono più.
Gli elettori sono perfettamente consapevoli del fatto che se l’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”) non è stato applicato negli anni 60 e 70, quando i rapporti di forza ne avrebbero aiutato la concretizzazione, risulta del tutto proclamatorio rivendicarne oggi l’applicazione.
E così gli elettori hanno anche massicciamente abbandonato (e non solo dal 25 settembre 2022) la “discriminante antifascista”, dopo che l’ “antifascismo di palazzo” aveva completamente scollegato il rifiuto del fascismo da ogni legame con il sociale.
Questo non significa affatto abbandonare le trincee della difesa di una costituzione, peraltro già ampiamente stravolta nella lettera e nella sostanza e che oggi si vuole ulteriormente e definitivamente storpiare con il presidenzialismo e con l’autonomia differenziata; né abbandonare le trincee dell’antifascismo, tanto più di fronte alla crescita planetaria dell’estrema destra. Ma significa che quei valori debbono essere sostenuti con parole d’ordine nuove, con collegamenti più evidenti agli interessi sociali e di classe in gioco.
Rivolta è imporre nuovi assetti istituzionali, ottenere una nuova assemblea costituente che riscriva le regole del gioco. Eventi simili si sono recentemente prodotti in alcuni paesi: paesi arabi, Africa, America latina; essi non hanno prodotto risultati stabili perché per vari motivi si sono arenati, non si sono collegati tra loro, hanno subito repressioni da forze militari che non erano state esautorate, e, soprattutto, non avevano prodotto avanzamenti della vita reale della gente.
Il “problema del partito” nel XXI secolo
È chiaro che accanto alle mobilitazioni sociali bisogna costruire l’organizzatore politico, senza il quale le rivolte si spengono o vengono spente. Questo è il compito che ci riguarda da vicino; compito estremamente difficile su cui dobbiamo sforzarci di elaborare; per il momento si possono delineare solo alcuni elementi.
Non c’è una ricetta universale sul partito rivoluzionario da applicare in ogni tempo ed ogni contesto; non è una fusione fredda da fare in un teatro romano in mezza giornata; non è l’unificazione di gruppi dirigenti residuali ai quali manca una base, ma che cercano una poltrona istituzionale; non è nucleo omogeneo per orientamento ideologico che decide di autodefinirsi partito.
Non può essere avulso dallo scontro sociale, ma si deve rapportare costantemente ad esso; deve darsi prioritariamente una proiezione esterna larga; deve avere il coraggio e la capacità di includere compagne e compagni con differenti disponibilità di tempo, con differenti capacità, differente grado di cultura, età e provenienza geografica; deve dare a tutti lo stesso spazio di discussione e di critica, deve chiedere ad ognuno non più di quanto ciascuno può e vuole dare; deve organizzarsi dal basso; deve avere coordinatori e non capi che devono essere sostituibili e sostituiti; deve usare preferenzialmente il metodo del consenso; deve riverificare costantemente le scelte; deve promuovere lo studio e l’approfondimento teorico; deve saper usare un approccio scientifico alle analisi.
Il partito a cui si deve pensare deve essere adeguato al contesto in cui viviamo, in cui è crollato ogni “modello” di società anticapitalista, si stanno progressivamente esaurendo le generazioni che hanno vissuto le lotte del XX secolo, le classi sociali sono segnate dalla globalizzazione e dalle migrazioni, ecc.
Occorre un partito che sappia anche avanzare un progetto di radicamento nelle classi popolari attraverso una strumentazione sindacale che non può essere quella che ha raccolto gli allori delle fasi storiche passate e che poi è riuscita a sperperarli. Dunque un partito che avanzi anche un progetto di ricostruzione sindacale paziente ma coraggioso al contempo.
Dal punto di vista organizzativo, nel definire il funzionamento del partito e la sua relazione con gli attivisti e i movimenti, occorre adottare una concezione materialista dell’organizzazione, dunque sapere che il lavoro in rete è all’ordine del giorno.
Questo era già in atto negli anni Novanta, quando gli zapatisti hanno adottato questo tipo di organizzazione.
Invece, la “sinistra radicale”, pur nelle sue variegate espressioni, continua a scimmiottare il modello del “partito di massa” di togliattiana memoria, pur se spacciato per “modello leninista”, con il “segretario generale”, la struttura piramidale degli organismi dirigenti, le sezioni (o i circoli) locali, totalmente svincolate da ogni radicamento nelle lotte sociali.
Ovviamente per il “partito”, cioè un’organizzazione politica di persone che la pensano sostanzialmente allo stesso modo, di persone che, come i comunisti del Manifesto, condividono determinate idee e vogliono promuoverle, una qualche forma di centralizzazione sarà necessaria, ma il grado qualitativamente più elevato di democrazia organizzativa reso possibile dalla tecnologia moderna deve applicarsi anche al partito.
Identificati gli assi portanti nella rivolta e lo strumento nel partito rivoluzionario, occorre indicare la prospettiva: la rivoluzione anticapitalista.
Questo, per il momento – e ancor più per questo testo – è, e resta solo, un titolo, tutto da definire, ma è comunque importante ribadire l’assoluta necessità di un processo di trasformazione del modo di produzione, di trasformazione delle istituzioni dello stato, del rapporto tra gli individui e dello stesso rapporto tra i popoli.
Ma per noi progettare il “mondo che verrà” non è affatto un compito prematuro, perché non si tratta di immaginare il mondo dei desideri di un’ipotetica umanità riscattata, ma il mondo della necessità di preservare dal disastro sociale ed ecologico la nostra casa, cioè il pianeta Terra.
La redazione di Rosa Rossa
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Il naufragio in Grecia impone la fine di un sistema criminale: “Aprite le frontiere!
Il numero delle vittime dell’ennesimo naufragio di migranti nelle acque del Mediterraneo è e resterà sconosciuto, così come approssimato per difetto è il bilancio dei migranti morti nel “mare nostrum” dal 2014 ad oggi (oltre 26.000, pari alla media di 8 morti per annegamento al giorno).
Ma i responsabili di queste morti non sono affatto sconosciuti: sono l’Unione europea, i suoi stati membri, i governanti che si sono succeduti alla guida di questi stati nel corso degli ultimi decenni.
La fortezza Europa sa di non poter fermare le migrazioni, ma vuole rendere più pericolosi e mortali i viaggi di chi fugge da guerre, povertà e riscaldamento globale…
Dunque, doppiamente responsabili, perché responsabili delle guerre, della depredazione dei paesi coloniali, dei cambiamenti climatici e responsabili di mancato soccorso in mare.
Convergenze disumanitarie
Mentre i migranti annegano, Macron riceve Giorgia Meloni. Nonostante le finte polemiche italo-francesi, i governi di Roma e di Parigi perseguono la stessa politica, rifiutando di accogliere dignitosamente migranti e rifugiati e preferendo lasciarli morire in mare o marcire sulle imbarcazioni delle ONG a cui viene impedito di attraccare liberamente nei porti più vicini al naufragio.
Nei giorni scorsi, Macron e Meloni a Parigi, all’Eliseo, non hanno affatto discusso di come accogliere in sicurezza i migranti ma di come sviluppare meglio i reciproci interessi economici e di come far fruttare l’ipotizzato Expo 2030 di Roma.
Macron e il suo ministro dell’Interno Darmanin , in Francia, cercano di evitare il prossimo possibile futuro successo elettorale della fascista Marine Le Pen, inseguendola e anticipandola nei comportamenti razzisti, dando la caccia ai migranti.
In Italia, Giorgia Meloni indica drammaticamente i risultati di una politica di quel tipo. Quando i “liberali” imitano la destra (come hanno fatto qui da noi Minniti e Lamorgese) non evitano affatto che la destra vada al potere, ma anzi le spianano la strada.
La strada vera è quella di indicare un’alternativa complessiva al capitalismo razzista e autoritario, una prospettiva di società che rompa con le politiche capitaliste, che ponga fine alle disuguaglianze, una prospettiva emancipatrice che rompa con lo sfruttamento e l’oppressione: per l’accoglienza dei migranti, l’apertura delle frontiere e la libertà di scegliere dove risiedere.
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Francia, le prospettive incerte della mobilitazione
di Léon Crémieux, da alencontre.org
Le prime due settimane di giugno hanno appena concluso sei mesi di scontro tra Macron e il suo governo, da un lato, e le classi lavoratrici, il movimento sindacale, tutti i movimenti sociali e la sinistra politica, dall’altro.
Vittoria di Pirro è sicuramente il termine che meglio descrive la situazione di Macron alla fine di questo periodo. Sarà riuscito a imporre la sua riforma reazionaria, isolandosi, riducendo ulteriormente la sua base sociale e superando questo episodio solo grazie al sostegno dei Repubblicani (LR), sia all’Assemblea Nazionale che al Senato.
Può vantarsi di aver innalzato l’età pensionabile a 64 anni, ma finora non è riuscito a superare le due crisi che sta attraversando: una crisi parlamentare, poiché la sua debolezza all’Assemblea e la sua inesistenza al Senato sono oggi più evidenti con la crescente dipendenza dal partito ex gollista dei “Repubblicani” e dal Rassemblement national di Marine Le Pen per approvare le sue proposte di legge; una crisi di legittimità, di base sociale, poiché Macron e i suoi sostenitori sono ancora disconosciuti nel paese, sia sulla questione delle pensioni che sulla politica del governo nel suo complesso.
D’altra parte, i risultati del movimento sociale sono inevitabilmente contrastanti. La 14esima giornata di mobilitazione, il 6 giugno, a quasi due mesi dalla promulgazione della legge, è stata caratterizzata da 250 manifestazioni. Con una media di due terzi di manifestanti in meno rispetto al 1° maggio, è stato il numero più basso di manifestanti (281.000 secondo la polizia e 900.000 secondo la CGT) dall’inizio del movimento. Ma anche questo numero ridotto riflette il persistente rifiuto di questa legge e la determinazione a combattere le riforme del governo.
Inoltre, gli ultimi sondaggi mostrano ancora un’ampia maggioranza che rifiuta i 64 anni e sostiene il movimento, anche se una larghissima maggioranza pensava ancora che Macron sarebbe riuscito ad approvare la sua legge.
L’Intersindacale aveva indetto la giornata il 6 giugno perché l’8 giugno l’Assemblea avrebbe dovuto votare una proposta di legge presentata dal gruppo indipendente LIOT (Libertés, indépendants, outre-mer et territoires), che mirava a riportare l’età pensionabile a 62 anni. Nell’ultima battaglia istituzionale che non ha avuto luogo, il governo ha fatto di tutto perché i deputati utilizzassero gli stratagemmi della Costituzione (in questo caso l’articolo 40), in modo che questa votazione non avesse luogo, invocandone l’inammissibilità.
