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    Tax Justice Network, la fuga nei paradisi fiscali ruba 5.000 miliardi di dollari in 10 anni

    di Fabrizio Ortu, da fiscooggi.it, rivista online dell’Agenzia delle Entrate

    Il nuovo report dell’organizzazione promuove un appello per l’approvazione di una Convenzione fiscale delle Nazioni Unite

    Tax havens 2023

    I contribuenti che si servono dei paradisi fiscali per sfuggire al fisco causeranno una perdita complessiva di 5.000 miliardi di dollari Usa di entrate a livello mondiale nei prossimi 10 anni: una perdita di gettito equivalente alla intera spesa sanitaria pubblica nel mondo in un anno.

    Sono queste le conclusioni a cui approda il report di Tax Justice Network pubblicato a luglio. Come invertire la tendenza? L’organizzazione promuove un appello a favore dell’avvio dei negoziati per l’approvazione di una Convenzione Fiscale delle Nazioni Unite presso l’Assemblea generale (vedi l’articolo su Fisco Oggi “Onu: avanza la proposta africana di un Convenzione globale sulla tassazione”).

    Il documento dedica, inoltre, un’attenzione specifica al rapporto fra multinazionali e paradisi fiscali (o Tax Haven), all’asse costituito dal cosiddetto “Secondo Impero” del Regno Unito e all’attuale ruolo rivestito dall’Ocse.

    Il ruolo delle multinazionali

    I Tax Haven consentono di sottrarre alle giurisdizioni nazionali ben 480 miliardi di dollari ogni anno. Secondo il Tax Justice Network di questa cifra complessiva, 301 miliardi di dollari sono attribuiti alle multinazionali che dirottano i profitti verso i paradisi fiscali e 171 miliardi sono riconducibili alle persone abbienti che nascondono la ricchezza offshore.

    La frana della sanità pubblica nei paesi a basso reddito

    Il report si dedica in particolar modo ad esaminare l’impatto potenziale sulla spesa sanitaria della fuga verso i paradisi fiscali. Se le perdite stimate dai paesi ad alto reddito (426 miliardi di dollari all’anno) equivalgono secondo Tax Justice Network al 9,3% dei bilanci sanitari degli stati più floridi, nel caso dei paesi a basso reddito il decremento delle entrate fiscali (47 miliardi di dollari all’anno) corrisponde al 49% dei bilanci sanitari pubblici. La perdita di gettito si concentra in termini quantitativi nei paesi ad alto reddito, ma sono i paesi a basso reddito a subire il danno maggiore. “I paesi a reddito più basso – si legge nelle conclusioni del rapporto – subiscono le perdite più intense, perdendo di gran lunga le maggiori parte delle loro attuali entrate fiscali”.

    Il “Secondo Impero” del Regno Unito

    Il documento non si limita a conclusioni di tipo generale, ma ad esempio pone sul banco degli imputati il Regno Unito e la sua rete di Territori d’oltremare e di dipendenze della Corona, accusati di costituire “l’asse più ampio dell’elusione fiscale”. Un asse che coinvolgerebbe da una parte il cosiddetto “Secondo Impero” del Regno Unito e dell’altra i Paesi Bassi, il Lussemburgo e la Svizzera. “Il Secondo Impero – si può leggere a pagina 39 del documento – è responsabile per quasi la metà delle perdite fiscali, stimate in 171 miliardi a livello globale, dovute all’evasione fiscale offshore. Per una somma che si aggira intorno agli 85 miliardi di dollari statunitensi”.

    Dall’Ocse all’Onu?

    Il report di Tax Justice Network esamina i risultati ottenuti dall’Ocse negli ultimi decenni e auspica un nuovo ruolo nel contrasto all’evasione internazionale offshore per l’Onu. Secondo TJN il processo Beps (Base Erosion and Profit Shifting), dal 2013 al 2015 “non è riuscito a garantire una riduzione significativa dell’abuso globale e ha reso necessario Il secondo processo di riforma BEPS 2.0 […], che finora ha prodotto solo bozze di proposte politiche”. Alla luce di queste valutazioni il Network per la giustizia fiscale esorta gli stati a sostenere il trasferimento della leadership sulla tassazione globale dall’Ocse alle Nazioni Unite e a “votare nel prossimo inverno l’avvio dei negoziati per giungere all’approvazione di una convenzione fiscale Onu per evitare la sottrazione alle amministrazioni finanziarie di cifre astronomiche”

  • Francia, tutte/i in piazza il 23 settembre contro la violenza della polizia, il razzismo e l’islamofobia

    Francia, tutte/i in piazza il 23 settembre contro la violenza della polizia, il razzismo e l’islamofobia

    Comunicato del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA)

    La morte di Nahel Merzouk si aggiunge alla fin troppo lunga lista di crimini commessi dalla polizia. Due settimane dopo la morte di Alhoussein Camara, passata sotto i riflettori dei media, la morte di Nahel è stata filmata in diretta. Quel video ha contribuito a mettere in discussione la versione dei fatti fornita dalla polizia.

    Ma quante morti di Nahel non sono state filmate? Quante sono le morti sospette in carcere? Come quella di Alassane Sangaré, morto il 24 novembre 2022, cinque giorni dopo la sua incarcerazione.

    Quante vite sono state spezzate da un sistema giudiziario rapido per reati minori, o per nessun reato? Come le oltre 1.000 persone condannate al carcere dopo le rivolte seguite alla morte di Nahel.

    Dietro queste morti, quante umiliazioni e violenze quotidiane della polizia subiscono i giovani razzializzati dei quartieri popolari? E se Darmanin soffoca queste semplici parole, di certo non ha ancora il fiato corto. Si tratta di una vera e propria violenza di stato, resa possibile da un razzismo sistemico che deve essere combattuto con urgenza.

    Polizia razzista

    Non ci sono dubbi sulla portata del razzismo nelle forze di polizia di oggi: il 70% degli agenti vota per la Rassemblement National di Mariene Le Pen e la retorica razzista permea le interazioni con il pubblico e le dichiarazioni ufficiali dei sindacati filogovernativi. È il caso del comunicato stampa di Alliance e dell’Unsa Polizia che si congratula con i “colleghi che hanno aperto il fuoco contro un criminale di 17 anni” e descrive i giovani dei quartieri come “parassiti” e “orde selvagge”

    Sia chiaro: un’istituzione che ha il compito di mantenere l’ordine sociale e il cui peso aumenta in tempi di crisi politica, incoraggerà e proteggerà sempre il razzismo e la violenza che perpetua. Ma questa impunità della polizia è resa possibile dal razzismo che permea l’intera società francese e le sue istituzioni, portando al degrado materiale e simbolico di una parte della popolazione e legittimando l’omicidio di un 17enne.

    Disarmare la polizia

    È quindi urgente disarmare la polizia e affrontare di petto il razzismo sistemico. Da questo punto di vista, il fronte sociale e politico sorto in seguito all’omicidio di Nahel è salutare. Sabato 23 settembre saremo di nuovo in piazza contro “la repressione della protesta sociale democratica ed ecologica, per la fine del razzismo sistemico e della violenza della polizia, per la giustizia sociale climatica e femminista e per le libertà civili”.

    Chiederemo inoltre il disarmo della polizia quando entra in contatto con la popolazione, l’amnistia per coloro che sono stati arrestati durante le rivolte e affermeremo la nostra solidarietà con coloro che stanno subendo le misure razziste di questo governo, in primo luogo le donne musulmane che sono discriminate a causa del loro abbigliamento.

    Basta con il razzismo e l’islamofobia!

    Il 3 dicembre 1983, oltre 100.000 persone hanno manifestato a Parigi per accogliere la marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo. Le loro richieste comprendevano un permesso di soggiorno e di lavoro valido per dieci anni, una legge contro i crimini razzisti e il diritto di voto degli stranieri alle elezioni locali.

    A 40 anni di distanza, vogliamo ricollegarci a questa storia. Il 23 settembre deve anche vedere la nascita di un ampio movimento politico antirazzista che rifiuti sia il razzismo che l’islamofobia. Il divieto dell’abaya e del qamis fa parte di questa escalation, con la polizia che staziona all’ingresso delle scuole secondarie per discriminare gli alunni razzializzati e musulmani. Il 23 settembre saremo in piazza per mostrare la nostra solidarietà con le persone razzializzate e il nostro sostegno ai musulmani.

  • Francia, costruire l’alternativa, ma come?

    Francia, costruire l’alternativa, ma come?

    Il 2 luglio si è tenuto a Parigi un forum politico nazionale intitolato “Organizzarsi per costruire l’alternativa”, annunciato da un appello firmato da 400 attivisti della sinistra radicale. Avviato da membri di Ensemble!, dell’NPA e di Rejoignons-nous, oltre che da attivisti dei movimenti sociali, l’obiettivo del forum era quello di “costruire, a lungo termine, una nuova forza democratica e pluralista per la giustizia, l’uguaglianza e la democrazia”, e l’incontro del 2 luglio costituiva “una prima tappa che dovrebbe permetterci di discutere insieme i contorni di una nuova organizzazione da costruire”.
    La rivista Contretemps ha parlato con Florence Ciaravola, membro del coordinamento nazionale di Ensemble!, Fabien Marcot, membro del gruppo di coordinamento di Rejoignons-nous, e Pauline Salingue, portavoce dell’NPA, gli attivisti che hanno contribuito a introdurre il forum, oltre a Omar Slaouti, attivista dei quartieri popolari che però non ha potuto partecipare all’intervista collettiva.
    Le domande emerse dalla discussione collettiva della redazione di Contretemps riguardano gli obiettivi, le prospettive e il seguito del forum, la situazione sociale e politica in cui si è svolto – in particolare le recenti rivolte urbane – e le questioni, i dibattiti e le scelte strategiche sollevate dal processo politico avviato da questo incontro. La discussione è stata raccolta dal gruppo di lavoro in un testo unitario. Qui di seguito riproduciamo l’intervista.

    Voi tutti avete partecipato al forum nazionale “Organizzarsi per costruire l’alternativa” del 2 luglio 2023 a Parigi. Potete dirci perché avete partecipato, come singoli e come militanti della vostra organizzazione? E potreste spiegarci gli obiettivi di questo forum, in relazione alla vostra analisi del momento sociale e politico che stiamo vivendo?

    Fabien Marcot: Promettere di riformare le istituzioni, denunciare le “discriminazioni” nei controlli di polizia… nel 2017, Macron ha promesso di essere un presidente “liberale“, in senso economico ma anche democratico e culturale. Che truffa! Sei anni dopo, è il presidente che ha approvato leggi eccezionali contro i musulmani. È il presidente dello scioglimento dei Soulèvements de la Terre, della repressione e della criminalizzazione sempre più violenta delle lotte. È il presidente dell’uso di tutte le disposizioni più autoritarie della Quinta Repubblica e di una crescente privazione delle nostre libertà (legge sul separatismo, legge sulla sicurezza globale, ecc.). È il presidente dell’impoverimento di tutti, tranne dei più ricchi, i cui profitti sono in aumento. Alla fine, tutto ciò che resta del liberalismo è un implacabile liberismo economico. E Macron avrà contribuito più di ogni altro a preparare il terreno per il fascismo in ascesa, che è senza dubbio il pericolo più immediato che corriamo.

    Di fronte a questa politica, milioni di persone sono scese in piazza: gilet gialli, manifestazioni antirazziste, manifestazioni per il clima, contro la riforma delle pensioni, manifestazioni femministe… Soprattutto tra i giovani, il rifiuto di questo sistema capitalista, patriarcale, razzista, imperialista, ecocida, razzista e contro i disabili è estremamente forte. Ma nessuna organizzazione politica sembra riuscire a raccogliere queste idee e a rendere percepibile una vera alternativa, nonostante l’urgenza della situazione.

    Questa è l’analisi che facciamo a Rejoignons-nous da quando è stata fondata tre anni fa, e da allora non abbiamo mai smesso di discutere e organizzare incontri pubblici per porre qualche modesta pietra nella costruzione di questa alternativa. Ci ha fatto quindi molto piacere che l’idea di questo forum sia stata condivisa dall’NPA e da Ensemble! perché è un primo passo, per quanto modesto, per iniziare a lavorare insieme e – soprattutto – al di là delle nostre fila.

    L’obiettivo di questo forum era innanzitutto quello di dare un primo impulso, di verificare che, nonostante le differenze strategiche del passato, attivisti di diversa provenienza (del movimento sociale, dell’NPA, di Ensemble, di Rejoignons-nous, ma anche attivisti di altre organizzazioni, ex membri della France Insoumise, ecc.) volessero lavorare insieme per costruire una nuova forza politica e condividessero la stessa analisi della situazione. E da questo punto di vista, è un primo passo che getta buone basi, anche se ovviamente tutto resta da fare!

    Pauline Salingue: L’NPA e io abbiamo deciso di organizzare questo forum perché siamo convinti che migliaia di attivisti anticapitalisti siano privi di un partito politico deciso a rompere con il capitalismo e con le istituzioni che garantiscono il dominio della grande borghesia, comprendendo al contempo che è necessario riunire e unire gli sfruttati e gli oppressi per affrontare la controparte. Siamo uniti e rivoluzionari e vogliamo, in modo aperto e trasparente, discutere la costruzione di una nuova forza che risponda a questi obiettivi.

    In termini concreti e immediati, possiamo constatare che la situazione manca di uno strumento. Uno strumento militante, basato nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nei piccoli centri, che ci permetta di prendere iniziative per cambiare l’equilibrio sociale e politico del potere su base quotidiana. Questo mancava durante la mobilitazione contro la riforma delle pensioni. Manca oggi con la rivolta dei giovani nei quartieri popolari.

    Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo rompere con l’idea dominante a sinistra che la piazza sia affare dei sindacati e che la politica sia essenzialmente una questione di istituzioni. Questa divisione del lavoro ha profondamente frenato la mobilitazione storica a cui abbiamo appena assistito. Di fronte a una borghesia radicalizzata, con un’estrema destra alle porte del potere, gli scontri sociali si moltiplicheranno, anche se in forme diverse, come abbiamo visto negli ultimi anni (Gilets Jaunes, scioperi di massa, rivolte di quartiere…). Avremo bisogno di una forza politica che aiuti i lavoratori e i giovani a irrompere sulla scena politica organizzandosi da e per se stessi, in particolare sviluppando quadri di auto-organizzazione. Non una forza che “diriga” le masse dall’esterno, ma che agisca da facilitatore, da strumento collettivo, da accumulatore di esperienze e che sia in grado di prendere iniziative quando la situazione politica accelera e affronta possibili biforcazioni, in relazione a un progetto strategico rivoluzionario, per la presa del potere da parte degli sfruttati e degli oppressi.

    Florence Ciaravola: Siamo di fronte a una crisi globale e multidimensionale (sociale, ecologica, economica, democratica, geostrategica, ecc.). Il mondo capitalista e le sue modalità di dominio sono sempre più violente, le disuguaglianze aumentano e la minaccia neofascista diventa sempre più chiara. Le lotte e le mobilitazioni sono essenziali, ma abbiamo anche bisogno di uno strumento politico che rifletta le nostre aspirazioni e incarni un progetto alternativo anticapitalista che sia allo stesso tempo ecologico, autogestionario, sociale, femminista, antiglobalizzazione e antirazzista.

    L’Assemblea Generale di Ensemble! del novembre 2022 ha convalidato un orientamento politico che combina un fronte politico-sociale della sinistra e degli ecologisti da un lato (da qui la nostra partecipazione alla costruzione e all’ancoraggio popolare della NUPES), e dall’altro il superamento di Ensemble! in una nuova forza politica della sinistra alternativa. Il processo iniziato con Rejoignons-nous e con il NPA è legato all’obiettivo di questa nuova forza: per questo ne facciamo parte.

    Il gruppo di discussione nato dal forum ha pubblicato un primo testo intitolato “Contro i crimini della polizia e la violenza dello Stato, solidarietà con la rivolta dei giovani e dei quartieri popolari”. Qual è la vostra comprensione di queste rivolte tra i giovani e nei quartieri popolari? Quanto è stato importante questo tema durante il forum e cosa è stato detto al riguardo? E come vedete le reazioni e le posizioni del resto della sinistra sociale e politica negli ultimi giorni?

    Florence Ciaravola: La rivolta dei giovani e dei quartieri popolari è più che legittima e siamo pienamente d’accordo con il testo uscito dal forum del 2 luglio. Questa rivolta era molto presente nelle menti e nei discorsi dei partecipanti al forum. Per quanto riguarda le reazioni a sinistra, sono state varie e spesso diverse dalle nostre. Questo non fa che confermare la specificità del nostro progetto e la necessità di un tale progetto, che non ci impedisce di partecipare a iniziative unitarie, con altri e a partire dalle associazioni presenti nei quartieri popolari che lottano contro la discriminazione e la violenza della polizia.

    La morte di Nahel segue una lunga serie di omicidi di giovani razzializzati nei quartieri popolari e un aumento della violenza della polizia. A ciò si aggiungono l’abbandono dei quartieri popolari, l’arretramento dei diritti e delle libertà, il vero e proprio razzismo assunto da tutti i partiti di destra e talvolta anche oltre, e la contaminazione del campo politico e mediatico con idee fasciste e razziste. Fortunatamente, questo processo di fascistizzazione è ben lungi dall’essersi diffuso in tutta la società: i principi di solidarietà e di uguaglianza rimangono importanti nella popolazione e le disuguaglianze, le ingiustizie e le discriminazioni sono sempre meno tollerate, soprattutto tra i giovani. Questi sono punti di appoggio fondamentali per le campagne antifasciste e antirazziste.

    Fabien Marcot: La morte di Nahel, dopo quelle di Nordine e Meryl, Amine, Ali, Adama, Alhoussein, Maïcol, Wissam, Lamine, Olivio, Sabri, Yanis, Raihane, Zineb, Liu, Rémi, Steve, Cédric, Rayana, Malik Oussekine e tanti altri, ricorda tragicamente, se ce ne fosse bisogno, che la polizia uccide. E uccide soprattutto coloro che percepisce come arabi o neri. È molto positivo che la prima dichiarazione pubblica del forum sia stata questo testo, che ritengo molto corretto.

    In effetti, questo tema è stato onnipresente durante le discussioni. Il fatto che il forum si sia svolto nel bel mezzo di una rivolta nei quartieri dopo l’omicidio di Nahel ha ovviamente influito. Ma a Rejoignons-nous avevamo già potuto constatare da diversi anni, durante i dibattiti pubblici che avevamo organizzato in presenza di attivisti dell’NPA e di Ensemble, che c’era un accordo abbastanza ampio sul fatto che la sinistra radicale si era sbagliata per molto tempo sul ruolo degli attivisti di quartiere. Sulla questione del razzismo e dell’islamofobia. Sul fatto che le organizzazioni di sinistra, anche quelle radicali, spesso riproducono al loro interno gli stessi meccanismi di dominio del resto della società.