Ancora una volta, è stato l’appoggio del gruppo dei Républicains che gli ha permesso, con una mossa senza precedenti, di far insabbiare un disegno di legge proposto dall’opposizione per “mancanza di fondi per la misura”, anche se la Commissione giuridica dell’Assemblea lo aveva già ritenuto ammissibile…
L’atto finale non avrà quindi luogo. È chiaro che Macron non voleva che l’unico vero voto dei parlamentari sulle pensioni da gennaio fosse un voto di bocciatura della sua legislazione. Anche senza alcun impatto – perché la maggioranza reazionaria del Senato avrebbe bloccato l’iniziativa – lo spettacolo era insopportabile per Macron e il suo governo.
Le illusioni frustrate
L’ultima riunione dell’Intersindacale nazionale, la sera del 15 giugno, ha riaffermato la sua unità, la sua opposizione alla riforma delle pensioni e il suo impegno ad agire su altre questioni, a partire dall’autunno, ma senza formulare alcuna richiesta sociale comune nei confronti del governo o dei datori di lavoro o alcun appello concreto a preparare, anche in autunno, una nuova mobilitazione per le centinaia di migliaia di lavoratori e attivisti che sono stati coinvolti nel movimento dall’inizio di gennaio.
Quindi ora il movimento sindacale, il movimento sociale, la NUPES e la sinistra radicale devono affrontare le loro responsabilità nei mesi a venire. Il governo intende accelerare la sua politica di attacchi sociali e democratici e, paradossalmente, Marine Le Pen (Rassemblement National) è in crescita nei sondaggi di opinione, con grande gioia della maggior parte degli editorialisti che vedono la sinistra in minoranza!
Ciò solleva alcuni importanti interrogativi. In primo luogo, come può un movimento sociale creare una forza sufficiente per bloccare un attacco alle classi lavoratrici?
Da questo punto di vista, i risultati degli ultimi 6 mesi sono ovviamente contraddittori. Il movimento è stato molto forte, unendo la grande maggioranza dei lavoratori, con un sostegno schiacciante da parte dell’opinione pubblica. L’Intersindacale, che ha dovuto lavorare sulla base del consenso per non sciogliersi, ha seguito lo schema delle grandi giornate di mobilitazione (dal 14 gennaio a giugno), con l’obiettivo di esercitare una pressione sufficiente sul governo e sui membri eletti del parlamento.
Si è trattato quindi di una battaglia di opinione pubblica, contando sul fatto che l’isolamento del paese avrebbe costretto Macron ed Elisabeth Borne (il primo ministro) a fare marcia indietro. Ma questi ultimi sapevano di avere strumenti istituzionali che avrebbero potuto permettere loro di scavalcare la situazione, nonostante la loro posizione di minoranza nell’Assemblea.
Se c’era una piccola speranza che i voti dell’Assemblea bloccassero Macron, era la crisi della destra repubblicana (LR), combattuta tra il desiderio di affermare la sua opposizione a Macron e il suo orientamento fondamentalmente neoliberale, in accordo con questo progetto di legge reazionario.
La stessa candidata dei “Repubblicani” alle elezioni presidenziali del 2022 (Valérie Pécresse) aveva fatto campagna per l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni. Quindi, sul fronte istituzionale, il movimento sociale si è scontrato con una maggioranza di parlamentari reazionari, anche se la RN ha mantenuto una posizione di rifiuto della legge. Il movimento non poteva quindi riporre la maggior parte delle sue speranze in queste crisi all’interno della destra e negli obiettivi parlamentari.
Le ambiguità irrisolte
L’alternativa posta a questo orientamento dell’Intersindacale, già a gennaio, da Solidaires e, in modo meno evidente, dalla CGT, era la prospettiva di sviluppare gli scioperi, lo sciopero della ricomposizione, di “bloccare il paese”, contando non solo su una battaglia all’interno dell’opinione pubblica, ma anche su una pressione diretta sui datori di lavoro, bloccando la vita economica.
Molti pensavano che il movimento potesse camminare su due gambe, con alcuni settori che entravano in un periodo di scioperi ad oltranza e altri che partecipavano essenzialmente alle grandi giornate di sciopero. Questa ambiguità non ha aiutato il movimento.
Non è stato facile convincere una buona parte dei settori professionali ad aderire allo sciopero straordinario. Non tanto per ragioni finanziarie (molti dipendenti hanno scioperato per molti giorni tra gennaio e giugno, pur non essendo coinvolti in uno sciopero prolungato). La questione essenziale è che in nessun momento l’Intersindacale ha dato come obiettivo, come segnale a tutti i dipendenti, l’inizio comune di uno sciopero prolungato, anche se solo per due o addirittura una settimana. Non ha quindi dato fiducia ad agire insieme in questa direzione, e le giornate settimanali di scioperi e manifestazioni sono diventate rapidamente contraddittorie con la partenza degli scioperi a oltranza.
Molti scioperi duri nel settore privato negli ultimi mesi, in particolare per aumenti salariali reali, sono durati diverse settimane, in aziende con bassi salari e bassa densità sindacale, e il più delle volte senza un fronte sindacale comune. Ma la determinazione è nata dalla sensazione, condivisa dagli scioperanti di queste aziende, di poter vincere bloccando l’azienda, imponendo la propria forza, con tutti che spingono nella stessa direzione.
Pochi settori hanno la forza, da soli, di bloccare la vita economica del paese, ma l’aggiunta di diverse centinaia di aziende può dare una forza collettiva, creare un equilibrio di potere e una nuova situazione politica di confronto che avrebbe potuto permettere la bocciatura della legge.
Tutti hanno percepito che eravamo vicini a creare una situazione di questo tipo il 7 marzo, con la frase volutamente ambigua usata dall’Intersindacale di “bloccare il paese”, unita all’appello di 7 federazioni della CGT a scioperare in modo prolungato, e con l’appello di Solidaires sulla stessa linea. Puntare sull’inizio di uno sciopero rinnovabile, alla stessa ora, nel maggior numero possibile di aziende non era certo un compito facile da realizzare, e le conseguenze di tutti gli attacchi che hanno decimato la forza del movimento sindacale, così come le divisioni sindacali in molte aziende, si stanno facendo sentire.
Ma questa prospettiva era ovviamente la più realistica di fronte a un governo tanto più teso su questa legge perché politicamente debole, anche se non sarebbe stato facile attuarla. Dobbiamo abbandonare le immagini stereotipate di milioni di lavoratori pronti a lottare, ma imbavagliati e ostacolati dalle burocrazie sindacali. Inoltre, la debolezza delle assemblee generali nelle aziende contrastava con la massa delle manifestazioni.
I tanti nodi da sciogliere
Oggi si è voltata pagina e ci saranno molti dibattiti sui risultati, in particolare all’interno della CGT, di Solidaires e della FSU, sindacati all’interno dei quali sono state sostenute sia la richiesta di uno sciopero prolungato sia la lotta per mantenere unito il fronte intersindacale. Il movimento sindacale può vantarsi di aver conquistato un’importante posizione sociale e politica nel paese, migliorando nettamente il suo indice di fiducia tra i lavoratori e registrando 100.000 nuove adesioni dal gennaio 2023, in particolare tra i dipendenti del settore privato delle piccole imprese.
Ma dobbiamo fare progressi su questi temi, perché l’impegno dell’Intersindacale a mantenere la sua posizione e ad aprire altre questioni, come dichiarato nella dichiarazione del 15 giugno, chiaramente non sarà sufficiente. Da metà giugno, il movimento sociale non è morto e le forze che si sono concentrate sulla questione dell’età pensionabile sono ancora attive e presenti, ma hanno perso il loro punto di convergenza comune.
La questione rimane quella di costruire un’offensiva delle classi lavoratrici per bloccare gli attacchi sociali reazionari che, come quelli sulle pensioni, stanno peggiorando le condizioni di vita; costruire un fronte che proponga rivendicazioni sociali urgenti, senza esitare a prendere di mira la distribuzione della ricchezza, la messa in discussione delle regole capitalistiche imposte nelle aziende e la società nel suo complesso. Non sarà possibile costruire questo fronte con il solo riferimento di un’Intersindacale nazionale di tutte le confederazioni, molte delle quali sposano e hanno sposato politiche liberali.
Sebbene i vertici della CFDT, della CFTC e della CGC si siano chiaramente opposti all’età pensionabile di 64 anni, spesso accettano gli imperativi dettati dai datori di lavoro o dal governo, come nel caso dello scorso febbraio, per l’accordo interprofessionale nazionale “sulla condivisione del valore aggiunto” che, in un contesto di forte inflazione, ha totalmente ignorato la questione degli aumenti salariali e dei minimi di settore, concentrandosi invece su meccanismi di bonus, partecipazione agli utili e piani di risparmio.
Allo stesso modo, alcune vertenze salariali sono state vinte, anche se nel caso dell’azienda tessile Vertbaudet [Tourcoing, Nord], ad esempio, a marzo è stato firmato dalla CFTC e dalla CGC un accordo di minimo nella NAO-negoziazione annuale obbligatoria che prevedeva un aumento di 0 euro e due bonus per un totale di 765 euro netti. Lo sciopero dei lavoratori, durato più di due mesi e sostenuto e pubblicizzato dalla CGT, e in particolare dalla sua nuova segretaria generale Sophie Binet, ha portato a un accordo il 2 giugno che ha dato aumenti salariali reali tra i 90 e i 140 euro netti e ha portato all’assunzione di 30 lavoratori temporanei con contratti a tempo indeterminato.
Pertanto, creare nuove dinamiche di mobilitazione e costruire un confronto sociale con il governo significherà costruire unità basate il più possibile su richieste urgenti e cercare di riunire il più ampio fronte sindacale possibile attraverso la mobilitazione.
Ciò significa anche sviluppare i legami e il coordinamento con le associazioni del movimento sociale che difendono e si mobilitano intorno alle richieste urgenti, come gli attacchi all’ambiente, ai diritti delle donne, all’alloggio, contro la discriminazione e contro gli attacchi razzisti.
Mantenere e ampliare il clima sociale creato negli ultimi 6 mesi, dandogli l’obiettivo di mobilitarsi su tutte le questioni sociali urgenti. Questo è importante perché, mentre la forza della mobilitazione popolare negli ultimi 6 mesi si è basata sulla rabbia sociale e sugli incessanti attacchi subiti, spesso solo gli attivisti della CGT, di Solidaires e della FSU sul campo hanno regolarmente creato un collegamento con altre urgenti rivendicazioni sociali, insistendo su una diversa distribuzione della ricchezza che prenda di mira i profitti capitalistici e le loro esenzioni fiscali.
L’offensiva non è solo sulle pensioni
Macron e il suo governo continuano quindi ad andare avanti e, per uscire dall’isolamento e andare oltre la questione delle pensioni, cercano di deviare la rabbia sociale del governo e dei datori di lavoro prendendo di mira gli immigrati e i più vulnerabili, e polarizzandosi su questioni in cui i macronisti possono stringere alleanze con i repubblicani e il Rassemblement National, senza temere la paralisi parlamentare.
Macron, Elisabeth Borne e Gérald Darmanin (il ministro dell’Interno) hanno intrapreso una guerra sociale contro le classi lavoratrici su una serie di questioni, tra cui la sicurezza sociale e gli alloggi, di solito con un fronte reazionario di deputati che riunisce quelli dell’Ensemble pour la majorité présidentielle (i “macronisti”), i Repubblicani e quelli del Rassemblement national.
È il caso della scellerata legge sull’alloggio, la legge Kasbarian-Bergé, che è una vera e propria dichiarazione di guerra contro gli inquilini in situazioni precarie, che manda in frantumi quel poco di protezione che c’è in caso di affitto non pagato e permette di intensificare gli sfratti accelerati. Questo nonostante il fatto che la questione sociale più urgente sia l’accesso all’edilizia popolare per le classi lavoratrici.
Sta funzionando un meccanismo formidabile. Da un lato, il costante aumento dei tassi ipotecari e il declino del potere d’acquisto delle famiglie operaie hanno arrestato la piccola tendenza che negli anni precedenti consentiva a chi poteva permetterselo di acquistare una casa o di passare dall’edilizia popolare al più costoso settore privato.
Allo stesso tempo, la costruzione di alloggi sociali (gli HLM, gli “alloggi a costo minimo”) nel 2021/2022 è stata inferiore del 25% rispetto ai 250.000 ufficialmente previsti, e già ampiamente insufficienti. Di fatto, 2,3 milioni di famiglie sono in attesa di un alloggio sociale, e in Francia ci sono almeno 300.000 senzatetto e 4,1 milioni di persone non adeguatamente alloggiate.
Quindi, di fronte a un problema sociale importante, il governo sceglie di colpire gli inquilini e criminalizzare i senzatetto. Questa alleanza di destra ed estrema destra non solo ha votato per una legge scellerata che colpirà in primo luogo le famiglie monoparentali e quindi le donne, ma ha anche votato per il diritto dei proprietari di aumentare gli affitti del 3,5% nel 2023 dopo l’aumento del 3,5% votato nel 2022, mentre la NUPES (Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale) ha proposto un congelamento degli affitti. Nonostante le sue presunta “opposizione popolare”, il Rassemblement National è sempre dalla parte delle classi proprietarie.
Allo stesso modo, negli ultimi giorni, il governo ha decretato una riduzione della copertura sociale per le cure dentistiche dal 70% al 60%. Allo stesso tempo, il governo sta criminalizzando le classi lavoratrici nella sua caccia alle frodi alla previdenza sociale: “abuso di congedi per malattia, prestazioni ingiustificate”, con un evidente sfondo razzista che prende di mira le persone di nazionalità nordafricana e l’”abuso” dell’assistenza medica statale, di cui beneficiano gli immigrati clandestini e che rappresenta lo 0,5% della spesa sanitaria pubblica.
Sia il Rassemblement National che il governo prendono di mira gli immigrati, sia regolari che clandestini, e gli “evasori fiscali” della classe operaia, mentre l’evasione fiscale delle imprese (per non parlare dell’”ottimizzazione” legale) ammonta tra gli 80 e i 100 miliardi di euro all’anno, l’assenza di dichiarazioni previdenziali da parte delle imprese tra i 20 e i 25 miliardi di euro, e un importo equivalente alla dichiarazione fraudolenta dell’IVA.
Sulla stessa linea, e per non lasciare la RN e la LR sole ad assecondare l’elettorato reazionario, Gérald Darmanin vuole approvare tra qualche mese una nuova legge anti-immigrazione (la trentesima dal 1980…).
La repressione si è fatta più sistematica
Questo percorso reazionario va di pari passo con lo sviluppo di una politica autoritaria e repressiva da parte dello stato, che sta ampliando il suo arsenale repressivo con nuove restrizioni ai diritti di manifestazione e di riunione, l’uso di leggi antiterrorismo e misure eccezionali di polizia per attaccare i diritti democratici (in particolare la videosorveglianza algoritmica tramite droni con telecamera prevista per le Olimpiadi del 2024).
Le ultime proteste ambientaliste, dopo quelle contro i megabacini di Sainte Soline (marzo 2023), hanno avuto luogo contro il collegamento TGV Lione-Torino nel fine settimana del 17 e 18 giugno. Più di 5.000 persone si sono riunite nella valle della Maurienne, in Savoia.
Il titanico progetto da 30 miliardi di euro prevede il raddoppio del tunnel del Fréjus, l’eliminazione di 1.000 ettari di terreni agricoli e l’imposizione di un drenaggio annuale da 60 a 135 milioni di m3. Sebbene la manifestazione dovesse riunire centinaia di attivisti provenienti dalla Svizzera e dall’Italia, il governo ha utilizzato l’arsenale delle leggi antiterrorismo per bloccare l’accesso di 7 pullman di attivisti ambientalisti italiani mediante uno IAT (divieto amministrativo di ingresso), un atto arbitrario del ministro degli Interni che aggira qualsiasi intervento giudiziario e non deve nemmeno essere giustificato.
È chiaro che ora il governo vuole tagliare le gambe alla rete di lotte sociali intorno al movimento per il clima, il cui slancio, combattività e impatto tra i giovani sono cresciuti nel calore della mobilitazione contro la pensione a 64 anni.
L’assurda minaccia di Darmanin di sciogliere Soulèvements de la Terre (che riunisce la Confédération paysanne, ATTAC, Union syndicale Solidaires e Alternatiba) illustra il timore del governo nei confronti del ruolo politico svolto da questo movimento.
La valenza sociale complessiva del movimento
Il movimento contro le pensioni a 64 anni è stato il movimento sociale più potente e mobilitante dal 2010. Avrà avuto una profondità senza precedenti, in particolare nelle piccole città e nelle zone rurali, spesso escluse dalle precedenti mobilitazioni sociali ma già molto attive durante il movimento dei Gilets jaunes nel 2018.
Sarà stata motivata dall’attacco frontale alle classi lavoratrici rappresentato dal rinvio dell’età pensionabile a 64 anni, che avrà l’effetto concreto di rendere più precari i lavoratori vicini all’età pensionabile e di ridurre ulteriormente le loro pensioni, perdendo i due anni migliori di pensionamento, in particolare per coloro che hanno lavorato in occupazioni faticose.
Ma è stata la sofferenza sociale della vita quotidiana ad avere un impatto così profondo e duraturo su questa mobilitazione: la sofferenza sul lavoro, la fatica e la lunghezza dei trasporti, le condizioni abitative deplorevoli e la diminuzione delle case popolari, i salari bassi e il costo della vita aggravato dalla pandemia e dall’inflazione, l’impossibilità di provvedere all’assistenza sanitaria, le difficoltà della vita quotidiana causate dagli evidenti tagli ai servizi pubblici locali e dalla proliferazione dei “servizi online” che rendono più difficili anche le più piccole procedure amministrative.
A questo si aggiungono, per le famiglie, i costi sempre più onerosi dell’assistenza agli anziani, il costo esorbitante delle EPHAD (le strutture di accoglienza per anziani non autosufficienti, corrispondenti alle nostre RSA), spesso in condizioni spaventose, e la difficoltà per i giovani di autonomizzarsi e di trovare lavoro.
Si trattava quindi di una questione sociale, di una questione sociale complessiva, e quindi di una questione politica che riguardava la collocazione e la difesa degli interessi delle classi lavoratrici che veniva sollevata, espressa e spesso rilanciata da questo movimento. La sfida era, ed è tuttora, quella di dare visibilità e sostanza politica a questa questione di classe, tracciando un’alternativa politica basata sulla lotta contro questi attacchi sociali e quindi per scelte alternative, anticapitaliste, basate sulla soddisfazione dei bisogni sociali.
Per “loro” non c’è alternativa
È sorprendente vedere lo zelo con cui gli ideologi capitalisti hanno sparato a tutto spiano nelle ultime settimane per combattere e persino schiacciare qualsiasi accenno di “deviazione” dalla narrazione neoliberista ufficiale.
La NUPES viene quotidianamente presa di mira come irrazionale, incompetente, asservita alla sinistra e all’islamismo e priva di credibilità economica. Il TINA (There Is No Alternative), sposato da Reagan e Thatcher negli anni ’80, ha ora un posto predominante, in particolare tra i portavoce e gli editoriali macronisti dei media mainstream, la maggior parte dei quali sono di proprietà di pochi miliardari capitalisti.
Le reazioni sono talvolta epidermiche. È il caso delle parole della regista Justine Triet, dopo la vittoria della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes 2023. La regista ha osato fare un discorso per denunciare “il modo scioccante in cui il governo ha negato le proteste contro la riforma delle pensioni”. Ha poi denunciato “la mercificazione della cultura che il governo neoliberista sta difendendo”.
Mentre tutti i sindacati professionali hanno condiviso e sostenuto questo discorso, è stato spettacolare vedere la velocità e la violenza delle reazioni ostili provenienti dal governo e dagli apologeti del neoliberismo. Era ancora più importante cercare di screditare il suo discorso perché il prestigio del festival di Cannes è uno dei vettori culturali in cui si suppone che l’”élite intellettuale” condivida il discorso della classe dominante. Lo spettro del Festival di Cannes del 1968 era evidentemente ancora fresco nella mente di alcuni.
Più sorprendenti sono state le reazioni a un rapporto scritto dall’ispettrice delle finanze Selma Mahfouz e dall’economista Jean Pisani Ferry, uno dei mentori del giovane Macron.
Il rapporto sul finanziamento della transizione ecologica, redatto da questo economista liberale, ha osato suggerire che, data l’urgenza e l’entità dei finanziamenti necessari, si dovrebbe introdurre una “tassa eccezionale per il 10% più ricco della popolazione francese”, un’imposta una tantum corrispondente al 5% del loro patrimonio finanziario.
In questo modo si raccoglierebbero 150 miliardi di euro in un’unica soluzione. Aver osato prendere di mira le famiglie ricche che possiedono la metà della ricchezza netta totale (immobiliare e finanziaria) è chiaramente intollerabile. Solo i “sinistrorsi” della NUPES potevano avere proposte del genere. Traditi da uno di loro, Bruno Le Maire ed Elisabeth Borne hanno immediatamente e con veemenza respinto questa ipotesi, ritenendola contraria all’intera politica del governo di riduzione della pressione fiscale.