    Per quanto riguarda le rivolte nei quartieri, nel complesso la sinistra ha reagito un po’ meglio rispetto al 2005, anche se c’è ancora molta strada da fare. Mélenchon sta dicendo qualcosa di radicalmente diverso. I Verdi dell’EELV e il PS stanno dicendo meno sciocchezze ora che i loro rappresentanti più a destra hanno smorzato i toni, ma non siamo immuni da contraccolpi. Quanto a Fabien Roussel del PCF, probabilmente preferisce il sindacato di polizia fascista Alliance alle rivolte dei quartieri, anche se non è chiaro se questo sia il risultato di un’analisi politica o di una stucchevole competizione elettorale con LFI. In ogni caso, il risultato è lo stesso. Alla fine, è importante che la sinistra abbia una linea chiara di sostegno alle persone che vivono nei quartieri, al disarmo della polizia a contatto con la gente, al controllo democratico che sostituisca l’Ispettorato interno alla polizia… E in generale, al sostegno alle rivolte passate, presenti e future, perché non è ancora finita.

    Pauline Salingue: Il forum si è svolto nel cuore della rivolta e nel mezzo di un’ondata di repressione poliziesca e giudiziaria. Era quindi inevitabile che questo fosse il fulcro delle nostre discussioni. Anche se c’è ancora molta strada da fare, è una buona cosa, una prima prova, essere riusciti a prendere una posizione comune. Anche se il passaggio dal posizionamento all’azione è ancora da fare, questa è una delle maggiori difficoltà che la sinistra radicale deve affrontare oggi.

    In molte città e quartieri, i giovani sono sottoposti quotidianamente alla violenza della polizia e a una forma di razzismo di stato. La storia e il passato coloniale della Francia hanno molto a che fare con questo fenomeno. La polizia francese è un’istituzione che trasmette quotidianamente questo razzismo. Se a questo si aggiunge la svolta autoritaria del potere, in una situazione in cui le classi dominanti cercano di mantenere il loro dominio economico e politico a nostre spese, si ottiene un cocktail estremamente pericoloso. È tutto parte integrante della dinamica fascista che caratterizza l’attuale fase del capitalismo.

    A livello nazionale, nella maggior parte delle città, la sinistra sta lottando per prendere piede nel movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico. Ma ha già fatto meglio che nel 2005. Stanno emergendo quadri unitari, con posizioni che sarebbero state inconcepibili 20 anni fa. Anche se c’è ancora molto da fare, la più ampia comprensione delle forme che assume il razzismo istituzionale, e in particolare il ruolo dell’islamofobia, significa che si possono trovare modi per unire coloro che si oppongono a questo sistema. Ciò è rafforzato anche dalla massiccia repressione del movimento sociale dopo la legge sul lavoro del 2016, la morte di Rémi Fraisse, i feriti e i mutilati dei Gilets Jaunes, Sainte-Soline… I quartieri sono laboratori di violenza poliziesca e di repressione giudiziaria che si stanno estendendo a tutta la società.

    Infine, per dirla in tutta franchezza, c’è un passivo pregresso tra le forze politiche della sinistra radicale (non mi soffermerò sull’eredità ancora più grande con la sinistra di governo, che non è il mio argomento) e i movimenti e le associazioni dei quartieri popolari. Non siamo stati all’altezza di affrontare la natura sistemica e la portata degli attacchi legati al razzismo e alla violenza – in breve, l’intera dimensione coloniale – che gli abitanti dei quartieri popolari hanno dovuto affrontare. E non siamo stati all’altezza del coraggio e della forza degli attivisti di questi quartieri.

    Siamo stati spesso pusillanimi, persino paternalisti, nelle nostre relazioni con questi movimenti. Spesso li abbiamo lasciati in mezzo alla strada. C’è quindi molto da ascoltare e da imparare nelle organizzazioni politiche, con loro, in modo da poter lavorare e fare campagne insieme con fiducia e costruire esperienze condivise nelle campagne.

    Su cos’altro si sono concentrate le discussioni della giornata? Secondo voi, ci sono stati elementi salienti e politicamente importanti di accordo in questi dibattiti? E, al contrario, alcune questioni sono state identificate come causa di dissenso tra i partecipanti, o anche tra le componenti che hanno dato vita al forum?

    Florence Ciaravola: Lo svolgimento del forum prima dei forum locali e in un solo giorno ha limitato fortemente la portata e la profondità delle discussioni. Tuttavia, le discussioni sono state ricche. Le discussioni di gruppo sono state molto apprezzate, perché hanno permesso al maggior numero possibile di persone di esprimersi.

    Alcuni oratori hanno sottolineato la necessità di un dibattito più approfondito: la questione sociale è ancora prioritaria o si intreccia con il femminismo, l’ecologia, l’antirazzismo e la solidarietà internazionale? Siamo davvero all’altezza della sfida della rivoluzione femminista globale e dell’emergenza eco-climatica? La nuova forza politica deve necessariamente assumere la forma di un partito o sono possibili altre forme, come discusso all’interno di Ensemble! (movimento, partito-movimento, ecc.)? La prostituzione costituisce un lavoro sessuale o uno sfruttamento inaccettabile da un punto di vista femminista e alter-globalista? Non è certo che queste domande separino le varie componenti del forum; forse attraversano più ampiamente la sinistra alternativa…

    Pauline Salingue: L’importanza della solidarietà internazionalista, il progetto e le pratiche femministe, l’apporto teorico dell’ecosocialismo, la difesa delle libertà pubbliche, l’urgenza dell’antifascismo e dell’antirazzismo sono tutti elementi sui quali sembriamo concordare. Il rinnovamento delle pratiche politiche basate sui movimenti sociali, l’allargamento e il consolidamento della base sociale necessaria per costruire una nuova organizzazione politica sono stati al centro delle discussioni. Ma al di là di questo accordo teorico, dagli interventi è emerso chiaramente che le consuete carenze delle organizzazioni dominate dagli strati superiori della forza lavoro, bianchi e maschi, sono ben lungi dall’essere superate.

    Ci sono ancora grandi aree di lavoro da fare e dobbiamo verificarle insieme. Per l’NPA, siamo impegnati nella forma partito come strumento per partecipare alla lotta contro il capitalismo. Siamo anche convinti della centralità del ruolo della classe operaia, del proletariato, in tutta la sua diversità, nel processo rivoluzionario, che implica un certo tipo di strutturazione e di intervento. In particolare, non possiamo accontentarci di dibattiti storici e teorici, di grandi analisi della situazione. Ciò che determinerà la possibilità di costruire una nuova organizzazione è la nostra capacità di guardare all’esterno: l’esperienza politica e le organizzazioni preesistenti hanno il compito di aiutare le masse, gli sfruttati e gli oppressi, a organizzarsi. Dobbiamo rivolgerci ai giovani, alle loro preoccupazioni e alle loro lotte, alle imprese e ai quartieri popolari, e partecipare attivamente ai movimenti femministi, LGBTI, ambientalisti, antirazzisti e antifascisti.

    Infine, il rapporto con la NUPES e la preparazione delle prossime elezioni non sono ancora stati discussi. Le tattiche elettorali, secondarie rispetto ai grandi dibattiti strategici, sono comunque un tema caldo quando si tratta di costruire un’organizzazione politica.

    Fabien Marcot: È difficile riassumere i temi discussi al forum perché, in un solo giorno di lavoro, la ricchezza dei contributi è stata enorme. A volte ci siamo sentiti un po’ frustrati per non aver avuto il tempo di andare oltre, ma ci ha anche dato una certa motivazione per continuare il nostro lavoro. Dalla stragrande maggioranza dei contributi non ho avuto l’impressione che ci fossero punti di disaccordo su questioni di fondo.

    Il testo apparso pochi giorni dopo il forum, sulla criminalità della polizia e le rivolte di quartiere, ne è un esempio. La questione è un po’ diversa per i componenti del forum, per i quali certe questioni possono dipendere da equilibri interni da mantenere o da storie particolari, ma non ho avuto l’impressione che queste questioni siano emerse in questo modo durante il forum. Penso in particolare allo spazio dato ai dibattiti sulla NUPES, che probabilmente alcune persone di Ensemble! avrebbero voluto vedere affrontati più a lungo, o alla predominanza delle lotte anticapitaliste per altri attivisti. Ma alla fine siamo riusciti a superare queste differenze di approccio e il testo dell’appello lo riflette.

    Ci sono anche differenze nella pratica su cui dobbiamo lavorare. Al forum, un oratore ha esortato i “vecchi bianchi” a “imparare a tenere la bocca chiusa”. E alla fine questo è stato un momento importante, ampiamente applaudito. Credo che ci sia una crescente consapevolezza di questi temi, anche se ovviamente c’è ancora un po’ di strada da fare. La questione di una cultura politica condivisa è centrale: sufficientemente forte ideologicamente ma anche sufficientemente malleabile da permetterci di costruire con tutti coloro che provengono da contesti politici diversi. Se i membri più giovani si avvicinano a questo nuovo strumento, penso che le cose si possano muovere molto rapidamente, perché questi temi sono molto più evidenti per loro.

    La France insoumise è attualmente la principale forza politica di sinistra e come tale è essenzialmente uno dei tre poli del campo politico (gli altri due sono la destra e l’estrema destra). Tra il 2017 e il 2022 ha chiarito le sue posizioni su alcune questioni, in particolare sul razzismo, e si è spostata più a sinistra. Come vedete il rapporto tra la nuova organizzazione politica prevista e La France Insoumise? Perché siete favorevoli all’ipotesi di una nuova organizzazione separata da LFI piuttosto che a un partito che faccia parte di LFI? Da un punto di vista strategico, perché non pensate che l’urgenza della situazione attuale sia quella di rafforzare e strutturare la forza politica di sinistra più capace di prendere il potere?

    Pauline Salingue: L’NPA ha preso atto positivamente dell’evoluzione di LFI nell’ultima fase. Agiamo più spesso sul terreno delle lotte, vediamo meno bandiere tricolori nei cortei dell’LFI e questo è un bene, anche se continuano a cantare la Marsigliese nelle loro riunioni o nell’Assemblea… Di conseguenza, abbiamo potuto stringere legami più stretti e abbiamo partecipato a diverse elezioni locali, comunali e regionali su liste comuni. Abbiamo discusso fino all’ultimo per raggiungere un accordo per le elezioni legislative, ma LFI ha fatto altre scelte, in particolare integrando il Partito socialista nella NUPES, privilegiando il cartello parlamentare rispetto alla costruzione di un’alternativa che rompesse con il capitalismo.

    Siamo convinti che non si possa cambiare il mondo senza prendere il potere. Ma le recenti esperienze di Syriza e di Podemos hanno dimostrato che non basta vincere le elezioni per rompere con il capitalismo. Questo è ciò che ci insegna la storia delle rivoluzioni. La borghesia non si arrende e ha molte risorse per impedire che un governo progressista attacchi i suoi interessi. Il nostro primo disaccordo con LFI è strategico. La “rivoluzione attraverso le urne” non ci convince. Crediamo che ci sarà una resa dei conti con la borghesia e che la si stia preparando. Questo scontro assumerà sicuramente la forma di un confronto con le istituzioni con cui le masse si stanno già confrontando. Per usare la vecchia formula, non si può costruire un’altra società senza distruggere la vecchia macchina statale legata al capitalismo.

    Questo porta a un secondo disaccordo sul tipo di organizzazione che dobbiamo costruire. La struttura gassosa di LFI ha dimostrato la sua efficacia nei momenti di slancio elettorale, per le campagne elettorali. Ma questo è quanto. La natura delegata, intimamente legata a un funzionamento non democratico, ha fatto sì che nelle grandi prove di lotta sociale che abbiamo appena vissuto contro Macron, dal movimento dei Gilet gialli alle rivolte di quartiere, dagli scioperi contro le riforme pensionistiche alle lotte durante il lockdown, LFI abbia avuto un ruolo istituzionale, certo, ma marginale nella strutturazione dei movimenti. Ad esempio, sarebbe stato utile se le decine di migliaia di attivisti che hanno agito durante le elezioni avessero coordinato i loro sforzi per bloccare il paese dal 7 marzo in poi.

    A ciò si aggiunge il fatto che LFI non è un’organizzazione molto democratica. L’opposizione e il disaccordo non sono strutturati e la leadership non li tollera. Questo è un problema importante perché una leadership forte può ottenere legittimità solo attraverso la convinzione e il dibattito democratico, e perché la gestione del disaccordo e del pluralismo sono condizioni necessarie per l’unità e la costruzione di strumenti di massa. Ciò implica un controllo collettivo da parte degli attivisti, in particolare sui rappresentanti eletti. Con il pretesto dell’efficienza – di solito elettorale o istituzionale – le decisioni vengono prese da un piccolo gruppo. Alla fine, tutto questo ci impedisce di coinvolgere altre correnti e di lavorare per l’autoemancipazione.

    Fabien Marcot: A titolo personale, sono stato un attivista del Parti de Gauche per alcuni anni (prima della France insoumise) e ricordo come l’uso del termine “islamofobia” fosse semplicemente bandito, come la polizia “repubblicana” fosse sistematicamente difesa e le rivolte nei quartieri al massimo guardate da lontano. Poi, il 10 novembre 2019, LFI è stato l’unico partito della sinistra istituzionale a manifestare contro l’islamofobia. Dobbiamo quindi riconoscere che la loro leadership ha fatto molta strada. Questo è un fatto molto positivo ed è soprattutto il frutto di anni di lotta da parte delle persone direttamente interessate. Non possiamo che rallegrarcene. La France insoumise è il partito di sinistra che ha riunito le classi lavoratrici, i giovani e i quartieri su scala più ampia. Ma nei sette anni della sua esistenza, la totale mancanza di democrazia, il comportamento autoritario dei suoi leader e il suo elettoralismo hanno dimostrato che questo strumento è stato concepito come uno strumento elettorale, istituzionale e mediatico, piuttosto che come uno strumento utile per la vita quotidiana, concepito come un quadro di emancipazione e coinvolgimento popolare.

    Si tratta di questioni fondamentali per noi. La questione della democrazia è essenziale, perché è ciò che permette il coinvolgimento e l’emancipazione. Non capisco quindi cosa significhi costruire un’organizzazione all’interno della LFI, che non è né una coalizione di partiti né un’organizzazione democratica. Come possiamo sperare di fare progressi su questioni su cui non siamo d’accordo, se non attraverso lotte di potere informali o addirittura personali? Non c’è niente di sano in questo. D’altra parte, abbiamo visto al momento delle elezioni legislative che l’assenza di un polo radicale coerente ha fatto pendere la bilancia verso la destra di LFI piuttosto che verso la sua sinistra. Data l’attuale posta in gioco, non credo che possiamo accontentarci di questa situazione, e quindi dobbiamo riuscire a creare una forza a sinistra di LFI che possa lavorare su alleanze – nelle azioni o a livello elettorale – ogni volta che sia possibile. Ma che sappia anche essere critica quando necessario e avanzare altre proposte, perché sono necessarie.

    Florence Ciaravola: Se è vero che LFI ha chiarito le sue posizioni sul razzismo e si è spostata più a sinistra, non è così su tutti i temi. È vero sulle questioni sociali, ambientali e antirazziste, il che è importante. Non è così su altre questioni come il femminismo, come dimostra la vicenda Quatennens (Adrien Quatennens, deputato e ex coordinatore nazionale di LFI, condannato per violenza ai danni della moglie nel dicembre scorso, ndt), o – e questo è altrettanto grave – le questioni militari, regionali/regionaliste o di solidarietà internazionale, come dimostra la questione degli uiguri o la gestione della guerra in Ucraina: LFI è assente dalle mobilitazioni e dalle attività a sostegno della resistenza armata e non armata del popolo ucraino. LFI è davvero “la forza politica più a sinistra” della NUPES? Questo non è il caso in tutti i settori ed è quindi molto discutibile (e discusso all’interno di Ensemble!). In ogni caso, il nostro progetto è distinto da quello di LFI.

    E sono d’accordo con la precisazione: vincere le elezioni, che è l’obiettivo di LFI, non è sinonimo di prendere il potere, e per trasformare la società siamo a favore di una rivoluzione democratica e di una strategia di autogestione.

    Durante l’ultima campagna elettorale, LFI ha presentato un programma di rottura con la logica neoliberista, che ha attirato un elettorato ampio e variegato e ha alimentato la speranza che un altro mondo sia possibile e a portata di mano. Ci sono tutte le ragioni per credere che l’attuazione di un simile programma porterebbe a un radicale cambiamento sociale ed ecologico. Quali sarebbero le differenze ideologiche e politiche fondamentali tra la nuova organizzazione politica in costruzione e LFI?

    Florence Ciaravola: L’attuazione del programma di LFI e, più in generale, della NUPES sarebbe un grande passo avanti, in molti settori, ma non in tutti. Avremmo ragione di sostenerne l’attuazione, ma in totale indipendenza, mantenendo il corso di una trasformazione radicale che articola anticapitalismo e autogestione, femminismo ed ecologia, antirazzismo e solidarietà internazionale con i popoli in lotta, dalla Palestina all’Ucraina, e più in generale i diritti delle minoranze e dei popoli all’autodeterminazione. Converrete che questo non è né il progetto LFI né il progetto NUPES.

    Pauline Salingue: Ho già dato alcuni elementi di risposta. Certo, molte delle misure de L’Avenir en Commun (il programma elettorale presentato da Mélenchon e dalla LFI, ndt) erano simili a quelle del programma di Philippe Poutou, il candidato presidenziale del NPA. Tuttavia, il programma di LFI rimane timido riguardo alle necessarie incursioni nella proprietà privata e non fa alcun passo in avanti per quanto riguarda l’essenziale socializzazione dei settori chiave dell’economia (energia, trasporti, banche, prodotti farmaceutici). Come possiamo sperare di cambiare la vita, di organizzare la svolta ecologica, senza riprendere il controllo sulla produzione? Questo è un vero dibattito che vogliamo fare con il resto della sinistra politica.

    Un altro punto di scontro: le questioni internazionaliste. Per molti aspetti, ci siamo distaccati dalla concezione che la dirigenza della LFI aveva del posto della Francia nel mondo. Siamo fermamente impegnati nell’internazionalismo. Per noi questo significa opporsi con forza all’imperialismo francese, aprire le frontiere e rifiutare il campismo mostrando solidarietà con tutti i popoli oppressi, indipendentemente dall’imperialismo che li attacca.

    Tutte queste posizioni sono legate ad altri disaccordi, anche se c’è stata un’evoluzione positiva, in parte dovuta alla pressione dello stato autoritario, sul ruolo della polizia e della giustizia. LFI non mette in discussione l’apparato statale, propone di cambiarlo profondamente, ma senza capire che il confronto con esso è inevitabile.