Questi due esempi sono indicativi della volontà del governo di affermare che esiste una sola risposta possibile ai problemi finanziari e sociali.
Ciò avviene screditando non solo il discorso anticapitalista, ma persino quello antiliberista che negli ultimi mesi è stato portato in piazza da una parte del movimento sindacale, dal NUPES e dalla sinistra radicale. In particolare, è importante screditare la NUPES in quanto non in grado di rappresentare un’alternativa alle politiche neoliberiste, e addirittura come un’opzione più pericolosa del Rassemblement national.
Da questo punto di vista, gli editorialisti dei principali media hanno seguito in larga misura il loro consiglio di effettuare il “NUPES bashing” (la stroncatura della NUPES) e di impedire che questa alleanza politica appaia credibile alle prossime elezioni.
In un altro registro, complementare, i nostalgici della sinistra socialdemocratica suonano una musichetta volta a screditare la France insoumise e la sinistra di Europe Ecologie Les Verts, privilegiando le questioni sociali (tra cui i movimenti LGBTQ+, climatici, femministi e antirazzisti) a scapito delle “serie” preoccupazioni quotidiane che si suppone siano quelle delle classi lavoratrici.
Eppure, all’interno delle classi lavoratrici, tutte le sofferenze quotidiane sono ancora maggiori quando si è donna, spesso con i salari più bassi e genitore single, spesso soggetta a violenze, molestie e discriminazioni sul lavoro; quando si appartiene a una generazione post-coloniale, soggetta a discriminazioni quotidiane, retrocessione spaziale, razzismo di stato e violenza della polizia.
Queste questioni sociali non sono problemi sociali esterni alle classi lavoratrici, ma parte integrante dei problemi quotidiani di milioni di uomini e donne. Lo stesso vale per le preoccupazioni ambientali, che riflettono anch’esse un’urgenza sentita principalmente dalle classi lavoratrici.
Quel che c’è e quel che manca a sinistra
Ma la questione di un’espressione politica basata sui bisogni sociali, globale, che delinei un’alternativa alle politiche liberali, è effettivamente un punto di debolezza nella situazione attuale.
È vero che la sinistra antiliberale, la NUPES, è screditata quotidianamente dai media e ha difficoltà a far sentire una voce coerente, al di là della caricatura di cui è oggetto.
È anche vero che gli ambienti governativi e i loro sostenitori hanno chiaramente scelto di non usare più la demonizzazione del Rassemblement National, trattandolo come un’opposizione seria e responsabile, contrapposta ai “pericolosi eco-terroristi e islamosinistri della France Insoumise”. Nonostante tutti i suoi limiti, la NUPES sembra essere l’unica forza politica a rifiutare le politiche liberali.
Questo non è ovviamente il caso dei resti della socialdemocrazia che alcuni vorrebbero far rivivere. Ma ovviamente non è nemmeno il caso del Rassemblement National, che come Giorgia Meloni è totalmente devoto a queste politiche neoliberali, seguendo Macron in molte delle sue leggi reazionarie, aggiungendo solo il veleno di una maggiore discriminazione razzista.
Il pericolo principale per i difensori del sistema, quindi, è il possibile emergere di una forza che colmi il divario tra le richieste sociali e un’alternativa politica. Da questo punto di vista, la Francia si trova in una posizione particolare in Europa, con la forza dell’ultimo movimento sociale e la presenza della NUPES che pongono il paese per il momento in contrasto con la situazione altrove, con una sinistra che mantiene una significativa forza elettorale, prevalentemente antiliberale.
Di conseguenza, si è fatto di tutto per far sì che il Rassemblement national apparisse nei media e nei sondaggi come l’unico vincitore degli ultimi mesi (anche se, in realtà, secondo gli ultimi sondaggi, la NUPES progredirebbe e otterrebbe la maggioranza relativa in caso di elezioni anticipate).
Purtroppo, questa crescita e le difficoltà della sinistra non sono solo il riflesso di una manovra mediatica.
C’è ovviamente un deficit, che è presente dall’autunno. Già ampiamente analizzato, deriva dall’incapacità di mettere insieme un fronte comune, unito, sindacale, sociale e politico. Persino la NUPES, invece di preoccuparsi delle sue responsabilità comuni in una situazione del genere, rifiuta qualsiasi organizzazione militante comune nelle città e nelle regioni, la France insoumise (LFI) si irrigidisce su qualsiasi idea di organizzazione e funzionamento democratico interno e non viene presa alcuna iniziativa, al di fuori dell’Assemblea nazionale, per organizzare riunioni comuni su scala locale o nazionale.
In realtà, più che cercare un’espressione comune oggi, tutti i componenti della NUPES, a parte la France insoumise (FI), sembrano interessati soprattutto a una propria specifica presentazione nelle prossime elezioni europee.
Questa situazione ha portato a critiche all’interno di LFI, a un appello comune all’unità da parte dei leader delle organizzazioni giovanili NUPES e a diversi forum. In ogni caso, dopo questo movimento sociale, i leader della NUPES sembrano incapaci di prendere iniziative per proposte sociali e politiche comuni per affrontare Macron, rafforzando i limiti del loro accordo elettorale.
All’interno della sinistra radicale, diverse centinaia di attivisti dell’NPA, di Ensemble, del movimento femminista, dei sindacati, degli ambientalisti, degli antirazzisti e delle associazioni hanno appena indetto un processo di assemblee locali e regionali per realizzare un forum sociale all’inizio di luglio “per costruire infine una nuova forza democratica e pluralista”.
Nel complesso, la costruzione di un fronte sindacale, sociale e politico unito dovrà essere il compito del momento, per rendere credibile un’alternativa politica che lotti contro le politiche liberali. Il programma di questa alternativa è molto presente nelle rivendicazioni delle correnti sindacali in lotta, in particolare nella CGT, in Solidaires e nella FSU, e nelle associazioni militanti del movimento sociale. France Insoumise e NUPES si sono fatti portavoce di molte di queste istanze nelle ultime elezioni.
Ma ora si tratta di costruire un crogiolo militante comune, capace di organizzare, promuovere il dibattito e creare la base delle mobilitazioni da costruire.
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Francia, continuiamo ad agire
Comunicato dell’intersindacale del 15 giugno 2023
Dopo 6 mesi di scioperi e una mobilitazione storica per durata e portata delle manifestazioni, il governo ha deciso di imporre la sua riforma delle pensioni impedendo ancora una volta ai parlamentari di votare. Questa nuova negazione della democrazia e i numerosi passaggi forzati, nonostante il massiccio rifiuto della popolazione, lasceranno profonde cicatrici. Proprio ieri, il Consiglio d’Europa ha messo in discussione la notevole ingerenza dell’esecutivo in seguito all’utilizzo dell’articolo 49.3 in Francia.
Questa riforma, respinta da tutti i sindacati dei lavoratori e dei giovani, ha portato a un livello di mobilitazione senza precedenti, raramente visto anche in Europa. Ciò avrebbe dovuto indurre il governo a ritirare il piano. L’esecutivo è stato notevolmente indebolito da questo conflitto, disprezzando la socialdemocrazia e i lavoratori e i giovani che sono ancora in maggioranza contrari a questa riforma. Questo è un fatto grave e solleva interrogativi sulla futura espressione della rabbia sociale.
I sindacati e i manifestanti non sono riusciti a convincere il governo a fare marcia indietro sull’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, ma non stiamo voltando pagina.
Questa riforma inutile, ingiusta e brutale tratta male i lavoratori del settore pubblico e privato e i giovani, imponendo loro 2 anni di lavoro in più. Nelle aziende che non vogliono più assumere lavoratori anziani, uno dei veri problemi avrebbe dovuto essere, e lo è tuttora, quello di mantenerli al lavoro, a cui questa riforma non dà alcuna risposta. Eppure tutti i sindacati avevano presentato proposte che sono state respinte dal governo.
L’esperienza degli ultimi 10 mesi ha dimostrato che l’unità dei sindacati professionali e giovanili su richieste comuni permette di costruire un potere contrattuale.
Come ha fatto l’Intersindacale sulla questione delle pensioni, concentrandosi su ciò che la unisce, ora lavorerà per identificare richieste comuni su ciascuno dei seguenti temi: salari e pensioni, condizioni di lavoro, salute sul posto di lavoro, democrazia sociale, parità di genere, ambiente e condizionalità degli aiuti pubblici alle imprese.
Vogliamo compiere progressi significativi su questi temi, soprattutto nei futuri negoziati.
I prossimi negoziati sulle pensioni integrative dell’Agirc Arrco (la struttura che gestisce le casse di pensioni complementari per i lavoratori dipendenti, ndt) previsti per l’autunno, e quelli sull’indennità di disoccupazione, saranno questioni molto importanti in cui le nostre organizzazioni faranno valere tutto il loro peso.
Per tutti i lavoratori, gli studenti e gli alunni delle scuole secondarie che rappresentiamo, che hanno riposto in noi la loro fiducia, per tutti coloro che hanno manifestato, a volte per la prima volta, e per tutti coloro che si sono uniti ai ranghi sindacali per partecipare a questa lotta, lanciamo un messaggio collettivo: continueremo a sfidare questa riforma pensionistica e a lottare per la giustizia sociale.
La coalizione intersindacale che stiamo costruendo dal luglio 2022 è una forza da tenere in considerazione. Ha già dimostrato la sua capacità di agire insieme attraverso le sue richieste e di mobilitarsi quando necessario.
Questa forza sarà in grado di mobilitarsi nei prossimi mesi per chiedere il progresso sociale e affrontare le politiche di regressione sociale a livello nazionale, anche nel quadro di una manifestazione europea. Nel frattempo, invitiamo i lavoratori di tutto il mondo, insieme ai loro sindacati, a chiedere, negoziare e mobilitarsi per ottenere aumenti salariali.
L’intersindacale tornerà a riunirsi in autunno.
Parigi, 15 giugno 2023
- Francia, tutte/i in piazza il 23 settembre contro la violenza della polizia, il razzismo e l’islamofobia
- Francia, costruire l’alternativa, ma come?