    Fabien Marcot: A Rejoignons-nous abbiamo redatto un “Manifesto per una nuova organizzazione politica rivoluzionaria, democratica e pluralista” [qui in francese], il cui obiettivo è quello di essere messo nel piatto comune e discusso. Ma, ovviamente, non spetta a Rejoignons-nous, né a nessuno dei componenti del forum, anticipare l’aspetto di un futuro progetto di organizzazione politica, che resta da costruire “dal basso”. Detto questo, è evidente che ci sono diverse differenze di approccio tra LFI e gran parte del movimento sociale e delle aspirazioni popolari. LFI, nonostante quello che sembra dire, promette che “un altro mondo è possibile”, ma non ha intenzione di rompere con il sistema capitalista. Le proposte contenute nel suo programma sarebbero ovviamente grandi progressi sociali, ma sono più o meno ciò che François Mitterrand ha attuato nel 1981, ossia un rilancio keynesiano e la nazionalizzazione di alcuni settori dell’economia. Ma i lavoratori che si alzano ogni mattina per andare a lavorare continuerebbero a lavorare quasi con la stessa intensità, per una retribuzione non molto più alta, senza avere alcuna voce in capitolo sulle loro condizioni di lavoro, sugli scopi della loro attività, sugli stipendi dei loro dirigenti, ecc.

    Anche le posizioni internazionali della LFI presentano gravi problemi, già discussi da Florence e Pauline. Le loro proposte istituzionali si limitano essenzialmente a una costituente i cui contorni rimangono molto vaghi: il RIC (Référendum d’initiative Citoyenne), il referendum abrogativo… assomigliano più a una V Repubblica bis che a una rottura radicale con il sistema attuale.

    Questa questione della democrazia, dell’autogestione, dell’appropriazione da parte di tutti degli strumenti di produzione in tutti i settori economici, nei servizi pubblici, ma anche nei luoghi di potere, è in definitiva una differenza importante con il progetto della LFI, e questo purtroppo non sorprende molto viste le loro pratiche interne… Tra l’affare Quatennens e il posto dato agli attivisti locali nelle elezioni legislative, c’è un divario tra le aspirazioni popolari – che sono state espresse anche dagli attivisti di LFI – e la leadership. E purtroppo non c’è la possibilità interna di discutere democraticamente di questi temi. Questo è un problema quando si aspira a costruire “un altro mondo”, no?

    Nel vostro appello scrivete che la nuova “organizzazione politica potrà essere presente nell’arena elettorale e istituzionale”, ma che “il suo centro di gravità saranno le piazze, i luoghi di lavoro, i quartieri”. Ma potremmo pensare, anche sulla base delle elezioni presidenziali e legislative che si terranno in Francia nel 2027, che le elezioni siano un momento chiave della lotta politica e una leva per costruire una forza di massa. Tuttavia, leggiamo nel vostro appello una sorta di sfiducia: voi “potreste” partecipare alle elezioni, ma non sembra essenziale. Potreste spiegare meglio il vostro rapporto con le elezioni?

    Pauline Salingue: Nelle elezioni, la maggioranza delle persone vota spesso contro i propri interessi. Ci sono calcoli, considerazioni personali, voti “utili”… Senza contare i milioni di persone che non si recano alle urne. Le elezioni sono certamente un momento importante per le lotte politiche, soprattutto tra i diversi partiti. Ma sono relativamente poco un momento di politicizzazione. Siamo convinti che non è durante le elezioni che le cose si muovono, che le coscienze delle persone si evolvono.

    Questo è uno dei grandi contributi della rivoluzionaria Rosa Luxembourg. È stata la prima a teorizzare che è nell’azione, nella lotta extraparlamentare, quando milioni di persone iniziano ad agire, che la comprensione che dobbiamo rompere con questo sistema progredisce a tutta velocità. Per questo crediamo che il baricentro del partito che vogliamo costruire debba essere innanzitutto nelle aziende, nei quartieri e nei luoghi di studio, dove il nostro campo sociale vive e si organizza per lottare.

    Tuttavia, crediamo che sia importante occupare ogni terreno, compreso quello delle elezioni. Inoltre, riteniamo che possa essere molto utile avere rappresentanti anticapitalisti eletti nelle istituzioni. Da questo punto di vista, molti parlamentari della LFI hanno dimostrato che i rappresentanti eletti possono svolgere un ruolo molto efficace nell’agitare il cambiamento e quindi contribuire ad alzare il livello di confronto con chi è al potere.

    Fabien Marcot: È buffo, sto quasi leggendo questo passaggio al contrario! Molti attivisti della sinistra radicale provengono da un contesto in cui la partecipazione alle elezioni o alle istituzioni è… complicata e raramente presa sul serio. A questo proposito, vorrei rimandare a un testo di Laurent Levy che avete pubblicato su Contretemps [qui in francese] e che personalmente ho trovato molto utile. Mi sembra quindi che questo passaggio dell’appello al forum affermi che sì, vogliamo prendere sul serio l’“arena elettorale e istituzionale”, ma questo non significa che possa diventare l’alfa e l’omega della nostra strategia politica, come nel caso dei partiti della NUPES, le cui organizzazioni spesso non sono altro che “macchine elettorali”.

    Le elezioni sono, come tu dici, “un momento chiave della lotta politica” – in ogni caso un momento di intensa politicizzazione in cui si cristallizzano una serie di cose, nel bene e nel male. Quindi sì, dobbiamo essere presenti. A questo proposito, non possiamo permetterci di trascurare la necessità di una riflessione approfondita sul ruolo degli eletti, siano essi all’opposizione o in maggioranza. Ma una forza politica non può concentrarsi solo sulle prossime elezioni, determinando la sua strategia, le sue azioni e i suoi discorsi con l’unico obiettivo di vincerle, anche se questo conta. Le sue azioni quotidiane, ciò che organizza in termini di formazione, dibattiti, sviluppo collettivo, solidarietà concreta, autodifesa e autogestione, battaglie ideologiche e interventi sui media, conducendo lotte a livello locale, nazionale e internazionale, sono altrettanto importanti. La sua presenza a fianco o nelle lotte è centrale, da un lato per sostenerle, ma anche perché è da lì che nasce la consapevolezza della necessità di un’azione collettiva, ed è da lì che vogliamo partire.

    Florence Ciaravola: La vita politica francese è ancora sovradeterminata dal quadro istituzionale della Quinta Repubblica, dal presidenzialismo, dalla personalizzazione e dall’elettoralismo. Nessun altro paese dell’UE ha un esecutivo con un profilo così autoritario. Tutto ciò contribuisce alla crisi della rappresentanza politica, alla quale dobbiamo dare risposte alternative, tra cui altre pratiche politiche basate sui cittadini e sull’autogestione, il rifiuto dell’elettoralismo e la volontà di prendere sul serio i processi elettorali, senza farne il fulcro dell’attività di una nuova forza politica.

    Per quanto riguarda il rapporto con le istituzioni della Quinta Repubblica, LFI, PCF, NPA e altre organizzazioni politiche della sinistra radicale e/o anticapitalista concordano sulla necessità di trasformare le istituzioni statali. Nel vostro appello, sembrate dichiarare la vostra opposizione alle istituzioni e allo stato. Potete spiegarci meglio? Come si concretizzerebbe concretamente questa opposizione? A quale tipo di istituzioni e di stato aspirate? E con quali mezzi concreti?

    Pauline Salingue: La tradizione marxista non esprime l’aspirazione a costruire un nuovo stato, ma a una società senza classi e senza stato, una libera associazione di produttori. Questo è un elemento chiave di un progetto di emancipazione della società: lo stato, in quanto corpo separato dalla società, è completamente legato alle oppressioni estremamente varie che sono esistite nelle diverse società. La sua scomparsa è una condizione per la felicità umana.

    Questo non significa che non ci sarebbero decisioni collettive, né pianificazione, né scelte strategiche, in particolare nei campi dell’ecologia, della ricerca, delle campagne militanti contro l’oppressione e così via. Ma tutti parteciperebbero, grazie a una drastica riduzione dell’orario di lavoro, liberando tempo per l’organizzazione, la distribuzione dei compiti, la discussione su cosa vogliamo produrre e come, l’accesso a culture diverse, senza che i compiti siano assegnati a persone distaccate dalla società.

    Questa visione della società si concretizza nelle lotte attuali. Man mano che la crisi ecologica ed economica si aggrava e il fascismo diventa un possibile ricorso, le mobilitazioni si confrontano sempre più con uno stato sempre più oppressivo e violento e sviluppano pratiche che si oppongono alla logica dello stato: il dibattito contro la delega di potere, la connessione permanente tra riflessione e azione, e così via.

    In un processo rivoluzionario, una mobilitazione su larga scala che affronti questo stato, le strutture di auto-organizzazione, gli inizi dell’autogestione, saranno organizzati nei quartieri e nei luoghi di lavoro, e si coordineranno per costruire un’altra legittimità democratica, opposta a quella dello stato borghese.

    Fabien Marcot: Come è stato sottolineato, è chiaro a molti a sinistra, dall’NPA ai Verdi dell’EELV, alla LFI e al PCF, che le istituzioni della Quinta Repubblica limitano la democrazia, quando non la negano del tutto – in particolare dando poteri esorbitanti al presidente della Repubblica. Ma se andiamo oltre, gli approcci sono molto diversi. Anche all’interno della sinistra radicale e dei movimenti sociali, dove la questione della democrazia è sempre più presente. È chiaramente un tema che deve essere approfondito se vogliamo costruire una forza politica comune.

    Noi di Rejoignons-nous non abbiamo avanzato, in senso stretto, alcuna proposta di nuove istituzioni o di modalità concrete per realizzarle – non è questo il ruolo di questo collettivo. Ma è chiaro che la questione della democrazia – e non solo nelle istituzioni – la questione dell’autogestione, sono al centro del nostro approccio all’organizzazione della città, del lavoro, delle scelte ecologiche, della polizia, ecc.

    Florence Ciaravola: Dobbiamo pensare a una nuova architettura istituzionale, in una prospettiva di autogestione. Ciò significa combinare il mantenimento e l’estensione dei servizi pubblici senza rafforzare i poteri dello stato – siamo favorevoli alla sua scomparsa – con l’estensione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini attraverso una democrazia attiva radicata nelle regioni (assemblee dei cittadini). Attingiamo a pratiche alternative come il bilancio partecipativo di Porto Alegre e il municipalismo del Rojava.

    Quali prospettive ritenete che questo forum abbia aperto? Come vedete i prossimi passi? Nel vostro appello avete parlato di incontri locali, e il 2 luglio si è concluso con un appello per realizzare forum locali in tutte le città. Qual è l’obiettivo di questo appello ai forum locali? Quale ne sarà la perimetrazione? E pensate che queste discussioni e questi preparativi possano presto portare alla costruzione di una nuova forza politica?

    Fabien Marcot: Per noi è molto importante che le discussioni inizino a livello locale e che da lì scaturiscano i dibattiti nazionali, e non viceversa. È vero che avevamo già chiesto l’organizzazione di forum locali prima del forum nazionale, ma purtroppo siamo stati un po’ troppo ottimisti sui tempi, e le poche settimane che intercorrevano tra l’appello nazionale e la data del forum erano ovviamente troppo poche per organizzarsi localmente in buone condizioni. E poi, credo che in diversi luoghi ci fosse anche bisogno di questo impulso nazionale per partire. La buona notizia è che i compagni di diverse città hanno già iniziato a preparare i forum locali per l’autunno. In un luogo sono stati organizzati da attivisti dell’NPA, in un altro da Ensemble, in un altro ancora da Rejoignons-nous o da ex-LFI.

    Un nuovo testo che definisce i dettagli di questa seconda fase è attualmente in fase di elaborazione da parte del gruppo del forum, quindi non posso rivelarne il contenuto prima della sua pubblicazione, ma l’idea generale è quella di iniziare a porci una serie di domande sull’organizzazione che vogliamo costruire e su ciò che vogliamo fare insieme. L’obiettivo è poi quello di organizzare un altro forum nazionale verso novembre, in modo che questa volta le discussioni locali possano davvero servire da base per il dibattito.

    Nel suo manifesto, Rejoignons-nous propone di organizzare un grande processo costituente per gettare le basi di una futura organizzazione politica, e stiamo anche mettendo nel piatto comune l’idea che le elezioni europee sarebbero una buona occasione per elaborare collettivamente un progetto, spalancare le porte e le finestre alle candidature dei movimenti sociali e farci conoscere. Naturalmente non siamo ancora a questo punto, ma si tratta di questioni che sorgeranno inevitabilmente a livello locale e nazionale. Come potete vedere, c’è ancora molto lavoro da fare, ma è anche così eccitante e necessario!

    Florence Ciaravola: L’organizzazione di forum locali o dipartimentali è infatti essenziale per un processo dal basso verso l’alto, aperto a tutte le parti interessate e che vada oltre i soli attivisti dell’NPA, di Rejoignons-Nous o di Ensemble!

    Attraverso gli scambi e le pratiche comuni intorno alle campagne decise insieme, potremo verificare le convergenze e individuare le questioni che vengono dibattute e che devono essere oggetto di una riflessione approfondita. Questo ci permetterà di costruire questo processo su basi solide, senza fretta, e di tradurlo nella fondazione di una forza politica comune della sinistra alternativa. Inizialmente, perché non in forma federativa e cooperativa? Il successo del nostro processo non solo darebbe speranza e prospettiva, ma sarebbe anche uno degli elementi della lotta contro la minaccia neofascista.

    Pauline Salingue: Partiamo dalla fine: ci sarà una nuova forza politica a breve termine? Non lo so. In realtà, la domanda a cui vorremmo rispondere non è tanto quando, ma piuttosto come? Come possiamo contribuire a creare lo strumento di cui parlavamo all’inizio della nostra intervista? Un partito militante, unitario e rivoluzionario, che raccolga e accumuli esperienze, che si stabilisca nei luoghi di lavoro e nei quartieri e che cambi quotidianamente i rapporti di forza sociali e politici. Se è questo che vogliamo costruire, allora non può essere una semplice fusione delle tre forze (Rejoignons-nous, Ensemble!, NPA) che hanno lanciato questo appello.

    Innanzitutto perché mancano alcune correnti che si collocano nel campo dell’anticapitalismo non settario, che integrano i contributi dell’ecosocialismo e con le quali lavoriamo quotidianamente nelle mobilitazioni, nei sindacati, nei vari collettivi… Potremmo pensare a organizzazioni che oggi fanno parte di LFI, come la GES (Gauche écosocialiste), o a correnti che derivano dal comunismo libertario. Per non parlare delle migliaia di persone, non ancora organizzate politicamente, che cercano prospettive politiche basate sull’esperienza delle loro lotte.

    Ma al di là di questo, se siamo seri nei nostri obiettivi, sappiamo già che una nuova forza non può emergere da incontri di qualche centinaio di compagni a Parigi o tramite conferenze online. La costruzione di una tale forza politica non può essere solo un processo verticale. Soprattutto, deve essere un processo dal basso, con un continuo andirivieni tra gli incontri locali e la forma nazionale che potrebbe assumere. E dobbiamo costruire passo dopo passo non solo una base politica, ma soprattutto una pratica attivistica comune che ci permetta di proiettarci nell’azione. In questo gioco, la questione del ritmo bilancia l’urgenza di rispondere alla difficile situazione politica in cui ci troviamo e la necessità di non perdere nessuno lungo il cammino.

    Il forum a cui abbiamo partecipato è stato quindi solo il primo passo. In primo luogo, ci ha permesso di verificare che le nostre tre organizzazioni hanno una base sufficientemente comune per continuare questo processo. Ma soprattutto ha dimostrato che c’è un’eco reale nel nostro campo, tra coloro con cui combattiamo quotidianamente. Più di 400 persone hanno firmato l’appello nel giro di pochi giorni, la maggior parte sindacalisti, attivisti di associazioni e collettivi, coinvolti in un’ampia gamma di reti di lotta.

    Complessivamente, quasi 200 persone hanno partecipato al forum del 2 luglio a Parigi, il che è un buon inizio. Il forum è stato l’occasione per esprimere la nostra solidarietà con la rivolta dei giovani nei quartieri popolari attraverso un primo testo scritto nell’urgenza della situazione. Il comitato direttivo del forum sta elaborando un secondo testo che riassume le discussioni che si sono svolte, le domande che hanno preoccupato tutti i partecipanti e le prime risposte che abbiamo iniziato a formulare. Ora dobbiamo lanciare la seconda fase, per avviare il processo dei forum locali, il più vicino possibile a coloro che condividono la necessità di una rottura radicale con il sistema capitalista e la mancanza di una forza capace di riunirci su larga scala.

    Questi forum locali sono quindi di grande importanza, perché dovrebbero permetterci di avviare i primi raggruppamenti militanti e, attraverso le discussioni che li condurranno, di sviluppare una strategia politica che possa avviare una dinamica a livello locale e nazionale. A questo proposito, il testo di sintesi del forum del 2 luglio, il testo generale dell’appello e anche il testo di solidarietà con i quartieri popolari devono servire da guida e da proposta per il dibattito nei forum locali. Possono cogliere questa opportunità per iniziare a formulare una politica unitaria e rivoluzionaria di resistenza e offensiva, attraverso la costruzione di un progetto politico e di campagne d’azione. È un compito enorme, ma non partiamo da zero: abbiamo la ricchezza e la diversità dell’esperienza militante a cui attingere.

    *

    Illustrazione: “Manial”, Hamed Abdalla, 1933. Per gentile concessione di Samir Abdalla.

    Note
    [1] Omar Slaouti, un attivista dei quartieri popolari che ha contribuito a introdurre questo forum e ha accettato la nostra offerta di un controinterrogatorio, alla fine non ha potuto partecipare.

    [2] Vedi online: https://www.forumalternative.org/contre-les-crimes-policiers-les-violences-detat-solidarite-avec-la-revolte-de-la-jeunesse-et-des-quartiers-populaires/

    [3] Vedi online: www.egalité.org.

    [4] Laurent Lévy, “L’électoralisme et ses images spéculaires”, 29 luglio 2020, https://www.contretemps.eu/critique-electoralisme-laurent-levy/.

  • Torino, 21 agosto 1917, per il pane e contro la guerra

    Torino, 21 agosto 1917, per il pane e contro la guerra

    Oltre cento anni fa, il 21 agosto del 1917, donne e uomini proletari/e di Torino insorsero spontaneamente contro la mancanza di pane ma immediatamente la protesta si trasformò in sciopero generale contro la guerra. Per il 23 agosto venne indetto uno sciopero generale che paralizzerà la città. La classe operaia, guidata da cortei di donne, saccheggerà negozi, caserme e la Chiesa della Pace, asportando dalla cantina del parroco, il vino e le provviste contenute che furono poi distribuite alla folla. Il Prefetto richiese al governo di Roma, senza esito, l’applicazione del codice militare di guerra, dichiarando Torino e la sua provincia zona di guerra. Il 24 agosto fu la giornata più sanguinosa, i dimostranti cercarono di rompere l’assedio posto dalle truppe governative in Barriera di Milano e in Borgo San Paolo. Solo il 28 agosto 1917 quando le autorità annunciarono che “l’ordine regna a Torino” tutto ritornò nella normalità, almeno secondo la classe politica ma non secondo gli operai che dopo le giornate di lotta, subirono una vera scia repressiva che portò all’arresto di molti operai e all’invio al fronte di quelli esonerati perché addetti alla produzione bellica.

    La prima guerra mondiale aveva fatto registrare un drastico degrado economico. Se nel 1914, una famiglia composta da cinque persone spendeva per nutrirsi 20 lire e 80 centesimi circa, nel 1917 quella stessa famiglia per acquistare gli stessi prodotti dovrà spendere 39 lire e 50 centesimi. Già dal 1916, i torinesi avevano iniziato singolari proteste operaie contro la classe politica, situazione che precipitò nel 1917, quando si registrò un aumento notevole dei prezzi dei generi alimentari: il 2 agosto il costo del pane aumentò di 10 centesimi al chilo. Alla fine di agosto, quando il pane mancava in quasi tutta la città, scattò una rivolta spontanea nei quartieri operai, che univa motivazioni economiche a rivendicazioni politiche.

    Scriverà Gramsci nel 1920:

    “Invano avevamo sperato nell’appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi… Le donne operaie e gli operai che insorsero nell’agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell’esercito della borghesia italiana e con una vittoria di classe del proletariato. Con ciò essi proclamavano che la guerra non crea un interesse comune tra la classe borghese dominante e i proletari sfruttati, con ciò essi superavano in modo definitivo le posizioni pseudoclassiste e pseudointransigenti del Partito Socialista”.

    Ecco la testimonianza di Teresa Noce, allora diciassettenne, da “Rivoluzionaria professionale. La storia del PCI nella vita appassionata di una donna”.

    Teresa Noce (Torino, 29 luglio 1900 – Bologna, 22 gennaio 1980), quattro anni dopo sarà tra le fondatrici del Partito comunista d’Italia. Nel 1926 sposò Luigi Longo con cui si recò in Spagna tra i volontari antifranchisti accorsi in difesa della Repubblica. Nome di battaglia Estella. Prese parte alla Resistenza in Francia, arrestata e deportata in vari campi di concentramento fino alla liberazione da parte dell’esercito sovietico. Alla fine della guerra, fu tra le 21 donne elette all’Assemblea costituente italiana, lavorò nel sindacato. Fino al ’53 quando Longo ottenne l’annullamento del matrimonio a San Marino presentando un documento che conteneva una firma contraffatta di Teresa Noce. Nelle sue memorie riporta di avere appreso questo fatto dalle pagine del Corriere della Sera e che per lei rappresentò un evento «grave e doloroso più del carcere, più della deportazione». La sua decisione di rivolgersi alla Commissione Centrale di Controllo del PCI con l’intento di denunciare il comportamento di Longo fu considerata inopportuna da una parte del gruppo dirigente del Partito e questo determinò la sua esclusione dalla Direzione.

    di Teresa Noce

    Noi, a Torino, la guerra non la volevamo più. Volevamo che tornassero i nostri soldati dal fronte e volevamo mangiare. In quel mese d’agosto, se in fabbrica si crepava di caldo, in casa si moriva di fame. Usciti dal lavoro si faceva la coda dal fornaio, ma il più delle volte il pane era finito. Così, sempre più sovente, si rientrava al lavoro gridando: «Sacco vuoto non sta in piedi e tanto meno può lavorare».

    Cominciarono le donne che soffrivano più di qualsiasi altro per la fame e per la guerra. Quasi tutte adesso lavoravano in fabbrica: bisognava dare da mangiare ai bambini mentre i mariti e i figli grandi erano al fronte. Ma cosa dare da mangiare ai bambini se nelle botteghe non c’era pane?

    Il 21 agosto 1917, un martedì, il pane mancò completamente. I lavoratori usciti dalle fabbriche incontrarono davanti alle panetterie sbarrate le donne che, inutilmente, facevano la coda da ore. Si cominciò a gridare: «Pane! Sciopero! Abbasso la guerra!».
    I fornai erano piantonati ma, in un attimo, i carabinieri furono travolti e contro le donne non osarono sparare. Porte e saracinesche furono abbattute dalle donne che presero d’assalto tutti i viveri a portata di mano. Nessuno quel giorno rientrò in fabbrica. Alcune direzioni di stabilimenti, alla Diatto e alla Proiettili (dove lavoravano solo donne) mandarono a prelevare camion di pane ai panifici militari. Ma quando i camion arrivarono, le donne li presero d’assalto, si distribuirono il pane e, invece di rientrare al lavoro, si diressero in città urlando: «Abbasso la guerra!».

    Al pomeriggio tutte le fabbriche erano ferme. Gli operai sapevano cosa rischiavano: poiché erano tutti militarizzati, potevano essere immediatamente spediti al fronte, se non deferiti davanti al Tribunale Militare. Ma le donne, che sapevano tutto questo, si misero davanti a loro. Cortei tumultuanti arrivarono in centro. Le donne gridavano: «Al municipio! Dal prefetto! Nominiamo una commissione!».

    Macché commissione, abbasso la guerra! Così la mossa per il pane cominciò a trasformarsi in rivolta contro la guerra. Sorsero le prime barricate. Furono rovesciati i tranvai e gli autocarri scaricati del pane e della farina. Si udirono i primi colpi di arma da fuoco. Nessuno dormì quella notte. Al mattino del mercoledì la città era paralizzata dallo sciopero generale. Tutto rimase fermo, dalle fabbriche ai laboratori e dai negozi ai trasporti.

    Le barriere si moltiplicarono. Alcune improvvisate, tali da non poter offrire resistenza alle cariche della cavalleria. Ma altre fatte a regola d’arte, soprattutto nei rioni periferici. La barricata costruita all’angolo di corso Vercelli con via Carmagnola, dov’era la Fiat Brevetti, tenne in iscacco forze di polizia e truppa per oltre venticinque ore. Era stata costruita con decine di grossi tronchi d’albero, tagliati sul corso vicino all’altra Fiat (la San Giorgio) e con alcuni pesanti carri ferroviari provenienti dal deposito Dora.

    Un’altra solidissima barricata venne eretta sul corso Principe Oddone, all’altezza di corso Regina Margherita. Costruita anche questa con vetture tranviarie rovesciate, era circondata da filo spinato nel quale gli operai facevano passare la corrente elettrica. Ma, tagliando la città in due, queste barricate finirono per impedire alle forze operaie della Barriera di Milano di congiungersi con quelle di Borgo San Paolo, l’altro centro della rivolta.

    Il fatto che lo sciopero totale continuasse e che un po’ dovunque sorgessero le barricate nonostante le cariche della cavalleria, spaventò le autorità. La reazione si scatenò: allo scopo di disperdere la folla, la forza pubblica cominciò ad arrestare per le strade uomini e donne. Gli arrestati vennero picchiati ferocemente e trascinati sui camion. Poi l’autorità decise di intervenire con la truppa: fece occupare i punti strategici più importanti e arrivarono i carri armati.

    Ma, appena apparvero i soldati, questi furono accolti dalla popolazione come fratelli. Le donne si infiltrarono tra loro offrendo cibo e vino. Era proprio per loro – dicevano le donne – proprio perché i soldati non andassero a morire in guerra, che Torino era insorta. E ogni famiglia operaia abitante nelle strade presidiate dalla truppa si occupò dei “suoi” soldati. Con la pastasciutta li esortò a fraternizzare.

    Questo atteggiamento non tardò a portare certi frutti. Un reparto di alpini ricevette l’ordine di sparare, ma i soldati, dopo aver lungamente esitato, di fronte alle donne, posarono i fucili a terra e voltarono le spalle alla folla.

    Ciò accadde sul corso di Ponte Mosca, alla Barriera di Milano e, subito dopo, il Commissariato di polizia di quello stesso quartiere fu preso d’assalto ed espugnato dalla folla. Poi questa si diresse di corsa, attraverso Porta Palazzo, verso il centro della città per raggiungere Piazza Castello dove c’era la Prefettura, e piazza San Carlo dov’era la Questura, e a via Cernaia dov’erano le caserme principali.

    Ma non fu possibile. Il contrattacco fu tremendo: contro i pochi fucili dei rivoltosi entrarono in azione le mitragliatrici e i carri armati che cominciarono a vomitare fuoco tanto su ci fuggiva quanto su chi resisteva, e contro le finestre delle case, contro i negozi, contro tutto. Caddero uomini, donne e perfino bambini.

    Tuttavia la lotta non cessò. Continuò lo sciopero e continuavano a sorgere barricate. Si cantava ovunque:

    «Prendi il fucile e gettalo per terra.
    Vogliamo la pace, vogliamo la pace,
    mai più vogliam la guerra».

    Giorno e notte rintronavano i colpi di fucile e le raffiche di mitragliatrice. Poi, a poco a poco, la rivolta si esaurì. Senza armi e senza direzione gli insorti non potevano vincere. Ancora una volta Torino era stata lasciata sola: nessun’altra città, nessun’altra fabbrica si unì agli operai torinesi.

    Il sabato di quella che in seguito sarebbe stata chiamata la “settimana rossa”, il Consiglio comunale di riunì con i dirigenti della Camera del lavoro. Gli operai furono invitati a rientrare in fabbrica per il lunedì seguente. Le autorità fecero subito affiggere dappertutto tale invito e, agli operai, non rimase che tornare al lavoro: oramai non potevano fare altro.

    Ma non rientrarono tutti. Non rientrarono le centinaia di arrestati e le migliaia di “militarizzati” subito spediti al fronte. Non rientrarono in fabbrica i caduti di quella settimana arrossata dal sangue di tanti lavoratori. Quanti furono i morti? Ufficiosamente si disse una cinquantina, ma certo furono molti di più, anche se non si seppe mai quanti. E non solo uomini, ma anche donne e bambini.

    Qualche settimana dopo, verso la metà di settembre, mio fratello venne a casa in licenza. A Pisa aveva saputo ben poco degli avvenimenti di Torino. I giornali erano stati censuratissimi. Anch’io, nelle mie lettere, ero stata molto prudente, tanto che lui non aveva capito ciò che era veramente successo nella nostra città e ardeva di saperne di più. Per lunghe ore parlammo degli avvenimenti, della rivolta, degli operai che si erano battuti, del coraggio delle donne che si erano lanciate contro i carri armati e si erano sdraiate a terra per impedire che questi si lanciassero contro i rivoltosi.

    Mi sentivo ormai adulta, certo più matura dei miei diciassette anni. Anche mio fratello se ne era accorto e non mi considerava più come la sorellina minore. Discutendo, convenimmo insieme che quella di Torino non era stata solo un’esplosione di malcontento, ma una rivolta del proletariato che non voleva la guerra, alla quale si era opposto fin dal 1915. L’aveva sopportata per forza, ma non l’aveva mai accettata. Altro che il “non aderire e non sabotare” dei capi socialisti! Il malcontento esploso per la mancanza di pane si era subito trasformato in rivolta contro la guerra.

    Se due anni prima solo la parte più avanzata del proletariato era scesa nelle strade per impedire l’entrata in guerra dell’Italia, questa volta a battersi per imporre la pace era stata la maggioranza della popolazione torinese. Essa era dunque maturata come ero maturata io.

    Mio fratello, riflettendo ad alta voce, diceva: «Il fatto più importante è che alla lotta non hanno preso parte solo alcune centinaia di operai, ma decine di migliaia di persone di tutti i ceti, di tutte le categorie: lo provano le liste dei morti, dei feriti, degli arrestati, dove è rappresentato ogni strato della popolazione lavoratrice. E senza guida, senza direzione. Pensa che cosa avrebbero saputo fare se fossero stati ben diretti!».

    Prima che mio fratello ripartisse per andare a Foggia, a conseguire il brevetto di secondo grado, parlammo anche della situazione internazionale. Entrambi ne sapevamo ben poco, perché i giornali erano scarsi di notizie. Ma qualche cosa trapelava nonostante la censura. La rivoluzione contro lo zar, scoppiata in Russia alcuni mesi prima, non era andata molto avanti, perché i russi continuavano la guerra. Ma si parlava sempre di più di Lenin e dei bolscevichi che lottavano anche laggiù per imporre la pace.

    Neanche mio fratello sapeva molto bene chi fosse Lenin. Gli raccontai allora dei due menscevichi arrivati a Torino e che le autorità avevano lasciato parlare in un comizio. Avevano parlato della guerra, non contro la guerra. Gli operai li avevano accolti al grido di “Viva Lenin! Viva la Rivoluzione russa!”. E i due se ne erano andati borbottando.

  • Lumumba, Patrice Emery, l’eroe congolese delle indipendenze africane

    Lumumba, Patrice Emery, l’eroe congolese delle indipendenze africane

    di Omer Freixa, storico, da brecha.com.uy

    Patrice Lumumba, giornalista e impiegato postale del Congo belga divenuto primo ministro, fa parte del pantheon di figure che hanno segnato il processo di emancipazione africana, soprattutto negli anni Sessanta, decennio prolifico di indipendenze nel continente. A lui si affiancano altri eroi nazionali come Amilcar Cabral della Guinea Bissau e di Capo Verde, Jomo Kenyatta del Kenya, Julius Nyerere della Tanzania e il celeberrimo Nelson Mandela.

    Come molte delle figure dell’epoca, Lumumba fu neutralizzato da una miriade di interessi che cercavano di perpetuare un modello di sfruttamento del continente, prolungando le privazioni del colonialismo, ma in una veste diversa: un complotto neocoloniale sabotò il suo breve governo e portò la sua vita a una fine lenta e straziante il 17 gennaio 1961. La colpa ricade su diversi attori e, a tutt’oggi, non c’è stata giustizia.

    Le responsabilità

    Lumumba iniziò a criticare l’azione del colonialismo belga in un momento in cui il progetto europeo cominciava a essere messo in discussione in Africa in generale, e nel 1958 fondò il suo partito politico. il Movimento Nazionale Congolese (MNC). Solo nel 1960, 17 nazioni africane divennero indipendenti, tra cui la Repubblica del Congo, o Congo-Leopoldville, per differenziarla dall’ex colonia francese Congo (Brazzaville).

    L’attività militante di Lumumba lo rese estremamente vigile sull’azione dell’autorità coloniale. Fondò associazioni che guidò e che lo resero sospetto. Ma la paranoia dei suoi nemici non tardò a crescere, mentre il Congo belga cominciava a diventare un terreno di gioco della Guerra Fredda. Con l’avanzare del processo di liberazione della colonia belga, il congolese fu sospettato di simpatie comuniste e di alleanza con l’Unione Sovietica, accuse che egli respinse sempre.

    Nato nel 1925, Lumumba guidò la formazione del primo governo congolese e, nel suo famoso discorso di indipendenza del 30 giugno 1960, davanti a un pubblico che comprendeva lo stesso monarca belga Baldovino, denunciò gli abusi coloniali, seminando indignazione e odio nelle file nemiche. Il primo ministro aveva anche degli oppositori interni. Infatti, la prima formazione del gabinetto includeva il moderato Joseph Kasavubu come presidente, con il quale si crearono rapidamente dei cortocircuiti. Kasavubu era più sottomesso allo straniero e difendeva anche gli interessi etnici della sua base politica. Lumumba, che sosteneva l’unità territoriale senza divisioni etniche, diffidava del Belgio, che riteneva avrebbe sabotato i suoi piani di sovranità. E così è stato.

    Il grande attore esterno, oltre all’ex metropoli, erano gli Stati Uniti. Washington, alleata di Bruxelles, cominciò a guardare con allarme alle mosse di Lumumba, a causa dei precedenti sospetti di alleanza con il blocco comunista. Questo timore si concretizzò quando, a pochi giorni dall’inizio del governo sovrano, l’amministrazione dovette affrontare la secessione di una ricca regione mineraria, il Katanga, il 10 luglio. Il primo ministro e il presidente dovettero chiedere aiuto alle Nazioni Unite, ma anche, al di fuori dell’intervento internazionale ufficiale, Lumumba chiese l’assistenza sovietica. Il processo andò male, ostacolato da eventi interni e, in parte, dalla compiacenza esterna: la secessione nel Katanga era sostenuta dal Belgio, che inviò una cooperazione militare.

    La lotta del primo ministro era contro l’imperialismo e contro il suo intervento. Lumumba fu accusato di essere un agente sovietico. Nel contesto della rivalità della Guerra Fredda, l’obiettivo era quello di assicurarsi un territorio strategico e ricco di risorse senza alcuna minaccia rossa, per cui qualsiasi infiltrazione comunista creava allarme. Pertanto, il piano migliore per i nemici del leader nazionalista era quello di eliminarlo. L’operazione ebbe un fattore scatenante: il licenziamento e il successivo arresto di Lumumba a metà settembre 1960. Kasavubu diede l’ordine di arresto a un ufficiale militare che fino a quel momento era stato il miglior collaboratore del leader spodestato, Joseph-Désiré Mobutu, allora principale capo militare. Dopodiché, non restava che sbarazzarsi dell’ex primo ministro.

    Lumumba fu messo agli arresti domiciliari all’inizio di ottobre, ma riuscì a fuggire. Il timore dei suoi oppositori era che potesse riunire le forze per rovesciare il governo neocolonialista, servo del Belgio e degli Stati Uniti. Durante la fuga per incontrare i suoi sostenitori, fu arrestato. Lì il suo destino fu segnato. Fu dapprima riportato nel luogo originario dell’arresto, Leopoldville, e poi trasferito nel Katanga, un luogo dove, anche in caso di sedizione, il prigioniero era particolarmente odiato. Ricevuto nella provincia, che è molto frammentata, è stato torturato e picchiato da ufficiali congolesi e belgi.

    Non fu il solo a subire questa prova: anche due collaboratori ed ex ministri del suo governo subirono il tragico destino di Lumumba. I tre prigionieri furono fucilati il 17 gennaio 1961. La loro esecuzione fu cinicamente negata. Giorni dopo si disse che erano fuggiti e che, catturati, erano stati linciati da una folla in un villaggio.

    La leggenda

    Lumumba fu ucciso perché iniziava a trascendere la scena locale e si temeva un contraccolpo all’interno dei suoi ranghi. In effetti, la notizia della sua morte scatenò proteste in varie città del mondo e l’eredità di Lumumba continuò a essere attiva attraverso una serie di sacche armate che lottavano per rovesciare l’ordine costituito protetto da poteri esterni.