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- Appello globale a sostegno dei Soulèvements de la Terre
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- Francia, uniti e rivoluzionari, nelle lotte sociali, ecologiche e antirazziste
- Francia, Macron è già sconfitto ma il movimento popolare non ha vinto
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Volkov, Esteban (Vsevolod Platonovich)
Esteban Volkov, nipote di Leon Trotsky e ultimo testimone vivente dell’attentato alla sua vita da parte di Ramon Mercader il 21 agosto 1940, è morto venerdì 16 luglio in Messico. È sempre stato un instancabile difensore della memoria e delle idee di colui che fu un leader della Rivoluzione russa e un convinto combattente contro il capitalismo e lo stalinismo. Lo ha dimostrato promuovendo iniziative come la trasformazione, nel 1990, della casa in cui visse il nonno a Coyoacán (Città del Messico) in un museo. A Madrid, nel gennaio 1989, era intervenuto a una conferenza tenutasi all’università di Madrid, organizzata dall’Alianza Hispano Francesa, dall’Istituto Francese e dalla Fondazione Andreu Nin, alla quale hanno partecipato, tra gli altri, Manuel Vázquez Montalbán, Fernando Claudín, Pierre Broué e Alain Krivine.
Esteban Volkov, nipote di Leon Trotsky, è stato il custode della casa-museo Leon Trotsky a Coyoacán (Messico).
Vsevolod è nato il 7 marzo 1926, figlio di Zinaida Volkova e del suo secondo marito, Platon Ivanovitch Volkov (1898-1936). Zinaida era figlia di Leon Trotsky e della sua prima moglie, Alexandra Sokolovskaya. Il marito Platon Volkov era un membro dell’opposizione di sinistra diretta da Trotsky.
Platon Volkov fu esiliato in Siberia nel 1928, ma tornò nel gennaio 1931. Zinaida stava andando a trovare Trotsky nel suo esilio a Prinkipo (Turchia). Stalin autorizzò la visita, con il permesso di portare con sé un familiare. Partì con Seva (abbreviazione di Vsevolod), lasciando la figlia Alexandra con il padre Zakhar.
Appena arrivati in Turchia, Stalin tolse a Zinaida e Seva la cittadinanza sovietica, impedendone il ritorno. Così, furono costretti a rimanere in Turchia per qualche tempo con Trotsky e con la sua seconda moglie, Natalia Sedova. Alla fine del 1932, Zinaida e Seva lasciarono la Turchia per vivere a Berlino con il fratellastro di Zinaida, Lev Sedov (figlio di Trotsky e Sedova).
Ma Zinaida, depressa e lentamente morente di tubercolosi, si suicidò il 5 gennaio 1933.
Nel giro di un mese dalla morte di Zinaida, i nazisti presero il potere in Germania, spingendo Leon Sedov a fuggire con Seva in Austria, dove vissero fino alla guerra civile austriaca del febbraio 1934. Dopo aver lasciato l’Austria, si trasferirono a Parigi nel 1935. In seguito si scoprì che gli agenti dell’NKVD (il servizio segreto stalinista) occupavano l’appartamento accanto.
Il padre di Seva, Platon Volkov, fu nuovamente arrestato nel 1935 durante le Grandi Purghe e scomparve nei gulag nel 1936.
Dopo la morte di Sedov nel 1938, la sua fidanzata Jeanne Martin volle tenere Seva, che aveva 12 anni. Trotsky fece causa per la custodia e vinse la causa, ma Jeanne Martin si nascose con Seva.
Alla fine gli amici di Trotsky trovarono il bambino e lo portarono a Coyoacán, in Messico, per vivere con Trotsky e Natalia Sedova, che vivevano lì dal gennaio 1937.
Quando Vsevolod arrivò in Messico l’8 agosto 1939, parlava spagnolo, francese e inglese, ma aveva dimenticato la maggior parte del russo, del turco e del tedesco che aveva imparato nei primi 8 anni di vita. Dovette parlare francese con il nonno e la suocera. Visse con Leon Trotsky solo per un anno, ma secondo lui “il vecchio” sostituì suo padre.
Il 24 maggio 1940, durante un attentato a Trotsky da parte di agenti stalinisti guidati da David Alfaro Siqueiros, Seva fu ferito a un piede. Quando, il 20 agosto 1940, Trotsky fu assassinato da Ramón Mercader. Esteban aveva 14 anni.
Vsevolod, che da allora ha iniziato a scrivere il suo nome come Esteban e ha voluto assumere il nome di Esteban Volkov-Bronstein, continuò a vivere con Natalia Sedova. Studiò in Messico e divenne ingegnere chimico. Si è sposato e ha avuto quattro figlie. E’ stato, fino alla sua morte del 16 giugno 2023, custode del Museo Trotsky di Città del Messico.
Esteban Volkov ha incontrato la sorellastra Alexandra in URSS poco prima che morisse di cancro nel 1989. Ma non riuscirono a comunicare: Esteban aveva dimenticato il russo e Alexandra non parlava né spagnolo, né inglese, né francese.
Una delle figlie di Esteban, Nora Volkov, è diventata medico e direttore del National Institute on Drug Abuse (NIDA) negli Stati Uniti.
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La riunione intersindacale di Palermo del 10 e 11 giugno
Si è svolto negli scorsi giorni a Palermo il previsto incontro periodico tra le organizzazioni sindacali europee aderenti alla Rete sindacale internazionale di solidarietà e lotta (RSISL). Si è trattato di appuntamento finalizzato al confronto sui comuni programmi e sulle strategie da intraprendere per una risoluzione delle conseguenze di una crisi che investe la politica, l’economia e la società a livello mondiale.
Nelle due giornate di riunione in Sicilia è stato dato ampio spazio anche alle problematiche legate al fenomeno migratorio e al progressivo smantellamento della sanità pubblica e alla definizione di comuni campagne di informazione e mobilitazioni per porre la UE di fronte alle proprie responsabilità.
Qui sotto pubblichiamo il comunicato comune emesso dalle organizzazioni partecipanti al termine dell’incontro.
Il comunicato comune
Dopo Roma il 10 e 11 settembre 2022, Parigi il 21 e 22 gennaio 2023 e Barcellona l’1 e 2 aprile 2023, le organizzazioni firmatarie riunite a Palermo il 10 e 11 giugno 2023 desiderano ribadire il loro sostegno alle lotte sindacali e sociali in corso in Europa.
I nostri dibattiti sulle situazioni politiche, economiche, sociali ed ecologiche dei vari paesi rappresentati ci hanno permesso di notare molti punti di convergenza sugli attacchi portati dai governi al servizio del capitalismo contro i lavoratori.
Le donne e i migranti sono i primi a essere colpiti da queste politiche. Tuttavia, in questo contesto segnato dal rafforzamento delle politiche di austerità, accogliamo con favore la rinascita delle mobilitazioni sociali e gli scioperi settoriali e generali che si sono svolti finora.
Saremo a San Paolo (Brasile) in occasione del 5° incontro della Rete sindacale internazionale di solidarietà e lotta, dove potremo condividere le nostre riflessioni con tutte le organizzazioni aderenti extraeuropee.
Poi a Bruxelles il 9 e 10 novembre per una conferenza stampa sui diritti sindacali in occasione dell’incontro con i parlamentari europei in coordinamento con le organizzazioni sindacali belghe.
In particolare, sosteniamo
- la lotta per una migliore retribuzione del personale non docente delle scuole di Varsavia
- l’iniziativa dei sindacati della penisola iberica di riunirsi il 21 e 22 luglio a Bilbao per organizzare una mobilitazione europea unitaria in difesa delle pensioni e del pensionamento.
- la lotta dei lavoratori della metropolitana di Buenos Aires, riuniti nell’Associazione dei lavoratori della metropolitana e della pre-metropolitana (SUBTE), che hanno condotto una dura battaglia contro l’esposizione dei lavoratori della metropolitana all’amianto e le sue conseguenze sulla salute.
- il 3° convoglio sindacale di solidarietà di classe con le organizzazioni sindacali in lotta in Ucraina.
- il popolo curdo e le organizzazioni turche nella loro lotta contro l’autoritarismo e l’impunità del governo Erdogan e per il passaggio a una società democratica in cui i loro diritti siano pienamente rispettati. Respingiamo i tentativi delle autorità turche di impedire alle delegazioni internazionali di osservare le elezioni dell’11 maggio, e in particolare denunciamo l’espulsione di Tino Brugos, responsabile della politica sindacale della Confederazione intersindacale (Spagna).
- le lotte dei migranti e degli esuli in Europa, in particolare lo sciopero dei lavoratori senza carta di Chronopost e DPD a Parigi.
- le lotte delle donne per l’emancipazione in tutto il mondo, in particolare in Iran e in Kurdistan.
- UGTSARIO, che rappresenta la lotta e il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi.
- la lotta del popolo palestinese, simbolo della resistenza multipla ai brutali attacchi cui è sottoposto.
- la lotta del popolo zapatista, che subisce da diverse comunità, diversi attacchi da parte dei narcos, delle associazioni e di un governo che si gira dall’altra parte.
- tutte le lotte dei lavoratori e dei popoli per i loro diritti e l’autodeterminazione.
Tutte le organizzazioni firmatarie rifiutano la repressione e la criminalizzazione delle lotte, e offriamo la nostra piena solidarietà alle vittime della violenza della polizia.
Questo incontro ci ha dato l’opportunità di ribadire i nostri precedenti impegni, come la necessità di essere presenti alle manifestazioni nazionali in ogni paese. Per sostenere le lotte, ci impegniamo a organizzare delegazioni ogni volta che è possibile nel paese in cui ci si mobilita e a promuovere incontri davanti alle ambasciate per i sindacati che non possono viaggiare.
In autunno, intendiamo organizzare una manifestazione davanti al Parlamento europeo a Strasburgo o a Bruxelles per chiedere diritti di rappresentanza sindacale effettivi per il sindacalismo di base militante e per tutti i lavoratori.
Le nostre discussioni sui diritti sindacali dimostrano che i diritti dei lavoratori sono sotto attacco ovunque e che il coordinamento collettivo internazionale è essenziale per rispondere. Questo è anche il significato del nostro sindacalismo internazionalista.
I nostri sindacati si impegnano a lavorare insieme per costruire una piattaforma europea sul diritto di sciopero, sulle libertà sindacali e sul diritto alla rappresentanza, sulla salute sul lavoro e sui diritti dei migranti. Ci attiveremo per far conoscere e realizzare queste richieste.
Come concordato a Barcellona, le discussioni a Palermo si sono concentrate sulla salute sul lavoro, sul sistema sanitario e sulla migrazione nei nostri paesi, e ci hanno permesso di notare molti punti di convergenza sugli attacchi ai lavoratori da parte dei governi al servizio del capitalismo.
Si è lavorato sulla situazione del sistema sanitario e della salute sul lavoro nei paesi partecipanti. Il COBAS Sardegna ha proposto un manifesto sulla salute, che verrà elaborato per essere presentato al 5° incontro dell’RSISL in Brasile a settembre.
Le organizzazioni presenti si sono impegnate a riferire sulle vittorie legali contro i padroni per rafforzare le lotte di tutti e hanno preparato una dichiarazione in difesa della salute pubblica.Per continuare il nostro lavoro, saremo a Bruxelles, in una sede che verrà stabilita da SUD Vaud, nell’ambito della mobilitazione sui diritti sindacali.
Union Syndicale Solidaires (Francia)
UNICOBAS (Italia)
TIE (Alemania)
Fédération syndicale SUD Vaud + SYNDIBASA (Suiza)
STASA (Portogallo)
OZZ Inicjatywa Pracownicza (Polonia)
IAC Intersindical Alternativa de Catalunya
Fronte di Lotta Non Austerity (Italia)
CUB (Italia)
Coordinadora Jubillats i Pensiones de CGT Catalunya
Confederación Intersindical (stato spagnolo)
COBAS Sardegna (Italia)
COBAS (Italia)
Co. Bas (stato spagnolo)
CGT (stato spagnolo) e CATAC – CTS -
Berlusconi è morto, ma l’incubo della sua eredità rimane…
di Yorgos Mitralias
Purtroppo, la fine di Berlusconi non significa la fine del modello di politica (borghese) che ha inventato e attuato.
Perché no? Perché Berlusconi è riuscito a dare l’esempio, plasmando un’intera “generazione” di politici di estrema destra estremamente neoliberisti e iper-reazionari che già governano o minacciano di governare quasi metà dell’umanità, flirtando con il fascismo quando non si dichiarano apertamente fascisti.
E, naturalmente, i “risultati” di Berlusconi sono sufficienti a giustificare l’affermazione di molti dei suoi attuali apologeti secondo cui egli ha “lasciato un segno nella storia del suo paese e del suo tempo”. Tuttavia, essi dimenticano di aggiungere che Berlusconi “ha lasciato il segno nel suo paese e nel suo tempo” allo stesso modo del suo compatriota… Benito Mussolini, al quale Silvio amava essere paragonato quando prese le redini del governo italiano dopo i trionfi elettorali del 1994, 2001 e 2008…
Si tratta solo delle vanterie di un fanfarone incallito con la predilezione per i paroloni privi di impatto pratico?
Certamente no, se ricordiamo non solo che l’attuale prima ministra “post-fascista” italiana, Giorgia Meloni, è una sua creazione personale, ma anche che Berlusconi ha fatto in modo, fin dal primo giorno della sua carriera politica, che gli epigoni di Mussolini uscissero dal quarantennio postbellico, prima facendo del loro leader Gianfranco Fini il vicepresidente dei suoi governi, poi fondendo il suo partito con quello dei fascisti di Fini.
Ma Berlusconi non si è limitato a questa sistematica “collaborazione” con i figli spirituali di Mussolini.
Ha fatto qualcosa di molto più importante e terribilmente pericoloso: ha cambiato l’Italia in modo così radicale da rendere irriconoscibile un intero paese e la sua società, l’Italia. Come abbiamo scritto lo scorso settembre (in francese), commentando le elezioni italiane che hanno visto il trionfo della Meloni, “il berlusconismo, quel misto di cinismo neoliberista, volgarità nouveau riche, razzismo aggressivo e sessismo estremo, amoralismo sfrenato, ha portato e continua a portare scompiglio perché si è radicato nella società italiana e ora scorre nelle sue vene”.
Ma l’importanza storica e l’estrema pericolosità di Berlusconi risiedono soprattutto nel fatto che egli non ha limitato l’impatto delle sue azioni al proprio paese, ma le ha consapevolmente conferito una dimensione internazionale.
Come negli anni Ottanta la Thatcher ha avviato e “legittimato” con il suo esempio le politiche neoliberiste che sono state poi attuate da innumerevoli imitatori in tutto il mondo, così Berlusconi, alla fine del XX secolo e all’inizio del XXI, ha “inventato”, ha avviato e “legittimato”, con il suo esempio (vittorioso), politiche – ma anche comportamenti – violentemente antioperaie e al tempo stesso ultra-reazionarie e oscurantiste, che prima di lui sarebbero state impensabili, ma che oggi vengono attuate da decine di suoi imitatori, grandi e piccoli, in tutto il mondo.
Infatti, la diffusione del modello politico berlusconiano è ormai così capillare, e le sue radici anche nelle metropoli del capitalismo internazionale così evidenti, da costituire probabilmente la più grande e immediata minaccia politica per l’umanità.
Ecco cosa scrivevamo in proposito nove mesi fa in un articolo dal titolo eloquente: “Verso l’Internazionale bruna dell’estrema destra europea e globale?”:
L’India di Modi, la Russia di Putin, il Brasile di Bolsonaro, l’Ungheria di Orban, e presto l’Italia di Giorgia Meloni e forse gli Stati Uniti di Trump II – l’elenco è tutt’altro che esaustivo, ma dà un’idea della gravità della minaccia che incombe sull’umanità. Lungi dall’essere tutti nostalgici o “eredi” del fascismo e del nazismo del periodo tra le due guerre, questi leader sono accomunati dal razzismo, dalla xenofobia, dall’autoritarismo, dall’islamofobia e dall’antisemitismo, dall’aperto rifiuto della democrazia parlamentare (borghese) e dalla misoginia, la loro adorazione per i combustibili fossili e lo scetticismo climatico, il loro militarismo, il loro disprezzo per i diritti e le libertà democratiche, il loro controllo della storia e delle teorie cospirative, il loro odio per la comunità LGBTQ, il loro oscurantismo e il loro attaccamento viscerale al trittico “famiglia-patriarcato-religione”.
Naturalmente, non è un caso che tutti costoro siano sempre stati amici, alleati e ammiratori di Berlusconi, e che oggi si sfidino a colpi di lodi sfrenate del loro defunto idolo e modello politico.
Oltre all’odio – spesso omicida – che loro, come molti altri, nutrono nei confronti del movimento operaio, degli immigrati, di tutte le minoranze etniche, sessuali e di altro genere, dei “diversi” e, naturalmente e soprattutto, delle donne, c’è qualcos’altro che li accomuna e che è un contributo del tutto personale del defunto Silvio Berlusconi: un particolarissimo approccio “estetico” alla vita che coniuga la volgarità estrema con la teppaglia, l’esibizionismo macho con la misoginia più primitiva.
E tutto questo coltivando la violenza e il culto della violenza, monopolizzato dalle “élite”, cioè da loro stessi, per sottomettere e schiacciare tutti coloro che, in Europa, in America e nel resto del mondo, si ostinano a difendere e a rivendicare i più elementari diritti e libertà democratiche…
In conclusione, Berlusconi ci ha lasciato, ma la sua eredità, che rimane più che mai temuta, non ci permette di gioire come vorremmo per la lieta notizia della sua scomparsa.
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Francia, organizzarsi per costruire l’alternativa
Il testo dell’appello
La storica mobilitazione contro Macron e la sua controriforma delle pensioni è notevole per la sua unità, in particolare tra i sindacati, gli scioperi e le manifestazioni di massa, le casseruole e altre azioni che sfidano direttamente il governo. Ha confermato la giovinezza, la determinazione e la combattività del movimento sociale con una dimensione politica, come, ad esempio, durante le manifestazioni femministe dell’8 marzo, quelle contro la “legge sull’immigrazione” di Darmanin o contro le mega-piscine di Sainte-Soline. Ci ha anche permesso di rafforzare i nostri legami nelle assemblee generali e negli incontri interprofessionali e di approfondire le connessioni tra i diversi movimenti. Questi scontri sociali saranno sempre più frequenti, come in tutto il mondo. Dobbiamo affrontare il sistema capitalista, ecocida, patriarcale e razzista e rafforzare la nostra speranza in una società diversa; dobbiamo organizzarci per lottare per un’alternativa popolare, radicale e democratica, per proporre un progetto di rottura con il passato e di trasformazione rivoluzionaria della società.
Oggi ci troviamo di fronte a un governo sempre più radicale e autoritario e a un apparato statale sempre più repressivo e in crisi. La polizia uccide nei quartieri e mutila attivisti e giornalisti durante le manifestazioni. Lo Stato, sostenuto dai media mainstream e dai partiti di destra (e talvolta anche di sinistra), sta orchestrando l’islamofobia e la sua parte di leggi di emergenza, come la cosiddetta legge sul “separatismo”, in un Paese già afflitto da antisemitismo, antiromanofobia, negrofobia e ogni tipo di razzismo. Per combattere l’aggravarsi della povertà e dei disastri ecologici, il razzismo, il sessismo e il validismo, e l’ascesa del neofascismo, abbiamo bisogno di un grande movimento di lavoratori, classi lavoratrici e giovani.
In quest’ottica, riteniamo che le organizzazioni attuali non siano sufficienti e che sia necessario organizzarsi ulteriormente, unirsi per costruire, a lungo termine, una nuova forza democratica e pluralista, per la giustizia, l’uguaglianza e la democrazia, per la solidarietà internazionale – dalla Palestina all’Ucraina – per la solidarietà con i migranti e la loro accoglienza dignitosa e incondizionata, per resistere sistematicamente al liberalismo e all’estrema destra, per lavorare insieme per una vera alternativa.
Questa organizzazione politica può essere presente nell’arena elettorale e istituzionale, ma non si lascerà controllare dalla forza dell’integrazione nel sistema. Il suo centro di gravità saranno le strade, i luoghi di lavoro, i quartieri, perché la legittimazione popolare dovrà opporsi alle istituzioni di potere esistenti, lo Stato. Vogliamo costruire una società libera dallo sfruttamento, dall’oppressione e dal produttivismo, una società che può esistere solo se è costruita da chi produce la ricchezza.
Il movimento attuale dimostra quanto sia necessaria l’unità e la radicalità. L’organizzazione politica che vogliamo costruire lavorerà quindi anche per costruire fronti sociali e politici ampi e democratici, a livello locale e nazionale, nelle strade, nelle mobilitazioni e nelle urne se ci sono le condizioni, per combattere le politiche di destra, il neofascismo della RN e tutte le idee e la violenza dell’estrema destra. È aperto il dibattito su come valutare la NUPES – a cui alcuni di noi partecipano, altri no – sul ruolo che può svolgere e sul nostro rapporto con essa.
Invitiamo tutti i cittadini, i sindacalisti, gli attivisti di comunità, gli ecologisti, gli ecosocialisti, i decrescentisti, le femministe, gli attivisti LGBTQI+, gli antirazzisti, gli internazionalisti, gli antivalidi, gli autogestionari, gli alternativi e i rivoluzionari che si riconoscono in questi obiettivi a unirsi a noi per un primo incontro nazionale, nella forma di un forum aperto e pluralista. Questo forum sarà il primo passo per discutere insieme la forma di una nuova organizzazione da costruire.