    Il leader congolese divenne una figura popolare tra le masse e, nonostante una breve parentesi nel governo congolese, raccolse simpatia e affetto. Paradossalmente, Lumumba fu dichiarato eroe nazionale da chi lo aveva tradito, proprio da Mobutu nel 1966, che prese il potere nel novembre 1965 e governò fino al 1997 in modo corrotto e dispotico, come baluardo di stabilità e contro la minaccia a est della cortina di ferro. L’ex fidato collaboratore di Lumumba era stato uno dei promotori della sua destituzione.

    Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’allora presidente Dwight Eisenhower diede l’ordine di ucciderlo nell’agosto 1960. La CIA collaborò sia al suo rovesciamento in settembre sia alla pianificazione del suo assassinio in Katanga mesi dopo. La ferocia contro questo eroe fu tale che il suo cadavere, come quello dei suoi due compagni, fu immerso nell’acido solforico per non lasciare alcuna traccia del crimine. L’anno scorso è stato recuperato solo un dente.

    Lumumba ci ricorda che un mondo più giusto è possibile. Il martire dell’indipendenza di un paese definito “scandalo geologico” non cercava solo l’emancipazione locale, ma il suo progetto comprendeva l’indipendenza totale dell’Africa, come disse nel suo famoso discorso nel giorno dell’indipendenza. Era un panafricanista che lottava contro la penetrazione imperialista in tutte le sue forme e contro il suo proseguimento nonostante la liberazione, solo politica, del neocolonialismo. Quando l’imperialismo brama ciò che cerca, non perdona.

    Nel 2002 il Belgio ha ammesso la responsabilità del suo assassinio e non molto altro. Lumumba ha risvegliato un’ideologia di liberazione che è ancora viva oggi, quella di porre fine alle reminiscenze del colonialismo, quella di far sì che i popoli africani possano assumersi la responsabilità del proprio destino senza dover rendere conto a nessuno. È vero il detto dell’intellettuale terzomondista nativo della Martinica Frantz Fanon secondo cui l’Africa ha la forma di un revolver e il Congo è il suo grilletto. La violenza si è scatenata contro un uomo che sognava una patria dignitosa e un continente sovrano unito contro lo sfruttamento, quello sfruttamento che continua ancora oggi.

  • Il lavoro delle/gli anticapitaliste/i nel sindacato oggi

    Il lavoro delle/gli anticapitaliste/i nel sindacato oggi

    Con questo testo non pretendiamo di indicare soluzioni per i numerosi e complessi problemi che vivono coloro che cercano di rispondere adeguatamente al bisogno di una reale tutela sindacale, così diffuso nelle classi lavoratrici e popolari del nostro paese.
    Riteniamo però di indicare con franchezza le domande a cui si dovrebbe dare risposta.

    La “questione sindacale” riveste oggi, nella fase storica che stiamo vivendo, un’importanza e una specificità molto diversa da quelle che ebbe nel passato.

    La caduta delle certezze diffuse nella seconda metà del secolo scorso, la perdita verticale di credibilità del riformismo e del gradualismo, il venire meno dell’autorevolezza di massa dell’obiettivo socialista (soprattutto dopo il crollo dell’URSS e dei “paesi socialisti”), tutti fenomeni più ampiamente analizzati nel testo “Ricominciare su nuove basi”, fanno attribuire una rilevanza del tutto particolare e “nuova” alla questione del “lavoro sociale”. 

    Una sinistra politica che non si colleghi strettamente ad un lavoro paziente e quotidiano di radicamento sociale è una sinistra che parla solo ai settori già politicizzati, quando invece il compito centrale è quello di parlare alle masse più larghe, a tutte e tutti coloro che nei posti di lavoro sono costretti in situazioni di sfruttamento, precarietà, arbitrio padronale, qualunque sia il loro orientamento politico, a coloro che non votano, a chi vota, seppure disilluso, per le formazioni di centrosinistra o di sinistra, e perfino a chi, nei quartieri popolari, vota per disperazione per la destra.

    Questo non significa accantonare la battaglia propagandistica e quella teorica (anzi, semmai, in questi campi occorrerebbe fare di più), ma capire che limitarsi solo a quelle due significa galleggiare in una pozza in via di prosciugamento.

    Naturalmente, il “lavoro sociale” non si limita solo a quello verso i luoghi di lavoro e verso le lavoratrici e i lavoratori. “Lavoro sociale” è anche quello ambientalista, quello femminista, quello antirazzista, quello per la casa, ecc.

    Ma quello sindacale, tra i vari tipi di lavoro sociale, è quello che assume i maggiori caratteri di stabilità e di strutturazione, perché:

    • si innesta in una tradizione ultrasecolare,
    • si confronta in una battaglia di unità e di scontro con altre correnti sindacali, strutturate e con un loro “progetto”,
    • e, soprattutto, si rivolge ad interlocutrici e interlocutori (lavoratrici e lavoratori) che, nonostante la grande precarietà del mondo del lavoro e la sua crescente frammentarietà, hanno un legame stabile e codificato tra loro (si ritrovano quotidianamente negli stessi ambienti, sono messi di fronte agli stessi problemi, sono vittime degli stessi meccanismi e possono tutelarsi con gli stessi strumenti), una stabilità che non ha paragoni con altri movimenti.

    Non a caso numerosi quadri e interi raggruppamenti militanti radicalizzatisi nei decenni scorsi hanno scelto negli anni di dedicare il loro impegno al “lavoro sindacale”, alcuni dando vita a vere e proprie organizzazioni, altri aderendo individualmente o collettivamente ad organizzazioni già esistenti (compresi ovviamente i sindacati confederali e in primo luogo la CGIL).

    Un breve excursus storico sulla sinistra e i sindacati

    E’ per questo che alcuni dirigenti di Democrazia Proletaria nel 1978, quando sono apparsi i primi segni del “riflusso” e nei sindacati confederali si è formalizzata la “svolta dell’EUR”, hanno scelto di costruire Democrazia consiliare, cioè una “componente” che cercava di “movimentare” il panorama politico della CGIL fossilizzato attorno alle tre “componenti” tradizionali.

    Solo pochi mesi prima, alla fine del 1977, sulla base di uno scontro all’interno del “consiglio dei delegati” della sede romana dell’INPS, una parte allora maggioritaria di quell’organismo decise di rompere con la FLEP Cgil, dando vita ad un Comitato di lotta che fu l’embrione delle RdB e poi dell’USB.

    Così come, molto più recentemente, alcuni militanti reduci dall’impasse del progetto di costruzione dell’Organizzazione Comunista Internazionalista, hanno deciso di concentrare le loro iniziative nell’organizzazione sindacale dei lavoratori dei centri di logistica, dando vita ai primi nuclei del SiCobas.

    Ovviamente, questo spostamento dell’impegno militante dalla sfera prettamente politica a quella sindacale ha coinvolto nei vari decenni migliaia di militanti, con la nascita dei Cobas Scuola (1986) e successivamente della Confederazione Cobas, poi del Sincobas, del Sult, della CUB, ecc.

    La crescita del “sindacalismo di base” si è basata sulla diffusa percezione della inanità dell’azione delle confederazioni, in particolare dopo il varo della fallimentare politica della “concertazione”

    Un’analoga crescita di “militanza di sinistra” si è verificata anche nella Cgil, dove si sono ricollocati molti quadri in fuga dalla crisi dell’estrema sinistra e dove si sono sviluppate le battaglie contro gli “accordi di concertazione” (1992-93), con il Documento dei 39 (1990) e poi con Essere sindacato (1991), diretti da Fausto Bertinotti, e successivamente con Alternativa sindacale (1996) e con Cara CGIL (1996).

    La convergenza tra Alternativa sindacale e la maggioranza cofferatiana della CGIL (2002) e poi il patto di vertice tra Gianpaolo Patta (e la sua componente divenuta Lavoro società) e Guglielmo Epifani hanno portato alla nascita di un movimento di delegati insoddisfatti della deriva moderata della ex-sinistra sindacale, movimento che è sfociato nella creazione della Rete 28 aprile (2005) diretta da Giorgio Cremaschi, storico dirigente dei metalmeccanici, discepolo di Claudio Sabbattini.

    Nel frattempo, infatti, si era prodotta, a partire dalla vertenza Electrolux-Zanussi (2000), una rottura tra la FIOM Cgil, prima diretta da Sabbattini (1996-2002) e poi da Gianni Rinaldini (2002-2010), e gli altri sindacati confederali metalmeccanici (FIM e UILM), con la scelta da parte dei metalmeccanici Cgil di non sottoscrivere il “contratto separato” (2003) e poi gli accordi con la FIAT-FCA di Marchionne, oltre che di partecipare in maniera aperta alle iniziative del movimento altermondialista

    Anche la Confederazione intanto risentiva fortemente della pressione FIOM per non “omologarsi” a CISL e UIL, con la non condivisione da parte di Cofferati del “libro bianco” Biagi-Maroni (2000), con la conseguente mobilitazione culminata nella manifestazione di Roma del 23 marzo 2002 al Circo massimo, fino ad arrivare alla non sottoscrizione da parte della CGIL di Susanna Camusso del “protocollo di riforma del modello contrattuale” (2009).

    In quel periodo si sviluppò un fortissimo ed aspro dibattito nella CGIL, non solo tra nuclei di attivisti di base e vertici burocratici, ma verticalmente all’interno dell’intero apparato, tra una maggioranza desiderosa di “rientrare nei ranghi”, soprattutto dopo che il governo Monti aveva offerto l’illusione che fosse finita la stagione dei “governi ostili”, e una minoranza di quadri e di dirigenti (oltre che nella FIOM anche nella FP, nella FISAC e in altre strutture) che sostenevano la necessità di una svolta nei metodi e nei contenuti verso una struttura più democratica e verso una maggiore indipendenza dai governi.

    Quella fase di intenso scontro fu l’occasione per la Rete 28 aprile di passare dal livello di pura aggregazione di quadri e delegati alla costruzione di una vera e propria area congressuale: Il sindacato è un’altra cosa e di avere una propria politica autonoma nel quadro dello scontro interno alla confederazione, pur se in “alleanza critica” con il vertice FIOM.

    Questa situazione ha consentito ai componenti dell’area collocati nei diversi posti dell’apparato, di poter, seppur in maniera conflittuale, continuare a svolgere un vero e proprio lavoro sindacale, mantenendo ruoli e posizioni negli organismi politici e in quelli “esecutivi” dell’organizzazione (che poi sono i veri depositari delle scelte politico sindacali).

    E, soprattutto, l’area stessa ha potuto agire come soggettività politica autonoma, tanto dall’assumere un ruolo centrale nella costruzione del Comitato No debito (2010) e poi della mobilitazione contro il governo Monti (27 ottobre 2011), riuscendo a dare vita attorno a sé ad un fronte unico di tutto il “sindacalismo conflittuale”, che proseguì anche negli anni successivi, con importanti iniziative anche in grandi aziende.

    Questa situazione si è del tutto chiusa con gli accordi di palazzo tra il segretario della FIOM e la segretaria della CGIL (2015) e poi con l’elezione di Maurizio Landini prima in segreteria confederale (2017) e poi nella poltrona di segretario generale (2019).

    Le conseguenze della “svolta” di Landini

    La classe lavoratrice, di fronte alla “rivoluzione liberista”, ha più che mai bisogno di strumenti di ricomposizione, di difesa delle proprie condizioni di lavoro e di lotta antipadronale.

    La CGIL nella sua parabola involutiva ha sempre meno rappresentato uno strumento valido in questa direzione. E’ una parabola che ha radici lontanissime, nel riformismo moderato dei suoi dirigenti che già non si contrapposero efficacemente all’ascesa del fascismo (1919-1922) e che è continuata anche nel secondo dopoguerra. 

    Ma la CGIL è restata per lungo tempo un importante terreno per una battaglia politica e per dare un contributo per un progetto di costruzione di uno strumento sindacale alternativo: nella CGIL si poteva lavorare per radicarsi in vari settori, per acquisire un’esperienza sindacale preziosa anche in contesti diversi, per interloquire con altri quadri e organismi del sindacalismo di classe attorno all’esigenza di uno strumento diverso.

    Dal momento della svolta di Landini e della chiusura dell’ “anomalia FIOM”, però, gli spazi di battaglia politica e di lavoro sindacale nella CGIL si sono drasticamente ridotti.

    Questo non significa che la CGIL non continui ad essere un importante terreno di radicamento e di relazione sociale. Ma non è più un terreno di costruzione dell’alternativa sindacale di cui ha bisogno la classe lavoratrice italiana.

    Basta osservare alcune controprove: numerosi quadri che avevano partecipato alle varie battaglie di minoranza (e, in particolare a quella del Sindacato è un’altra cosa), per continuare ad avere un ruolo sindacale (che era la motivazione del loro impegno nella CGIL), sono dovuti uscire dalla CGIL oppure ritornare nell’alveo della maggioranza.

    Quanto agli spazi di battaglia politica, basti ricordare che per sopravvivere la corrente di “opposizione CGIL” si è dovuta fondere con quello che restava della corrente che, nel 2014 al 17° congresso, era accorsa in aiuto di Susanna Camusso contro la minoranza: altro che ricerca dell’alternativa sindacale…

    Questo significa che la base CGIL è largamente se non totalmente impossibilitata dal praticare pressioni e rivolte contro i vertici del tipo di quelle del 1992? 

    Negli ultimi 12-13 anni (a parte l’importante eccezione della vicenda GKN, su cui torneremo) non si sono verificati episodi significativi di seppur timida contestazione nei confronti dei vertici burocratici né di significativa pressione per una correzione di rotta. Non vanno considerati in questa disamina i malumori, le manifestazioni di scontento tipiche di qualunque sindacato. 

    Ovviamente non pregiudichiamo il futuro ma nella fase attuale qualunque elemento di analisi tende a escludere che possa prodursi una situazione nella quale diventi praticabile in relazione con la CGIL una forma di autorganizzazione alternativa alla burocrazia.

    Ed è anche estremamente improbabile che, in misura più modesta, si creino la condizioni perché settori rilevanti di base esercitino in maniera significativa una pressione sui vertici per un cambio anche solo parziale di rotta.

    Anche qui non si vuole escludere che l’atteggiamento esplicitamente antisindacale del governo di estrema destra e la durezza dell’attacco padronale inducano la burocrazia (o settori importanti di essa) ad un cambio di linguaggio e all’adozione di iniziative di mobilitazione. Cosa che peraltro sarebbe necessaria da tempo ma che la burocrazia ha evitato accuratamente di fare da oltre 10 anni a questa parte (ovviamente non fa testo la demagogia parolaia di Landini).

    Guardiamo alla recente esperienza francese, nella quale per piegare la determinazione della classe e del governo padronali non sono bastate 11 giornate di sciopero, una ventina di giornate di manifestazioni diffuse in tutto il paese e significativi settori produttivi (trasporti, energia, igiene urbana, ecc) segnati da scioperi tendenzialmente ad oltranza.

    Ovviamente, con ciò non si vuole affatto banalizzare la lotta straordinaria della classe lavoratrice francese negli ultimi 5-6 mesi che costituisce per tutti un punto di riferimento di eccezionale importanza, che abbiamo seguito con molta attenzione e con forte solidarietà. 

    Si vuole però sottolineare come le tiepide iniziative antigovernative che di tanto in tanto assumono le confederazioni italiane non abbiano alcuna speranza di scalfire la determinazione del padronato italiano e del governo di estrema destra, peraltro mossi da esigenze “macroeconomiche” perfino più stringenti dei loro omologhi transalpini. Ci vorrebbero impostazioni politiche e scelte organizzative che le burocrazie di CGIL, CISL e UIL sono intrinsecamente e strutturalmente incapaci di assumere.

    Non ha dunque senso, in questo contesto, invocare da Landini e dai sindacati confederali l’indizione di una giornata di sciopero generale, che, anche se ipoteticamente indetto, non sarebbe intrinsecamente capace di invertire o anche solo di attenuare l’offensiva padronale e governativa. Anzi, gli effetti inevitabilmente nulli delle fiacche e formali iniziative di testimonianza in vita prese dalle burocrazie sindacali rischiano di produrre ulteriore demoralizzazione e rassegnazione.

    Nel 2015, dopo l’esperienza del 17° congresso e dopo il “tradimento” di Landini e la sua ricomposizione conflittuale e burocratica con Susanna Camusso, che ha riportato in auge nella confederazione la pratica delle faide e degli accordi di palazzo, si era aperta una piccola possibilità di aggregare attorno alla proposta della ricerca di un progetto sindacale alternativo l’importante collettivo classista e antiburocratico (radicato in importanti realtà lavorative sparse nel paese) che si era enucleato nell’esperienza del Sindacato è un’altra cosa.

    Anche quella, come fu nel 1992, è stata un’occasione mancata, anche a causa di chi ha rivendicato come inevitabile la scelta di non perseguire quella possibilità.

    La GKN

    L’esperienza della lotta alla GKN di Campi Bisenzio (iniziata nel luglio 2021) ha costituito la più significativa esperienza di autorganizzazione operaia negli anni recenti. La lotta di quegli operai ha costituito per oltre un anno un punto di riferimento importante nell’ottica della “convergenza” delle frammentate esperienze di conflitto sociale e ambientale presenti nel paese.

    Ha aggregato attorno a sé settori importanti del sindacalismo di base, ha messo in contraddizione la politica della burocrazia CGIL (per non parlare di quella CISL), si è coraggiosamente mobilitata in occasione di più o meno grandi iniziative unitarie o di sigla del sindacalismo di base, ha offerto una qualche speranza alle frammentarie esperienze di lotta delle aziende “delocalizzate”.

    Ha mostrato l’efficacia di un’autorganizzazione (il collettivo di fabbrica) che andasse ben al di là dell’organizzazione degli iscritti a questo o quel sindacato.

    Ma, senza infingimenti, occorre anche riconoscere che nella sua scelta di “insorgenza” ha accuratamente evitato di “insorgere” contro un avversario non irrilevante e per certi versi centrale, cioè proprio contro i vertici della CGIL. Ha nei fatti rinunciato a far “convergere” veramente, cioè aggirando e scavalcando i canali burocratici, le numerose vertenze contro chiusure e delocalizzazioni.

    E, nei fatti, ha affidato alla CGIL la gestione della vertenza istituzionale e alla politica (cioè a qualche deputato volenteroso) la gestione della proposta sulle delocalizzazioni elaborata da un gruppo di giuristi e di economisti. 

    Purtroppo con i risultati che abbiamo visto.

    E non lo diciamo perché la vertenza si sta concludendo nel modo deteriore analogo a quello con cui si vanno sempre a concludere vertenze di quel tipo. Forse questo era, sì, inevitabile. Ma perché non sembra aver sedimentato granché nel sindacato. 