Proponiamo che questo forum sia preparato da incontri locali, dipartimentali e regionali, che riuniscano residenti, cittadini e attivisti nelle prossime settimane, in modo che possano inviare delegati al forum nazionale. Proponiamo che questo forum si svolga domenica 2 luglio e invitiamo tutti i gruppi, le organizzazioni e i singoli interessati a unirsi a noi in questo appello e a contribuire all’organizzazione e alla diffusione di questo forum.- L’appello ha già raccolto centinaia di firme. L’elenco (in continuo aggiornamento) è qui
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Francia, uniti e rivoluzionari, nelle lotte sociali, ecologiche e antirazziste
Pubblichiamo qua sotto un breve resoconto della riunione del CPN del Nouveau Parti Anticapitaliste (Francia) e un articolo che illustra l’iniziativa su cui l’NPA si sta impegnando in queste settimane.
di Fabienne Dolet, da Hebdo L’Anticapitaliste – 664 (01/06/2023)
Il 27-28 maggio, l’Anp ha tenuto il suo Consiglio politico nazionale (CPN) a Parigi per discutere, in particolare, dello scontro tra il mondo del lavoro e lo stato nel contesto del movimento contro la riforma delle pensioni.
Il CPN ha iniziato adottando all’unanimità una risoluzione politica.
La situazione è a dir poco contraddittoria: “Su scala nazionale, abbiamo assistito a uno dei più grandi movimenti dal 1995 e dal 2010, mentre su scala internazionale abbiamo assistito a importanti battute d’arresto e vittorie del campo reazionario”. Il governo di estrema destra in Israele, il mantenimento di Erdogan in Turchia, la reintegrazione di Assad, il macellaio della Siria, nella Lega Araba, gli eccessi dittatoriali di Kaïs Saïed in Tunisia e Abdelmadjid Tebboune in Algeria, i generali in Sudan che si accapigliano sulle spalle dei Comitati di Resistenza, e la recente elezione in Cile di un Consiglio Costituzionale nelle mani dell’estrema destra, sono tutti testimoni di un preoccupante spostamento dell’equilibrio di potere internazionale.
Un bilancio del movimento contro la riforma delle pensioni
Da questo punto di vista, “la politica di Macron si inserisce in questo contesto più generale di politiche liberali e autoritarie”. Il movimento è stato caratterizzato da tre fasi successive.
Una prima fase (19 gennaio 2023 – 16 marzo 2023), incentrata su manifestazioni molto forti in città di piccole e medie dimensioni, con un’autorganizzazione molto debole.
Una seconda fase dopo l’uso del 49,3 il 16 marzo e un picco di mobilitazione il 23 marzo.
Da allora, la terza fase, il movimento sociale non si è trasformato in un movimento politico di massa o in uno sciopero generale, ma la pressione e la rabbia sono ancora presenti: “Il movimento delle casseruole ha mantenuto la pressione sul governo in modo simbolico ma non insignificante. È difficile capire come il movimento possa riprendersi in questa fase. La giornata di sciopero del 6 giugno, due giorni prima di un nuovo episodio parlamentare che prevede una proposta di abrogazione della legge, è la prossima data di confronto”.
Costruire mobilitazioni ecologiche, confrontarsi con lo stato e il capitalismo
La mobilitazione del 25 marzo contro il megabacino di Sainte-Soline è stata un passo particolare per collegare le lotte ecologiche e anticapitaliste, così come le mobilitazioni contro l’autostrada Castres/Tolosa del 22 aprile e contro il progetto di autostrada a est di Rouen del 5, 6 e 7 maggio.
La prossima tappa è la mobilitazione, in corso da oltre vent’anni, contro il progetto Lione-Torino, contro questo enorme progetto inutile, il 17-18 giugno.
Reagire di fronte all’estrema destra e alla deriva autoritaria e razzista dello stato
Le manifestazioni contro la legge Darmanin del 25 marzo sono state parte di una protesta globale contro le politiche del governo e sono state un successo. Il governo ci riproverà quest’estate.
Si tratta di una politica incendiaria che sta già mostrando in parte i suoi effetti: i piccoli gruppi si sentono in diritto di agire senza che lo stato sia un ostacolo ai loro atti di violenza, come nel caso del sindaco di Saint-Brévin. La forte presenza di militanti di estrema destra nelle forze di polizia, l’esistenza di squadre specializzate nello scontro diretto con il movimento sociale, l’istituzionalizzazione del RN (il partito di Marine Le Pen) con la sua significativa presenza nel parlamento… sono tutti segni della trasformazione autoritaria dello stato.
Fronte unico e partito
Per costruire lo sciopero del 6 giugno, contro la legge Darmanin, nelle lotte per i salari, nelle lotte ecologiche, manteniamo “un doppio orientamento unitario e rivoluzionario”.
Anche se si svolgeranno tra un anno, le elezioni europee saranno le prime scadenze elettorali importanti dopo la mobilitazione per le pensioni. Stiamo testando le possibilità di un fronte unito per difendere la necessità di una rottura con le politiche liberali europee in atto da decenni.
Allo stesso tempo, dobbiamo rafforzare la nostra organizzazione e il suo progetto. A tal fine sono state istituite tre commissioni: Diritti degli animali, Immigrazione-antirazzismo e Intervento femminista. È stata istituita una commissione del CPN per organizzare l”Incontro nazionale dei Comitati previsto per l’autunno.
L’Università estiva sarà un evento chiave per i dibattiti di approfondimento.
Forum anticapitalista
Infine, tre quarti del CPN hanno adottato l’obiettivo di riunire le componenti del movimento sociale e le forze politiche con cui siamo in discussione in un forum anticapitalista all’inizio di luglio.
Un testo di appello è stato redatto con Rejoignons-nous e Ensemble! L’obiettivo è quello di diffonderlo nei prossimi giorni per la raccolta di firme da parte di attivisti e rappresentanti.
- Leggi anche il testo dell’appello e l’elenco completo delle firme (in continuo aggiornamento.
Forum anticapitalisti per discutere, superare e costruire
di Manu Bichindaritz, da Revue L’Anticapitaliste n°146 (mai 2023)
Se avessimo ancora bisogno di essere convinti, il movimento sociale contro l’innalzamento dell’età pensionabile legale è un’opportunità per dimostrare che, vittoria sociale o meno, la questione politica rimane: qual è l’alternativa al progetto ultra-liberale e autoritario di Macron? Dobbiamo iniziare a chiederci come risolvere il problema dell’organizzazione del nostro campo sociale qui e ora: quale forza, per quale scopo e come?
“Un quadro collettivo di sviluppo e di azione che riunisce coloro che hanno deciso liberamente di unirsi per difendere un progetto comune di società […] Questo partito porta con sé la speranza di una società liberata dallo sfruttamento e dall’oppressione”. Con queste parole, nel 2009, l’NPA ha definito l’obiettivo di schierarsi con i suoi “principi fondativi” che, sebbene la situazione sia ovviamente cambiata, rimangono di grande attualità. Perché rimettersi in carreggiata nella costruzione di un’organizzazione per gli sfruttati e gli oppressi significa innanzitutto dare un rapido sguardo critico alle esperienze recenti, a partire dalla nostra.
Ritorno al futuro
La prospettiva di costruire un “nuovo partito anticapitalista” è stata lanciata all’indomani di un’elezione presidenziale segnata dal successo della campagna della LCR e del suo candidato Olivier Besancenot, sulle rovine di una speranza unitaria abortita dopo la vittoria del “No” al Trattato costituzionale europeo.
Questo esperimento, unico nel suo genere, ha cercato di costruire un piccolo partito con un appeal di massa che andasse oltre il perimetro tradizionale della presenza e dell’influenza dell’estrema sinistra, riunendo il mondo del lavoro – salariati, precari, disoccupati – le persone che vivono nei quartieri popolari, gli attivisti contro l’oppressione, i militanti della sinistra rivoluzionaria o “radicale”, con l’obiettivo di rompere con il capitalismo attraverso la trasformazione rivoluzionaria della società.
Guardando indietro negli anni, possiamo confermare il nostro obiettivo. Nessuna delle principali coordinate della situazione è cambiata, né dal punto di vista delle crisi del sistema né dal punto di vista dell’organizzazione della nostra classe.
Il resto della storia è noto: da quasi 10.000 iscritti nel 2009, l’NPA ha perso il 75% dei suoi membri pochi anni dopo. Un’emorragia, segno di un fallimento, la cui spiegazione non è univoca, combinando elementi endogeni e reali difficoltà interne, errori di costruzione.
Nel 2008, la situazione del capitalismo globalizzato, segnata dalla grande crisi finanziaria dei subprime, ha fornito linfa a chi criticava un modo di produzione, un modello economico, allo stremo e la necessità di uscirne. Tanto più che, nello stesso periodo, cresceva la consapevolezza ecologica, in particolare la portata della crisi climatica e le sue conseguenze.
In sintesi, l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’IPCC nel 2007 ha dimostrato che il capitalismo rappresenta una minaccia per il pianeta e i suoi abitanti. Ma questa consapevolezza si basava su un equilibrio di potere degradato da cui non siamo usciti, segnato più dalla rabbia e dalle domande su come cambiare la situazione che dall’impulso a organizzarsi per farlo.
Logicamente, sono state le forze che sembravano avere una risposta immediata in termini di potere e di mezzi d’azione a cogliere per prime questo desiderio di trasformazione.
Ieri è stato l’emergere del Front de Gauche nello stesso “spazio politico” del nostro, ma su scala più grande e con una presenza maggiore dell’NPA, e con un potente orientamento elettorale… ad accompagnare l’impotenza di invertire la rotta attraverso la mobilitazione.
La rottura di Mélenchon con il liberalismo sociale promosso dal Partito Socialista (PS) al potere dal 2012 in poi ha giocato un ruolo fondamentale nel polarizzare un ambiente radicalizzato e altrettanto aperto alle idee anticapitaliste e rivoluzionarie. Oggi, certo in modo più ambiguo, la NUPES sta beneficiando più o meno della stessa dinamica, anche se non dobbiamo sottovalutare lo spostamento verso una sinistra critica del baricentro di questa sinistra incarnata da La France insoumise (LFI).
Ma se LFI in particolare ha ormai in mano alcune carte, non ha i mezzi per risolvere la questione dell’organizzazione. In primo luogo, perché LFI può uscire dalla sua condizione di “movimento gassoso” derivante dalla sua eredità “populista di sinistra” solo a costo di profondi cambiamenti organizzativi e dell’instaurazione di una democrazia interna che ne metta significativamente a rischio l’esistenza stessa.
È degno di nota il fatto che l’attuale dirigenza di LFI accetti l’adesione ad altri partiti (come nel caso del Parti de Gauche, del Parti ouvrier indépendante e della recente formazione della Gauche éco-socialista di sinistra), ma si opponga strenuamente alla formazione di correnti interne a LFI, segno di una democrazia viva.