    Un panorama sindacale oggi ulteriormente deteriorato

    Della CGIL abbiamo detto.

    Quanto al sindacalismo di base, la “cartellizzazione” a geometria variabile rende tutte le sigle sul campo sempre meno utilizzabili per l’elaborazione di un progetto del tipo che sarebbe necessario.

    La durezza e la determinazione dell’attacco padronale e governativo e il disarmo delle direzioni confederali hanno drasticamente frammentato e disarticolato la classe lavoratrice. Il bisogno di un sindacato che operi con efficacia una difesa delle lavoratrici e dei lavoratori cresce esponenzialmente, anche se le lavoratrici e i lavoratori, proprio perché frammentati e disarticolati e a causa dei tradimenti del “sindacalismo reale”, non esprimono affatto in maniera consapevole ed esplicita questo bisogno.

    Ad esempio, il collateralismo corporativo tra alcuni sindacati (anche della CGIL) e le direzioni aziendali (in particolare in alcuni servizi e in parte del pubblico impiego) legittimano la visione che tende ad includere i sindacati nelle “controparti”.

    Anzi, comprensibilmente tante lavoratrici e tanti lavoratori considerano i “sindacati” corresponsabili della situazione di sofferenza sociale. Ma il saper dare risposta a quel bisogno bruciante ma inespresso è un compito cruciale dell’epoca, uno dei tanti compiti che la sinistra (compresa quella “radicale”) evita di considerare, delegandone la soluzione alle direzioni dei sindacati “di riferimento”.

    Inoltre, i sindacati confederali (e a modo loro anche quelli di base) si muovono, salvo marginali e inessenziali correttivi, utilizzando un metodo organizzativo e uno stile politico sostanzialmente consolidatosi nella fase di ascesa sociale (anni 60 e 70), del tutto inadeguato al contesto del capitalismo neoliberale, largamente incapace di intercettare veramente e di rispondere ai bisogni delle classi lavoratrici attuali, segnate dal diffondersi di multiculturalismo, gap generazionali e di genere, frammentazione aziendale, ecc.

    In tal modo offrono anche il fianco alla campagna padronale e corporativo-reazionaria sulla non funzionalità del sindacalismo.

    Anche le RSU, che pure in una prima fase avevano assunto il ruolo di parziali surrogati degli organismi democratici di base di altri periodi, hanno smesso di combattere la rassegnazione della base e spesso hanno conosciuto fenomeni di burocratizzazione e di disaffezione.

    Spesso a sinistra si mitizza la cosiddetta “indipendenza” sindacale, anche per evitare di discutere su quel che accade nel sindacato, su quali siano le prospettive, e si preferisce sopravvivere nelle nicchie di apparati piccoli o grandi sostanzialmente dannosi per lavoratrici e lavoratori.

    Nella opposizione CGIL, ad esempio, esiste un bilancio mai esplicitato ma scolpito nella testa della direzione di quella corrente: quando Il sindacato è un’altra cosa e la sua direzione, nel periodo 2010-2015, hanno praticato (occorre dirlo con il consenso di tutte/i gli aderenti di allora) una linea effettivamente di opposizione e di aggregazione trasversale del sindacalismo conflittuale, la reazione difensiva della burocrazia è stata risoluta e impietosa, con l’immediata emarginazione e la successiva espulsione dei delegati più esposti e del coordinatore dell’area.

    I dirigenti di quel che resta di quell’area nella CGIL hanno dunque impresso nel loro orientamento il fatto che occorre seccamente evitare di tornare su di un percorso di quel tipo per evitare di essere messi di fronte a scelte troppo difficili.

    La mitizzazione dell’indipendenza

    L’indipendenza del sindacato non significa che di come si lavora in un ambito sindacale non si possa discutere in qualunque altro ambito. Peraltro sia la CGIL sia i sindacati di base sono tutt’altro che indipendenti dalla politica e dai partiti. Ne soffrono l’ingerenza ed è giusto denunciarla. E a volte sono persino le burocrazie sindacali a “ingerirsi” nella politica: basta ricordare le ambizioni accarezzate da Landini, dalla sua poltrona CGIL, o, in un ambito più importante e più fattuale, il ruolo fondamentale che ebbe Bruno Trentin al momento della trasformazione del PCI in PDS. Così come sono noti i legami tra alcuni sindacati di base e alcune forze politiche.

    Storicamente, il sindacalismo di sinistra è stato uno strumento centrale della politica dei partiti operai. Basti ricordare che nella Russia pre 1917 non esistevano sindacati “indipendenti” ma agivano sindacalisti funzionari dei vari partiti (menscevichi e bolscevichi) che penetravano più o meno abusivamente nelle fabbriche per sostenere ed aiutare la base operaia nell’organizzare scioperi e iniziative antipadronali.

    Certo, indipendenza significa non subalternità a progetti di piccole o grandi conventicole partitiche. Significa soprattutto organizzazione democratica in cui le sedi decisionali siano il più possibile nella mani della base, significa far prevalere l’obiettivo dell’unità su basi di classe piuttosto che su quello della fedeltà ad un progetto politico extrasindacale.

    Certo, oggi la divisione del fronte sindacale (anche del sindacalismo cosiddetto “conflittuale”, tra quello interno alla CGIL e quelle esterno dei sindacati di base) è la conseguenza diretta delle scelte delle direzioni dei diversi raggruppamenti. Ma non basta rilevare questa divisione e denunciarne le conseguenze negative, se nessuno, né nel sindacalismo, né nella sinistra politica, si batte per elaborare un progetto unificante di costruzione di un sindacalismo alternativo.

    Il sindacato che vuole la classe lavoratrice

    Questa impellenza non può essere aggirata ripetendo l’ovvietà secondo cui il sindacato democratico e di massa di cui c’è bisogno nascerà solo se dalla CGIL si staccheranno fette consistenti della base, cosa su cui sono d’accordo anche grandissima parte dei dirigenti dei sindacati di base.

    Non basta questa constatazione. La consapevolezza di questa cosa, unita all’analisi delle conseguenze delle sconfitte storiche che la classe lavoratrice sta accumulando, non ci può far collocare in una posizione di semplice attesa che questa mitica “rottura antiburocratica” avvenga. Per il momento, il distacco dalla burocrazia sta avvenendo in senso negativo, con una progressiva spoliticizzazione della base CGIL, con una sempre più marcata desindacalizzazione di fatto delle aziende, con lo sviluppo del “sindacalismo assistenziale” (quello dei CAF, dei patronati, al massimo degli uffici vertenze), con una crescente indifferenza verso il sindacato da parte delle/dei giovani lavoratrici/tori e della classe lavoratrice immigrata, ecc.

    E’ possibile che le confederazioni sindacali italiane non conoscano un vero e proprio fenomeno di “desindacalizzazione” (prendendo per buone le cifre sulle iscrizioni fornite dagli uffici stampa delle burocrazie), ma la loro perdita di peso e di ruolo è percepibile da qualunque osservatore obiettivo.

    Avere la consapevolezza del fatto che il futuro sindacato “altro” nascerà veramente solo se e quando si staccheranno dal controllo burocratico settori importanti non significa porsi in una situazione di attesa semplicemente invocando dalla direzione collaborazionista un atteggiamento un po’ più “duro”. Avere quella consapevolezza significa prepararsi fin da oggi a quella auspicata evenienza. 

    Nel 1992 lo “sciopero dei bulloni” non produsse nessuna rottura significativa nella CGIL non solo a causa dell’opportunismo di Patta e Bertinotti, ma perché nessuno aveva preparato nulla per quella cruciale situazione.

    Inoltre, se quella rottura si verificherà, occorre rispondere alle domande:

    • Come avverrà? Avverrà con una rottura verticale o con un esodo sostanzialmente molecolare?
    • E, soprattutto, come stiamo lavorando perché questo avvenga?
    • Che apporto vogliamo dare?

    Sappiamo che le rotture si producono il più delle volte per fenomeni esterni e non per iniziativa di piccoli gruppi politici. Ma i gruppi politici possono o meno capitalizzare quelle rotture solo se si sono pazientemente ma coraggiosamente preparati a quello scenario. 

    Altrimenti si continuerà ad essere solo gli spettatori dell’inerzia o, nella migliore delle ipotesi, a poter solo commentare dinamiche gestite e dirette da altre/i.

  • Uruguay, 50 anni dopo il colpo di stato

    Uruguay, 50 anni dopo il colpo di stato

    50 anni fa, il 27 giugno 1973, l’Uruguay, governato fin dal 1968 in maniera autoritaria, conobbe una brusca accelerazione delle politiche repressive, con lo con lo scioglimento del parlamento e l’insediamento di una vera e propria dittatura civile-militare.

    I quasi undici anni di dittatura (la vita democratica riprese formalmente il 28 febbraio 1984) le politiche terroristiche delo stato portarono a migliaia di carcerazioni illegittime, a torture, a assassinii, a sparizioni, a crimini sessuali, al sequestro di minori, all’esilio.

    Il golpe uruguaiano si colloca nel periodo nel quale le classi dominanti del subcontinente latinoamericano, con l’esplicito sostegno politico e materiale dell’amministrazione di Washington, temendo di perdere il controllo della società, attraversata da importanti conflitti sociali, reagiscono violenetemente, affidando il potere statale alle gerarchie militari.

    In quel periodo oltre al golpe uruguaiano (27 giugno 1973) si collocano anche i golpe cileno (11 settembre 1973) e argentino (24 marzo 1976).

    Tutto il Novecento latinoamericano è segnato da decine di colpi di stato, segno della debolezza della borghesia dei diversi paesi del subcontinente di fronte all’ascesa delle masse popolari, in particolare dopo la vittoria della Rivoluzione cubana (1959).

    Per ricordare il cinquantesimo anniversario del golpe uruguaiano, pubblichiamo qui sotto un articolo di Ernesto Herrera, editore del sito Correspondencia de Prensa, e un estratto del libro Las historias que no nos contaron. 1973: Golpe de Estado y Huelga General, di Víctor L. Bachetta.

    1973, l’imposizione di un regime controrivoluzionario

    di Ernesto Herrera, da correspondenciadeprensa.com

    Giovedì 12 luglio 1973. Decine di migliaia di lavoratori tornano al lavoro. Nelle fabbriche, nei cantieri, nelle officine, nelle banche, negli stabilimenti di lavorazione della carne, negli ospedali, negli uffici, si comincia a ristabilire la “normalità” lavorativa.

    In molti di questi luoghi, appena arrivati, i lavoratori trovano le stesse immagini inquietanti: manifesti sindacali e cartelli di solidarietà strappati. Mancano gli spogliatoi, gli armadietti sono vuoti. Nessuna traccia di organizzazione o di lotta recente.

    Il giorno prima, il Consiglio di Rappresentanza della CNT (Convención Nacional Trabajadores), ormai fuori legge, ha deciso di revocare lo sciopero generale: 22 sindacati a favore, 2 contrari, 4 astenuti. Nella risoluzione si legge che:

    “Nelle attuali circostanze il suo prolungamento indefinito porterebbe solo a logorare le nostre forze e a consolidare quelle del nemico. Non usciamo da questa battaglia sconfitti o umiliati. Al contrario, l’eroismo dimostrato durante tutta la battaglia, in particolare dai distaccamenti più forti della classe operaia (…) dimostra che la forza dei lavoratori, nonostante le ferite ricevute, non è stata fondamentalmente intaccata”.

    (Il PIT-CNT, Plenario Intersindical de Trabajadores (PIT) e Convención Nacional Trabajadores (CNT), è la risultante della unificazione dei due principali sindacati uruguaiani, formatasi il 1° maggio 1983, quando la brutale dittatura civile-militare stava entrando nella sua fase finale, ndt).

    A quel punto, centinaia di scioperanti e militanti erano già imprigionati nelle caserme e nel Cilindro Municipal de Montevideo, il più grande stadio di basket del paese. Coloro che riuscirono a sottrarsi alla caccia repressiva si rifugiarono nella clandestinità. Alcuni vagavano all’aperto, altri si rifugiavano presso amici, parenti, centri parrocchiali. Tutti in clandestinità.

    A differenza dei dirigenti della CNT, gli imprenditori lessero la situazione con precisione. Fecero i conti e agirono, senza indugio. Felici della vittoria golpista, impedirono qualsiasi sforzo di riorganizzazione sindacale di base, vietando persino i distintivi. La parola “compagno” divenne sospetta per capisquadra e dirigenti. Doveva essere pronunciata sottovoce. I “facinorosi” più in vista furono licenziati quasi immediatamente. Era il test dei padroni per valutare la capacità di reazione dei lavoratori. Non c’è stata.

    Gli accordi firmati e le categorie funzionali sono stati immediatamente disattesi. I turni di lavoro, i “buoni” quindicinali e le ferie annuali sono stati “riprogrammati”. Gli straordinari sono tornati a essere una “semplice” retribuzione. Gli abiti da lavoro divennero costosi. Tutte le conquiste precedenti furono calpestate.

    Non c’era spazio per la confusione. Questi erano i primi segni di un’innegabile sconfitta strategica. Lo sciopero generale che affrontò il colpo di stato del 27 giugno non poté impedire il consolidamento di un regime “civile-militare” che avrebbe spazzato via tutte le libertà democratiche per più di un decennio.

    Nei giorni e nelle settimane successive alla revoca dello sciopero, l’indignazione si accelerò. Cominciarono a circolare innumerevoli “liste nere”. In esse, le camere di commercio e il ministero degli Interni “marchiavano” gli attivisti. A questi ultimi veniva impedito di lavorare in qualsiasi settore dell’economia. Migliaia furono licenziati nel settore privato (anche senza indennizzo). Altri furono “riassunti” e poi licenziati nel servizio pubblico.

    Era necessario riqualificarsi per sopravvivere. E molti non hanno trovato altra scelta che il lavoro precario dei changa (i lavortetti, ndt), che non richiedeva un precedente impiego o una fedina penale pulita. Si muovevano attraverso varie “professioni”. In questo modo, hanno improvvisato un nuovo “sapere lavorativo” in condizioni di sovra-sfruttamento. Tra il 1974 e il 1981, i salari sono diminuiti del 30%.

    Vennero imposte “nuove forme di rapporti di lavoro”. Generate dalla “caduta dei salari reali, dall’aumento dell’orario di lavoro e della sua intensità e dalla maggiore partecipazione delle donne, con salari medi più bassi, al mercato del lavoro. Tutto ciò ha portato a un sostanziale aumento del plusvalore assoluto e relativo estratto. A ciò si è aggiunta una squalificazione delle conoscenze dei lavoratori, dovuta all’esilio forzato del contingente più qualificato della forza lavoro”. (da La Dictadura Financiera, di Juan Berterretche e Aldo Gili, sotto gli pseudonimi di Juan Robles y Jorge Vedia, Editorial Letro, Montevideo, 1983)

    A metà del 1974, migliaia di lavoratori e le loro famiglie erano partiti per un esilio economico in Argentina, Europa, Canada e Australia. Con lo sgomento nelle loro valigie. Alcuni non sono più tornati. Altri sono tornati solo nel 1985, con la “restauración democrática”.

    La fine del mito dell’Uruguay “democratico”

    La revoca dello sciopero significava “tornare al lavoro” alle condizioni imposte dai putschisti. Si trattava di una prova categorica che l’equilibrio del potere si era rovesciato contro i lavoratori e le loro organizzazioni.

    Con l’interruzione dello sciopero, lo stato e le fazioni dominanti delle classi proprietarie hanno ristabilito il controllo della “disciplina sociale”. Senza bisogno di tornare alle “tradizioni civiche”, che erano diventate obsolete. Che erano obsolete.

    La “vecchia classe politica”, logora, “inetta e corrotta”, è stata estromessa dal potere. Non c’era bisogno di espedienti legalistici. Il formato istituzionale del regime di dominio è stato radicalmente rovesciato. Non solo di facciata. La favola dell’”Uruguay liberale”, egualitario e tollerante, famoso per il suo modello “esemplare” di partitocrazia, lasciò il posto a un granitico ordine controrivoluzionario. Atroce, oscurantista.

    Pioniere, è bene ricordarlo, nell’inaugurare il ciclo del terrorismo di stato nel Cono Sud durante gli anni Settanta. Senza le bombe e le sparatorie di massa fin dal primo giorno, come avvenne nell’assalto fascista che rovesciò il governo popolare di Salvador Allende, ma certamente con lo stesso istinto criminale.

    Da questa parte della cordigliera, “solo due morti”: Ramón Peré e Walter Medina, giovani studenti uccisi dalla polizia mentre scrivevano sui muri durante lo Sciopero Generale. Anche se l’infame elenco dei crimini contro l’umanità, con migliaia di prigionieri politici e torturati, centinaia di assassinati e scomparsi, sarebbe stato compilato più tardi, nell’ambito dell’oscuro Plan Cóndor che operava in Argentina, Cile, Paraguay e Uruguay.

    L’apparato totalitario prese di mira le organizzazioni sindacali e studentesche, il Frente Amplio e tutte le forze di sinistra, la libertà di stampa, la creatività culturale. Erano i nemici principali, obiettivi strategici da distruggere. Così insegnavano i manuali di controinsurrezione della “Dottrina della sicurezza nazionale” ispirata da Washington.

    In questo quadro di terrore implacabile, ogni espressione di resistenza valeva una lunga condanna per il reato di “sedizione”, dettata da un sistema giudiziario militare che a sua volta metteva a disposizione giudici, pubblici ministeri e “avvocati d’ufficio” (civili e militari) che fingevano di difendere gli accusati.

    Le illusioni delle direzioni sindacali

    Nel 1964, il movimento sindacale aveva deciso uno sciopero generale in caso di colpo di stato. La misura fu ratificata dalla CNT nel 1967, poco dopo la sua fondazione. Si sarebbe aggiunto “con l’occupazione”, per concentrare la forza nei luoghi di lavoro ed “evitare la dispersione”. La resistenza sarebbe avvenuta con “metodi pacifici”.

    Nessuna delle innumerevoli sequenze fotografiche dell’epoca mostra poliziotti o soldati feriti o attaccati nel corso dello sciopero. Una prova ineludibile che la resistenza non andò mai oltre le indicazioni della CNT, egemonizzata dal Partito Comunista.

    Le proposte di utilizzare metodi di resistenza più militanti sono state soffocate in nome dell’“unità” del movimento operaio. Iniziative isolate per esercitare il legittimo diritto di autodifesa non rientravano nell’orientamento strategico dello sciopero. Sono state criticate nelle assemblee degli attivisti in cui si sono discusse le alternative: lasciare il confino delle occupazioni, che consentiva di concentrare la repressione; portare la vertenza in piazza con proteste di massa, che avrebbero insinuato nella società la percezione di qualcosa di simile a un “doppio potere”; che lo sciopero mirava a rovesciare la dittatura.