Più sostanzialmente, in questa fase, l’attuazione del suo programma, l’Avenir en commun (Il futuro in comune), che prevede misure di rottura con le classi dirigenti che richiederebbero grandi scontri con esse, è vista solo in termini di quadro istituzionale attuale, il che significa che le prossime battaglie elettorali dovranno essere vinte.
LFI è quindi condannata a circondarsi dei soliti partner di quella che fino a poco tempo fa era la sinistra di governo… E gli attuali dibattiti intorno alle prossime elezioni europee illustrano chiaramente la necessità di accettare che, per combattere l’austerità e le frontiere e difendere una costruzione democratica al servizio dei popoli, l’unità può essere raggiunta solo rompendo con l’attuale costruzione europea e i suoi trattati, contro la fortezza Europa dei mercati e delle banche. Una scelta a dir poco contestata da alcune forze all’interno della Nupes…
Scambio e controllo
Il problema rimane. Rifondare un partito anticapitalista a vocazione di massa, con un’ampia influenza, che articoli una strategia di trasformazione rivoluzionaria del sistema, che sia portatore di una pratica unitaria, che delinei una prospettiva di costruzione di una società emancipatrice, resta più che mai necessario e urgente di fronte alla crisi economica, ecologica, sociale e democratica. Tanto più che da queste crisi potrebbe nascere il pericolo peggiore di tutti, quello dell’estrema destra.
Siamo chiari sul fatto che non crediamo che l’NPA sia uno strumento sufficiente oggi, soprattutto in considerazione della posta in gioco nelle lotte future e della questione dell’alternativa che deve ancora essere costruita.
Dopo le sequenze di intensi scontri nella lotta di classe degli ultimi anni (Gilets jaunes, lotte contro le riforme pensionistiche nel 2019 e oggi), vediamo chiaramente che l’NPA non è in grado di offrire risposte militanti al radicalismo espresso in queste lotte sociali.
Inoltre, come si suol dire, quando “là fuori” ci sono più attivisti e simpatizzanti che condividono in linea di massima le nostre lotte politiche di quanti siano impegnati nell’NPA nella sua forma attuale, dobbiamo cercare di costruire il giusto contesto affinché tutti possano organizzarsi. Ciò significa essere in grado di raggiungere altri attivisti, provenienti dal movimento sociale o dalle mobilitazioni contro lo sfruttamento e l’oppressione, ma anche da altre correnti, siano esse disilluse dalla sinistra istituzionale o dalle incapacità dell’estrema sinistra… Riunire coloro che, come si dice, hanno “una comprensione comune del periodo e dei compiti”.
Non partiamo da zero, tutt’altro, ma la nostra eredità va riesaminata e i confini di questa forza vanno riaffermati. In primo luogo, perché è logico che questo approccio si rivolga innanzitutto alle forze e alle correnti già politicamente organizzate.
L’estrema sinistra e la sinistra radicale di oggi pullulano di quadri – organizzazioni, raggruppamenti militanti… – nessuno dei quali può pensare di avere la chiave di volta.
Nei prossimi mesi, quindi, dobbiamo verificare se ci sono le condizioni per un salto organizzativo a medio termine, combinando elementi di dibattito teorico, uno scambio sulle coordinate del periodo con la sperimentazione di interventi comuni (nei luoghi di lavoro e nelle scuole, nei quartieri, in apparizioni e campagne comuni).
Solo a questo prezzo potremo solidificare una base comune che sia il prodotto di queste discussioni “dall’alto” e di una pratica comune “dal basso”, ed evitare non la democrazia necessaria a qualsiasi progetto rivoluzionario, ma il dibattito permanente che impedisce qualsiasi elaborazione comune e coltiva teorizzazioni e autocostruzioni solitarie.
Anticapitalista, rivoluzionario, unitario, democratico
In sostanza, i contorni di una nuova forza combinano diversi indicatori strategici al di sotto dei quali cambia la natura del progetto. Rimaniamo impegnati a costruire una forza “per la trasformazione rivoluzionaria della società”, anche in un periodo di arretramento, proprio perché questo arretramento è un’illustrazione dell’impasse in cui il sistema ci sta trascinando, e la rottura con questa società della competizione generalizzata è quindi necessaria.
Ciò significa un’opposizione concreta all’ordine sociale e a coloro che lo difendono, attraverso il confronto con lo stato della classe dominante e la difesa dei processi di autorganizzazione contro gli apparati burocratici e la cogestione delle istituzioni, affinché il mondo del lavoro e, più in generale, l’intera popolazione prendano in mano i propri affari.
Vogliamo un’organizzazione che possa parlare a tutti gli anticapitalisti, a tutti coloro che soffrono per il capitalismo e vogliono agire per rovesciarlo. Questo sistema economico e sociale genera una molteplicità di forme e relazioni di sfruttamento e oppressione che si esprimono in diversi ambiti della società, generando contraddizioni, resistenze e lotte. Al di là della loro natura specifica, queste lotte devono convergere in un quadro più ampio in cui le loro richieste possano essere articolate.
Poiché si tratta di un imperativo strategico per la costruzione della resistenza, ma anche per le unioni tattiche a livello politico, anche sul terreno elettorale, il nostro progetto non può che essere unitario.
Perché, sotto la pressione della borghesia, il nostro campo sociale è sulla difensiva, ma gli anticapitalisti devono essere all’attacco. Non in un confronto permanente con gli altri, in particolare con le forze che compongono la Nupes, ma mantenendo la propria indipendenza, nella costruzione di strumenti di mobilitazione (quadri unitari, campagne…) o di raggruppamenti elettorali che permettano di esprimere nel modo più maggioritario il rifiuto del macronismo, della destra e dell’estrema destra, per un’alternativa ecosocialista.
Infine, poiché difendiamo una società emancipatrice, l’organizzazione che vogliamo non può che essere democratica e militante. Le due cose si combinano: decidere collettivamente a seguito di una discussione aperta e realizzare insieme un’esperienza condivisa in cui tutti contribuiscono all’attività, anche se ci sono ritmi militanti diversi a seconda delle situazioni personali. È la base dell’uguaglianza tra tutti gli attivisti, e un’anticipazione di come potrebbero essere le relazioni in una società liberata dal capitalismo.
Avviare un processo, pensare alla mediazione
Sulla scia di molti altri eventi recenti che stanno contribuendo a forgiare nuove consapevolezze (la crisi sanitaria di Covid-19 e le varie mobilitazioni ambientaliste), l’attuale sequenza di mobilitazioni sociali sta già producendo i primi effetti in ampi settori della società: la consapevolezza della corsa sfrenata di un sistema produttivista e rapace pronto a far arretrare costantemente tutte le “conquiste sociali” (in particolare quelli della protezione sociale, della pensione, dell’assicurazione contro la disoccupazione, ecc.), la necessità di fermarlo e quindi di organizzarsi per poterlo fare (e di pensare alle conseguenze), il rischio di un punto di svolta fascista che si fa sempre più chiaro, il ruolo delle istituzioni “democratiche” delle classi dominanti che sono di fatto “l’unica via d’uscita” dalla crisi.
Tutto ciò dimostra che siamo in un momento in cui è necessario fare un’”offerta” politica, prendere iniziative, cercare di avanzare nell’organizzazione del nostro campo sociale.
Modestamente ma con fermezza, questa è la proposta che abbiamo fatto sulla scia di vari scambi per avviare un processo di discussione aperta, con l’organizzazione di “forum anticapitalisti”.
Non si tratta di un rantolo, né tanto meno di una ricetta miracolosa in grado di risolvere tutte le numerose contraddizioni della situazione sociale e politica, ma di un mezzo per decantare una prospettiva essenziale, verificare e costruire. Tale elaborazione si inserisce quindi in processi sociali e politici che devono essere costantemente discussi e aggiornati, in relazione a ciò che si discuterà in queste sedi, ma anche in relazione alla realtà di ciò che accade nella lotta di classe.
In questo senso, è in linea con la nostra visione di un partito concepito non in forma compiuta (o addirittura dogmatica), ma come mediazione organizzativa. Nella loro dimensione, questi forum sono destinati a essere un crogiolo per il periodo in cui vogliamo agire, e la loro dinamica dipenderà in larga misura dai fatti della situazione, dalla loro traduzione in coscienza di classe e dalla nostra capacità collettiva di riunire la più ampia gamma possibile di persone.
Pur essendo certamente aperti ad altre correnti organizzate, o addirittura co-organizzati con esse, il nostro obiettivo comune non è semplicemente quello di riunire ciò che già esiste in termini di organizzazioni strutturate, ma di rivolgerci in modo più ampio fin dall’inizio.
Vogliamo contribuire a un appello a tutti coloro che sostengono di essere o si identificano con una sinistra anticapitalista e unita, attivisti contro la riforma delle pensioni, del movimento dei Gilet Gialli, attivisti sindacali, attivisti antirazzisti, femministe, LGBTI+, intellettuali e figure della sinistra radicale, orfani di un quadro politico per organizzarsi.
Il processo vuole essere aperto, con i primi elementi di chiarificazione già in atto: intorno all’attuazione di una strategia coerente di fronte unito (che di fatto esclude alcune organizzazioni di estrema sinistra, decisamente ostili ad essa), e intorno alla necessità di costruire una nuova forza politica di cambiamento, indipendente dalle istituzioni (che è una delimitazione rispetto alla direzione de La France insoumise).
Ciò non significa che non si possa discutere con queste forze in questa fase, anche nel contesto di futuri forum. A lungo termine, possiamo solo sperare che questo porti alla costruzione di un partito, più consolidato e solido nella sostanza del nostro NPA, capace di agire sulla scena politica.
A partire dall’inizio di luglio, questo processo di forum si svolgerà probabilmente su un lungo periodo di tempo, in diverse fasi. Anche l’università estiva dell’NPA sarà una pietra miliare di questo processo e ci auguriamo che i primi scambi fruttuosi facciano nascere molto presto la possibilità di interventi comuni.
Per noi non c’è contraddizione tra il costruire l’NPA oggi e il pensare oltre. Infatti, in tutta umiltà, come militanti per l’emancipazione non possiamo avere altra ambizione che quella di mantenere vivo un quadro organizzativo utile agli sfruttati e agli oppressi, interrogandoci, senza feticismi, su come il nostro capitale politico possa essere fruttuoso in un determinato periodo. Come abbiamo scritto nel 2009, per mantenere vivo “il meglio dell’eredità di coloro che si sono confrontati con il sistema per due secoli, quella della lotta di classe, della tradizione socialista, comunista, libertaria e rivoluzionaria”.