    Ma non era così. Questi obiettivi non rientravano nelle aspettative della CNT, né del Frente Amplio. Essi continuarono a giocare tutte le loro carte su una fantasiosa alleanza con i settori “costituzionalisti” delle Forze Armate. Che, tra l’altro, se esistevano, non avevano alcun potere di comando sulle truppe, né potenza di fuoco. Le unità militari più importanti erano decisamente favorevoli al colpo di stato.

    In questo contesto, l’unico arsenale degli scioperanti consisteva nella loro convinzione, nell’incoraggiamento dei quartieri, nel sostegno degli studenti e nell’inevitabile canto dell’inno nazionale al momento degli sgomberi.

    D’altra parte, le fotografie mostrano la furia repressiva in decine di fabbriche, nella raffineria, nel Frigorífico Nacional e in tanti altri luoghi occupati. Operai picchiati, feriti, insanguinati, gassati, ammanettati e presi a calci per terra. Costretti a cancellare con la lingua muri e manifesti con slogan contro il colpo di stato.

    Armi da guerra contro volantini stampati su macchine da stampa artigianali. Quartieri operai invasi, militarizzati, per disarticolare l’ampia solidarietà popolare con gli scioperanti. Una lotta tremenda, eroica, impari, in cui i lavoratori hanno dimostrato una costante volontà di lotta e di sacrificio:

    “Senza direzione o direttive chiare, hanno resistito agli sgomberi e alla repressione per rioccupare non appena i militari se ne sono andati (…) sono arrivati, come ad Alpargatas, a occupare e rioccupare la fabbrica fino a 8 volte, per finire a continuare l’occupazione a Cervecerías quando l’esercito si è installato nello stabilimento” (da 15 días que conmovieron al Uruguay, saggio di Pablo Ramírez, con lo pseudonimo di Jorge Guidobono, Revista de América, 1974, Buenos Aires).

    Da febbraio si sapeva che il colpo di stato era “imminente”. Tuttavia, la CNT non fece un passo in direzione dello scontro decisivo. Nessuna preparazione centralizzata. Nemmeno la minima raccomandazione difensiva. Zero “fondi per lo sciopero”.

    Ogni sindacato, ogni comitato di base, gli scioperanti nel loro insieme, hanno dovuto rispondere con tutto ciò che avevano a disposizione.

    Lo hanno fatto, disciplinati dalle poche linee guida della centrale sindacale.

    1. Occupare e non opporre resistenza in caso di sgombero;
    2. rioccupare se le condizioni lo permettono;
    3. non lasciare che gli altri lavoratori sgomberati entrino nel luogo occupato;
    4. fare affidamento sulla solidarietà del quartiere, svolgendo attività con i vicini, i piccoli negozi e le fiere.

    Ma la portata dello sciopero si stava indebolendo. Il quinto giorno, i trasporti urbani ed extraurbani, guidati da sindacalisti del Partito Comunista, hanno disertato (vedi l’estratto sullo sciopero dei trasporti, più sotto). Da quel momento le grandi aree commerciali tornarono alla piena attività. Lo stesso accadde nell’interno del paese. Il clima di scontro dei primi giorni cominciò ad affievolirsi.

    In successivi incontri con i dirigenti della CNT (nel corso dello sciopero stesso), i comandanti militari avevano già respinto le richieste che riassumevano il “programma” dello sciopero “per la ripresa del paese”. Piena validità dei diritti sindacali e politici; libertà di espressione; misure di “riorganizzazione economica” come la nazionalizzazione del sistema bancario, del commercio estero e dell’industria della lavorazione della carne; recupero del “potere d’acquisto” di salari e pensioni; controllo dei prezzi con sovvenzioni ai prodotti di consumo popolare.

    Non un solo accenno a Juan María Bordaberry (Partito Colorado), il Presidente della Repubblica che nel febbraio 1973 aveva accettato di “co-governare” con le Forze Armate, istituendo il Consiglio di Sicurezza Nazionale (COSENA), da allora il vero organo del potere statale. Non si parla nemmeno delle sue dimissioni e della richiesta di indire nuove elezioni, anticipandole, senza aspettare il 1976.

    A questo proposito, la dirigenza della CNT mantenne la sua irresponsabile coerenza durante lo sciopero. Scommettendo fino all’ultimo momento sull’illusorio “contro-golpe” dell’ala “progressista” delle Forze Armate.

    Lunedì 9 luglio, “alle cinque” del pomeriggio, nel centro di Montevideo, circa 30.000 persone hanno sfidato i carri armati dell’esercito e i cannoni ad acqua “guanacos” della polizia con pietre e bombe molotov improvvisate. Centinaia di manifestanti sono stati colpiti, altrettanti arrestati, tra cui il generale Líber Seregni, presidente del Frente Amplio. È stato l’unico appello della CNT per una protesta di massa in due settimane. Fu una dimostrazione di forza tardiva. A quel punto lo sciopero era già morto dissanguato.

    Ci sono voluti decenni perché alcuni dei principali dirigenti della CNT e del Partito Comunista di quegli anni potessero svelare il “bilancio” che la centrale sindacale presentò nella risoluzione dell’11 luglio, quando lo sciopero fu revocato. La vicenda cambiò il quadro storico:

    (…) Lo sciopero generale si sviluppò in modo molto isolato dalla società nel suo complesso, con molta simpatia popolare, ma senza forze politiche e sociali che si unissero in qualche modo. Non è diventato uno sciopero civico, uno sciopero nazionale (…) È stato uno sciopero di resistenza, che ha resistito finché ha potuto. È stato utile, sicuramente è stato utile. Non ho mai detto che li abbiamo sconfitti. Ci hanno sconfitto e massacrato, ma in qualche modo lo sciopero ha isolato socialmente la dittatura”. (dall’intervista a Vladimir Turiansky contenuta nel libro di Alfonso Lessa, El “pecado original”. La izquierda y el golpe militar de febrero de 1973, Editorial Sudamericana, Montevideo, 2012)

    Anche se non c’era autocritica in ciò che diceva sull’accumulo di disinformazione e disorganizzazione che era la CNT durante lo sciopero, né sulla strategia adottata, era più vicino alla realtà di ciò che accadde.

    L’altra conclusione era una vecchia verità. La dittatura uruguaiana è nata “orfana” di una base sociale attiva a suo favore. Una differenza che vale la pena notare anche rispetto ai colpi di stato in Cile (settembre 1973) e in Argentina (marzo 1976). Ma il costo politico ed economico, sociale e umano pagato dalla classe operaia è stato molto simile. Tragico.

    Una sconfitta storica

    Qualche mese prima, il 9 febbraio (quando il colpo di Stato era già in gestazione), le Forze Armate avevano pubblicato i “Comunicati 4 e 7”. Furono accolti con entusiasmo dal Partito Comunista che, per bocca del suo principale teorico, Rodney Arismendi, propose il fronte unito “tra la tuta, la tonaca e l’uniforme”. La stessa posizione fu assunta da altre forze del Frente Amplio e dalla direzione della CNT. Si trovarono d’accordo sulla diagnosi: il pronunciamento militare esprimeva “obiettivi programmatici comuni” e l’esistenza di una corrente nazionalista di pensiero “peruvianista” (cioè in sintonia con ill regime peruviano del generale Juan Velazco Alvarado, definito “nazionalista” e “progressista”) all’interno dell’apparato militare. Doveva essere sostenuto. Perché riconfermava che il dilemma chiave continuava a essere tra “oligarchia o popolo”, e le Forze Armate erano, in questa logica, parte del popolo e non semplicemente il braccio armato dell’oligarchia.

    Qualche tempo dopo, gli stessi militari avrebbero riconosciuto che i comunicati erano serviti a “neutralizzare” la sinistra sulla via della dittatura.

    E ancora: che alcune delle questioni economiche sollevate nei comunicati erano state il risultato di negoziati con i leader del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros (la maggior parte dei quali già in carcere) presso la caserma del Battaglione Florida. Questi negoziati si erano svolti quando la struttura militare del MLN era stata già smantellata dalla repressione e furono sospesi dai militari con la richiesta di una resa política “incondizionata” della guerrilla.

    Il 27 giugno si concluse la lunga “crisi nazionale”. Il blocco del regime di dominazione fu sbloccato. Il Parlamento, cassa di risonanza della scissione dei “partiti tradizionali”, fu sciolto. La “soluzione autoritaria” aveva un percorso chiaro.

    Anche se la sua genesi risale a molto tempo prima. Sotto i governi del Partido Colorado di Jorge Pacheco Areco e Juan María Bordaberry, la repressione era in cima all’agenda: “misure di sicurezza immediate” per reprimere gli scioperi, militarizzazione dei dipendenti pubblici, assassinii di studenti, torture di prigionieri politici (per lo più della sinistra “guerrigliera”), squadroni della morte, messa fuori legge dei partiti di sinistra, chiusura dei giornali.

    Con la sconfitta strategica di giugno-luglio, si è chiuso il ciclo di ascesa delle lotte operaie e popolari, che aveva raggiunto il suo apice negli anni 1968-1972. Con essa, il processo di “accumulazione di forze” del movimento popolare è stato bloccato. Le organizzazioni di orientamento rivoluzionario sono state distrutte.

    I dibattiti sul programma di “riforme strutturali”, sul ruolo dello sciopero generale, sulle “modalità di avvicinamento al potere” e sull’“armamento dell’avanguardia” non erano più presenti. Non è stata riconquistata nemmeno la forza delle correnti “militanti e consapevoli della classe” che, negli “anni duri“, si sono contese spazi di influenza con l’egemonia “riformista” nel movimento sindacale. I metodi di “lotta politica con le armi” del MLN e di altri gruppi ispirati al guevarismo erano stati sconfitti molto prima del colpo di stato.

    Il cinquantenario per la “nuova” classe lavoratrice

    In un certo senso, il filo della “memoria storica” è stato reciso. Anche se le commemorazioni rituali continuano a evocare, legittimamente, quel “glorioso sciopero”. Mezzo secolo dopo, la classe operaia è molto diversa, non solo per ragioni generazionali.

    La “coscienza di classe” ha lasciato il posto all’“identità nazionale” in una società in cui i principali attori politici, di tutti i partiti del sistema, si riconoscono come “avversari ma non nemici”. Il Frente Amplio si è riciclato nel “campo progressista” e ha governato per 15 anni. Il “cambiamento possibile” ha tenuto sotto chiave qualsiasi idea di orizzonte anticapitalista. Ora, la “lotta di classe” può svolgersi, senza antagonismi radicali, nel quadro di un’indissolubile “convivenza democratica” che si attiene rigorosamente al rito del “Mai più”.

    Martedì 27 giugno 2023, il PIT-CNT ha indetto uno “Sciopero Generale Parziale” tra le 9.00 e le 13.00 e una marcia dalla raffineria ANCAP (compagnia petrolifera statale) alla sede della Federazione del Vetro, il luogo in cui nel 1973 la CNT decise di iniziare lo Sciopero Generale, nell’emblematico quartiere operaio di La Teja. Come omaggio ai combattenti contro il colpo di stato. Diverse centinaia di manifestanti accompagnarono l’appello.

    Nel frattempo, come in tutti gli “scioperi generali parziali” decretati dall’apparato sindacale, la maggior parte dei salariati, più del 60%, è andata al lavoro. Hanno rispettato il loro orario giornaliero. In altre parole, non hanno preso le quattro ore libere per ricordare. Anche i sindacati dei trasporti non si sono paralizzati, anche se questa volta hanno “aderito” all’appello.

    In ogni caso, gran parte dei lavoratori ha seguito con attenzione l’intensa copertura mediatica delle commemorazioni. Molti di loro si sono emozionati. In mezzo, naturalmente, alla precarietà del lavoro e dei salari e alla massiccia povertà imposta dalle “moderne” forme di sfruttamento capitalistico. Che non considerano produttivo il tempo perso a memorizzare formidabili esperienze di lotte collettive. Queste sono, inoltre, irripetibili.


    Il crollo dei trasporti

    Estratto dal libro Las historias que no nos contaron. 1973: Golpe de Estado y Huelga General, di Víctor L. Bachetta. A cura di Sitios de la Memoria Uruguay, 2023.

    Perché gli autobus della capitale non sono stati distribuiti nelle fabbriche occupate? O, in alternativa, perché non sono state rimosse le parti del motore dagli autobus, che avrebbero impedito di utilizzarli senza danneggiarli? Queste domande non trovarono risposta all’epoca e potrebbero spiegare perché i trasporti non svolsero il ruolo che avrebbero dovuto avere nello sciopero generale.

    Una delle spiegazioni accettate 20 anni dopo gli eventi può essere molto semplice, ma ha avuto un impatto molto importante. Héctor Bentancurt, il principale leader del sindacato AMDET (il sistema di trasporto urbano municipale di Montevideo, che non esiste più da decenni) e della Federazione dei Lavoratori dei Trasporti (FOT), fu preso dal panico e scomparve dalla scena, lasciando l’organizzazione alla deriva. Il fatto che ciò sia avvenuto indica che le relazioni all’interno di quel sindacato erano totalmente verticali.

    Secondo uno dei presenti, Bentancurt era presente alla riunione nella sede del Partito Comunista la notte del 26 giugno, quando Gerardo Cuesta (metalmeccanico) riferì dell’imminenza del colpo di stato e sollevò la determinazione di organizzare lo sciopero generale previsto dalla CNT. Quando la breve riunione finì e la maggioranza se ne andò al proprio sindacato, Bentancurt non riuscì a decidersi a lasciare la sede.

    “Cosa faccio adesso?”, disse Bentancurt, seduto con la testa tra le mani e piangendo, secondo il racconto di un altro dei presenti alla riunione. “Vai e fai il tuo dovere”, avrebbe risposto uno dei suoi compagni comunisti. Bentancurt se ne andò, ma non si sa dove andò, e nei giorni successivi fu impossibile trovarlo, sia nel sindacato che nei luoghi di lavoro dove era stato deciso lo sciopero.

    Ignacio Huguet (Partito Socialista), segretario del COT (Congreso Obrero Textil) e membro del Comando della CNT, ha incontrato Bentancurt per strada sabato 30 giugno, nei pressi dell’Avenida General Flores. Secondo il leader tessile, Bentancurt gli ha detto che stava cercando il Comando della CNT per riferire che lo sciopero dei trasporti era insostenibile.

    Un uomo scomparso e un sindacato crollato? Ebbene, sì, all’epoca questo era possibile. C’erano molti sindacati che dipendevano dalla presenza di uno, due o tre leader, senza strutture intermedie e di base in grado di supplire all’assenza di un leader. Questo verticismo si verificava più frequentemente nei sindacati che seguivano le linee guida del Partito Comunista.

    Tuttavia, non è questa l’intera spiegazione di ciò che accadde in quel settore durante lo sciopero generale. Il Comando dello sciopero della CNT e del PCU ha tentato di recuperare l’interruzione dei trasporti e ha chiamato Salvador Escobar, un vecchio dirigente sindacale dell’AMDET (azienda di trasporto urbano del Comune di Montevideo), che era stato assegnato a compiti interni al Partito.

    Escobar ha raccontato che domenica 1° luglio gli è stata affidata la missione di ripristinare lo sciopero all’AMDET. “Bentancurt aveva iniziato a dare l’orientamento per tornare al lavoro”, ha spiegato l’ex dirigente sindacale. Da un bar vicino alle officine AMDET, Escobar è riuscito a raggruppare i lavoratori lunedì e a raggiungere un accordo per paralizzare le unità martedì in tutte le stazioni, ma era convinto che lo sciopero non potesse andare oltre se il sindacato doveva rimanere unito.

    “Se i blu (le unità AMDET) si fermano, lo sciopero è assicurato”, era lo slogan che definiva le condizioni di lotta in tutto il sindacato. Per Escobar, la risposta dei trasporti era stata data nei fondamentali. “La classe operaia da sola non può farcela, diventeremo sempre più deboli”, era la loro posizione. Ma Escobar ha sottolineato che il comando della CNT è stato consultato e ha approvato la fine dello sciopero in AMDET.

    “Quello che è successo in AMDET è stata una sorpresa. La responsabilità non è solo di Bentancurt, sarebbe una spiegazione troppo facile”, ha commentato Mario Plasencia, segretario generale dell’Organización Obrera del Ómnibus (Tres O), il sindacato di CUTCSA (la principale azienda privata di trasporto urbano e suburbano fino ad oggi), che risponde alla CNT. La situazione nella CUTCSA era complessa, perché esisteva il Sindicato Autónomo del Ómnibus (SAO), con un peso simile a quello del Tres O, e c’erano 1.600 lavoratori-proprietari, a causa dell’organizzazione cooperativa dell’azienda.

    “L’appropriazione di un bene privato non è mai stata presa in considerazione. Il trattenimento delle unità ha significato un conflitto con i padroni”, ha risposto Plasencia quando gli è stato chiesto della dispersione o della rimozione di una parte degli autobus per evitare che uscissero in strada. I lavoratori che hanno occupato gli uffici, le officine e il parcheggio più grande della CUTCSA sono stati sgomberati sabato 30 e non hanno potuto rioccupare, perché i militari hanno lasciato una guardia permanente sul posto.

    “I padroni non hanno agito come in un conflitto interno, hanno rispettato l’atteggiamento dei lavoratori in difesa delle istituzioni, ma non si sarebbero comunque fermati”, ha spiegato il leader dei Tre O. Dopo i decreti repressivi del 4 luglio e i “plebisciti” organizzati dai militari, il sindacato autonomo è tornato al lavoro. I Tre O hanno continuato a scioperare fino alla decisione della CNT di revocare lo sciopero, ma rappresentavano un quarto del personale dell’azienda.

    “Le informazioni che avevamo nella CNT sul livello di organizzazione dei trasporti erano false. Forse per un conflitto di protesta avrebbe funzionato, ma nello sciopero generale era rapidamente crollata”, ha spiegato Luis Iguiní (leader della Confederazione dei Funzionari di Stato, membro del Partito Comunista), allora membro della segreteria della CNT. Salvador Escobar, che a un certo punto fu coinvolto in questo episodio, si rammaricava che nel movimento sindacale non fosse stata aperta alcuna istanza per analizzare ciò che era accaduto nel settore dei trasporti durante lo sciopero generale.

    Diversi sindacati hanno proposto al Comando dello sciopero di dare fuoco agli autobus usciti in strada. Con diverse migliaia di attivisti determinati, la misura era perfettamente realizzabile, ma la CNT naturalmente respinse la proposta. Sia perché aveva appoggiato il ritorno al lavoro nel sindacato AMDET, sia perché non la riteneva una misura conflittuale adeguata. Le tendenze più radicali cercarono di metterla in pratica, ma non avevano capacità sufficienti.

    Nella fabbrica tessile La Aurora, durante l’assemblea per la conclusione dello sciopero generale, il leader Juan Ángel Toledo (Partito Comunista) ha affermato che, quando si sarà tracciato un bilancio di quanto accaduto, ai dirigenti dei trasporti dovrà essere data “una medaglia di merda”. Toledo ha raccontato che i suoi ex compagni comunisti lo hanno denunciato alla direzione del partito per questo atteggiamento. A quei tempi non era permesso criticare pubblicamente un compagno, per quanto avesse sbagliato.

  • Un dilemma dalle banlieue della Francia al mondo

    Un dilemma dalle banlieue della Francia al mondo

    Tra i “giovani barbari” delle periferie e la vera barbarie del capitalismo

    di Yorgos Mitralias

    Ovviamente, i danni materiali, ambientali, umani e di altro tipo attualmente causati dalle guerre imperialiste (ad esempio in Ucraina) o dalle guerre civili (ad esempio in Sudan) sono incomparabilmente maggiori di quelli causati durante le recenti “rivolte” popolari in Francia o quelle a Londra nel 2011 o quelle negli Stati Uniti tre anni fa.

    Nel XXI secolo, come nel XX secolo e nelle sue due guerre mondiali, la barbarie ha sempre avuto un volto, quello del capitalismo in tutte le sue forme, varianti e manifestazioni.

    Ciò non impedisce che tutte queste “rivolte” popolari, che tendono a diffondersi in Europa e nel resto del mondo, si caratterizzino per la loro violenza – spesso indiscriminata – che fa sì che i benpensanti di tutte le parti, governi, estrema destra e poliziotti in particolare, possano accusarle di… barbarie.

    È così che i giovani ribelli delle periferie francesi vengono allegramente dipinti come “giovani barbari”, il che peraltro “giustifica” gli appelli all’omicidio da parte dell’estrema destra e di altri sindacati di polizia che non esitano a descrivere questi giovani come “guastatori” da sterminare.

    In primo luogo, va detto che la descrizione di questi giovani ribelli provenienti dalle periferie trascurate delle nostre metropoli come “barbari” colpisce e viene adottata da una parte più che apprezzabile della popolazione. In secondo luogo, questa parte della popolazione dei nostri paesi comprende una parte significativa delle persone sfruttate, povere, oppresse e razzializzate in basso, persone che vivono accanto ai “giovani barbari”, che sono i loro vicini e persino i loro genitori. Conclusione: il problema esiste e richiede urgentemente risposte chiare e convincenti.

    Ma se abbiamo a che fare con dei “barbari”, la domanda logica da porsi è come siamo finiti in una simile catastrofe. E chi è il responsabile? La risposta è ovvia: la proliferazione di queste “rivolte” in quasi tutto il mondo, la loro tendenza a diffondersi al di là delle periferie disagiate, la loro frequenza sempre maggiore, e soprattutto la partecipazione sempre più massiccia della popolazione, significano che non si tratta di esplosioni di rabbia dovute agli impulsi (auto)distruttivi dei loro autori, o di rivolte isolate legate alle particolarità di questo o quel paese, o all’origine etnica o alla religione dei loro partecipanti.

    In realtà, abbiamo a che fare con un fenomeno di massa davvero pervasivo, tipico delle nostre società sempre più diseguali e violente nell’era delle politiche neoliberiste, degli stati di polizia e dei domani da incubo.

    Quindi, se si tratta di un fenomeno di massa internazionale, tutto cambia. E di conseguenza, quelli che la destra descrive come “giovani barbari” non possono più essere considerati come un fugace ed effimero incidente della storia, ma un fenomeno che è destinato non solo a mostrarsi, ma a svilupparsi fino a influenzare seriamente la nostra vita quotidiana.

    In breve, se sono coerenti con se stessi, i detrattori di questi “giovani barbari” dovrebbero trarre la conclusione che la più grande minaccia per le nostre società e il nostro mondo sarebbe la… barbarie incarnata da questi “giovani barbari”!

    Questa visione del nostro futuro non è del tutto impressionistica e priva di verità. Le nostre società, trasformate in giungle dove regna il caos e tutti combattono tutti in un’atmosfera di estrema violenza generalizzata, non sono solo uno scenario fantascientifico alla Mad Max.

    Potrebbero benissimo verificarsi se la crisi attuale continuerà a peggiorare. Cioè, se i “giovani barbari” continueranno a essere non solo ferocemente controllati e repressi, ma anche sempre più colpiti.

    E se le loro condizioni di vita continueranno a peggiorare, se lo stato capitalista sempre più autoritario – della borghesia impaurita – che li ha trattati a lungo come cittadini di seconda classe, deciderà di dichiarare loro guerra, come già chiede la Santa Alleanza tra polizia, estrema destra e una parte crescente della destra tradizionale.

    Quindi, se esiste una cosa come la “barbarie”, sono la borghesia regnante, i suoi governanti e le loro politiche capitalistiche che non solo l’hanno inventata, ma anche e soprattutto creata.

    E va detto che i “giovani barbari” non sono solo il prodotto automatico delle loro politiche neoliberiste, che emarginano intere fasce di popolazione delle nostre società, ma anche il risultato voluto di politiche volte a escludere e a sottoproletarizzare quelle che sono le “classi pericolose” del nostro tempo, cioè una certa gioventù delle periferie, che lo stato borghese teme e vuole “neutralizzare” a tutti i costi.

    Tuttavia, il successo dell’operazione di “neutralizzazione” di questi giovani delle periferie sembra più che contraddittorio. Sì, questi giovani sono ghettizzati e quindi isolati dal resto della popolazione. Sì, sono tagliati fuori dalla sinistra e dai sindacati, e quindi mancano di sostegno, di alleanze e di espressione politica per la loro rabbia. Sì, sono confusi nelle loro idee e confusi nelle loro azioni, sono depoliticizzati e mancano di organizzazione. Ma questo significa che sono innocui per coloro che fanno di tutto per combatterli?

    Ovviamente no. La preoccupazione, se non la paura, che le “rivolte” di questi giovani suscitano in loro è evidente, come dimostrano le misure straordinarie e gli altri stati di eccezione che adottano per reprimerle.

    Insomma, la nostra borghesia e i suoi curatori politici si trovano ora nella trappola del loro stesso machiavellismo: come il buon… dottor Frankenstein, vedono la loro creatura radicalizzarsi, diventare sempre più incontrollabile e persino potenzialmente pericolosa per i loro interessi.

    Ma attenzione: questi giovani ribelli di periferia sono, per il momento, solo “potenzialmente pericolosi” per i loro superiori. Ma perché?

    Perché, più della discriminazione razzista, più della peggiore povertà e più della più feroce repressione, è la mancanza di un progetto unificante con obiettivi chiari e precisi, nonché l’assenza di un sostegno politico di massa, a spingere questi giovani ribelli alla disperazione di una violenza cieca e persino autodistruttiva.

    In altre parole, ciò che manca a questi giovani radicalizzati per diventare veramente pericolosi per chi sta sopra di loro non è una loro responsabilità. È responsabilità delle forze politiche di sinistra, dei sindacati e delle associazioni, insomma di tutti coloro che non si accontentano di questo mondo mostruoso.

    Va da sé che queste forze di sinistra devono recuperare al più presto e impegnarsi anima e corpo nell’opera di solidarietà attiva con i rivoltosi delle periferie, per stringere con loro stabili legami organici e militanti. I progressi saranno enormi per entrambe le parti…

    Tuttavia, dobbiamo ammettere l’ovvio: il pericolo che le nostre società si trasformino gradualmente in “giungle dove regna il caos e tutti combattono tutti in un’atmosfera di estrema violenza generalizzata” è molto reale.

    E la minaccia che le nostre società, e l’intera umanità, ricadano in una barbarie – questa volta reale – diventerà inevitabilmente più grande e diretta fino a quando non avremo un nuovo progetto e messaggio messianico umanista e comunista in grado di ispirare e mobilitare le masse, compresi i giovani delle periferie, ovunque nel nostro mondo.

    E per dirla senza mezzi termini, lo spettro della barbarie diffusa continuerà a incombere sull’umanità finché il dilemma (eco)socialismo o barbarie non sarà risolto una volta per tutte a favore dell’ecosocialismo. Né più né meno…

    .

  • Francia, Nahel aveva il diritto di vivere

    Francia, Nahel aveva il diritto di vivere

    Intorno alle 8 di martedì mattina, il diciassettenne Nahel è stato vigliaccamente ucciso da un agente di polizia a Nanterre, alla periferia di Parigi.

    Si è trattato dell’ennesimo cosiddetto “rifiuto di obbedire”, che avrebbe giustificato l’ennesima cosiddetta “autodifesa”.

    Noi, il Fronte delle madri, denunciamo questa esecuzione e ci uniamo al dolore della famiglia. Oggi tutti noi abbiamo perso un figlio!

    Negli ultimi mesi si è assistito a un aumento della violenza e dei crimini razziali contro i giovani nei quartieri popolari, senza che venisse intrapresa alcuna azione di risposta o che gli agenti di polizia coinvolti si preoccupassero anche solo lontanamente.

    Il rispetto della legge non si applica quando si tratta dei nostri figli. I discorsi di odio e il clima di fascistizzazione sono i principali responsabili di questo disastro.

    Come possiamo continuare a vivere in un paese che discrimina, esclude e maltratta i giovani perché non sono bianchi o musulmani?

    Come possiamo descrivere un paese in cui la polizia uccide impunemente?
    I nostri figli non sono più al sicuro da una polizia razzista.

    I media mainstream propagandisti, che giustificano questi crimini evocando una storia di delinquenza, svolgono un ruolo importante in questo clima velenoso.

    Questa violenza sistemica da parte della polizia è durata troppo a lungo!

    È necessario adottare misure politiche strutturali!

    I nostri figli hanno il diritto di vivere e muoversi liberamente negli spazi pubblici!

    Le esecuzioni devono cessare!

    Riposa in pace piccolo Nahel. Condoglianze alla famiglia. Sosteniamo i suoi cari nella loro ricerca di verità e giustizia.

  • Appello globale a sostegno dei Soulèvements de la Terre

    Appello globale a sostegno dei Soulèvements de la Terre

    Ciò che ricresce ovunque non può essere dissolto

    Contro la criminalizzazione dei Soulèvements de la Terre in Francia, un appello per azioni di solidarietà ovunque nei nostri territori !

    In Francia, il governo di Macron ha appena compiuto un passo senza precedenti nella repressione del movimento sociale ed ecologista. 

    Il 21 giugno, il governo ha decretato lo scioglimento del movimento Soulèvements de la Terre, che rivendica oltre 140.000 sostenitori e più di 150 comitati locali. La dissoluzione è stata accompagnata da due ondate inedite di arresti di decine di attivistə ecologistə in tutta la Francia, il 5 e il 20 giugno, da parte di agenti di polizia della Sottodirezione antiterrorismo (SDAT). 

    Finora, 2 persone sono state imprigionate e decine sono state gravemente ferite dalla polizia durante le manifestazioni degli ultimi mesi.

    Da due anni in Francia, i Soulèvements de la Terre hanno dato nuova forza alla lotta ecologista costruendo un movimento multiforme composto da sindacati di agricoltori, associazioni ambientaliste, attivistə e abitanti di tutte le età e di tutti i ceti sociali.

    Blocchi dei cantieri, manifestazioni di massa, occupazioni di terre, azioni legali, disarmo di industrie criminali come la multinazionale Lafarge… 

    Gli attivisti di Soulèvements de la Terre adottano una varietà di tattiche e agiscono in prima persona, a partire dai loro territori, per costruire mondi abitabili e porre fine, con tutte le loro forze, all’accaparramento di terra e acqua da parte dell’agrobusiness, alla cementificazione dei suoli, alle devastazioni ecocide dell’industria chimica e alla distruzione degli esseri viventi.

    Il governo francese, che ha imposto con la forza una riforma pensionistica antisociale, cerca oggi di dissolvere questo movimento in crescita, che ha già iniziato a creare legami in Europa e altrove.

    In Francia come in Uganda, in Colombia come in Chiapas, nel Regno Unito come in Brasile, in Libano come in India o in Rojava, e ovunque, la resistenza dei movimenti ecologisti e sociali e i mondi che stanno costruendo stanno provocando una violenta risposta autoritaria, che distrugge vite in nome del potere e del profitto. 

    Questa corsa autoritaria, patriarcale e neocoloniale ci sta portando verso un futuro mortale di caos climatico, militarizzazione, pandemie, controllo tecnologico e migrazioni di massa.

    Per il governo francese, questa repressione e questa messa fuori legge dovrebbero segnare l’arresto della crescente potenza di una rivolta logica per la riappropriazione delle nostre vite, la nostra terra e i beni comuni. 

    E se questa dissoluzione diventasse, suo malgrado, una chiamata a rafforzare un grande movimento di resistenza internazionale? 

    Un invito a far risuonare la nostra solidarietà al di là delle frontiere, a dare nuovo adito alle numerose rivolte in tutto il mondo?

    Un invito a costruire nuove alleanze globali “dal basso”, secondo la scala dei nostri corpi e dei nostri territori, in difesa della terra e della vita contro le predazioni capitaliste e imperialiste degli stati-nazione e delle multinazionali?

    Insieme, nei giorni e nelle settimane a venire, chiediamo di moltiplicare i gesti di solidarietà, per dimostrare che ciò che sta crescendo ovunque non può essere dissolto! 

    Proponiamo di continuare a dare visibilità ai Soulèvements de la Terre nello spazio pubblico, nei nostri territori in tutto il mondo: davanti ai centri sociali, attraverso scritte sui muri, all’interno delle nostre lotte e dei nostri territori, attraverso striscioni e feste, presidi e azioni dirette, e qualsiasi altra azione adatta ai nostri contesti.

    Per delle sollevazioni delle terre intermondiali e in solidarietà con tuttə coloro che nel mondo affrontano la repressione, noi, collettivi di lotta e organizzazioni di diversi paesi, chiamiamo a manifestare tutta la nostra solidarietà mercoledì 28 giugno (o nei giorni successivi, a seconda del contesto) in diversi modi. 

    Decine di manifestazioni contro la criminalizzazione si terranno ovunque in Francia, Austria, Belgio, Germania, Catalogna… e altri territori seguiranno!

    Non si può dissolvere una rivolta!

    Informazioni pratiche per diffondere il vostro evento:

    Se state organizzando un’azione nella vostra zona, vi preghiamo di registrarla su questo modulo qui. Se la scadenza del 28 giugno vi sembra troppo ravvicinata, è anche possibile organizzare azioni in un altro momento nei prossimi giorni.

    Inviate le foto dei vostri gesti di solidarietà al seguente indirizzo mail: we-cant-get-no-dissolution@immerda.ch.

    Qui la mappa delle manifestazioni.

    Questo testo è aperto alla firma di singoli, gruppi e organizzazioni fino al 10 luglio.

    Compilare il modulo di firma qui.

    Hanno finora aderito:

    • Grondements des Terres Suisse
    • amicale intergalactique des soulévements de la terre France
    • Climáximo Portugal
    • Interventionistische Linke Allemagne
    • Centre sociaux Est d’Italie
    • Rise Up 4 climate justice Italie
    • Venice Climate Camp Italie
    • Freundeskreis Sternbrücke Allemagne
    • Lützerath lebt ! Allemagne
    • Soulèvements de la Terre Bruxelles
    • Bure Solikomittee Dreyeckland Allemagne
    • Zusammen Kämpfen Allemagne
    • Solidaritäts Service Team Hamburg
    • Free svydovets group Ukraine
    • Coalition Code Rouge Belgique
    • L’Agora des Habitant.e.s de la Terre
    • Café Libertad Allemagne
    • Buzuruna Juzuruna Liban
    • Ecologia politica Network Italie
    • Climate Social Camp Italie
    • Acteurs.ice.s des temps présents
    • Associazione Rurale Italiana, Italie
    • Movimento NOTAV (Italie)
    • CRID (France)
    • Movimento dos Atingidos por Barragens (MAB) (Brazil)
    • Tools for Action (Netherlands)
    • Re-set : platform for socio-ecological transformation (Czech Republic)
    • Interventionistische Linke [iL] (Germany)
    • Limity jsme my/We are the limits ! (Czech Republic)
    • Aseed europe (Netherlands)
    • Anarchist Solidarity Hamburg (Germany)
    • Levice / The Left (Czech Republic)
    • Studio JL (Belgium)
    • SolidaritéS (Switzerland)
    • RisingTideUK (UK)
    • Bakers food and allied workers union (UK)
    • Colectivo Propalando (Portugal)
    • Ill Will (USA)
    • Ateneo libertario Xose Tarrio (Espana)
    • World Congress for Climate Justice – wccj.online (Milano, 12-15 October) (Italy)
    • Lucy Parsons knife and gun club (So called USA)
    • Raksha.ch (Switzerland)
    • Global Justice Now (UK)
    • La Graine Solidaire(France)
    • Stay Grounded (International)
    • GRAIN (International)
    • Ecologistas en Acción (Spain)
    • Entrepueblos-Entrepobles-Herriarte-Entrepobos (Spain)
    • El Punt. Espai de lliure aprenentatge. (Spain)
    • Vall de Can Masdeu (Spain)
    • Ruralitzem-Veus per la sobirania alimentària (Spain)
    • cBalance Solutions Pvt. Ltd (India)
    • Attac Liège (Belgium)
    • Les DoMineurs (Belgium)
    • La Bruguera de Pubol (Spain)
    • Horteras Ca la Dona Barcelona (Spain)
    • Red de información y Acción Ambiental de Veracruz (Mexico)
    • Working group Food Justice (Netherlands)
    • Forsvara Blodstensskogen (Sweden)
    • Ingénieurs Sans Frontières (France)
    • Rise for Climate Luxembourg
    • ClimAcció (Spain)
    • Gastivist Collective (Europe)
    • Sindicato STEILAS (Bask Country)
    • Extcintion Rebellion Limoges (France)
    • Collettivo redazionale del sito rosarossaonline.it (Italie)
    • Revista Soberanía Alimentaria, Biodiversidad y Culturas (Spain)
    • Igapo Project (France)
    • Nieczytelne/Illegibles (Poland)
    • Colectivo Memoria Viva de los Pueblos (Spain)
    • África en el corazón (Spain)
    • Arabako Mendiak Aske (Bask Country)
    • Pakistan Fishefolk Forum (Pakistan)
    • IIPM – International Institute of Political Murder (Germany)
    • Juntes fem caliu (Spain)
    • Per L’Horta (Spain)
    • Degrowth Movement – Projet de Décroissance (France / Hongrie)
    • France Insoumise Rome (Italie)
    • Comunitat UJIxPlaneta (Spain)