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  • Serbia e Kosovo, instabilità locale e internazionale

    Serbia e Kosovo, instabilità locale e internazionale

    di Catherine Samary, da L’Anticapitaliste

    Le priorità geopolitiche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea impongono loro di criticare le iniziative dei leader albanesi del Kosovo, che stanno fomentando rivolte nei comuni a maggioranza serba, scontrandosi con il dispiegamento delle forze Nato (KFOR). Questa è una manna dal cielo per il leader autocrate della Serbia, Aleksandar Vučić, che ha stretti legami con Putin… in un momento in cui, da un mese a questa parte, sta affrontando una grande rivolta popolare all’interno del suo paese, in particolare dopo le sparatorie nelle scuole all’inizio di maggio.

    Da quando il parlamento del Kosovo ha votato per l’indipendenza nel 2008 (anche se alcuni stati membri dell’ONU, tra cui la Russia, e cinque stati dell’UE non hanno riconosciuto il nuovo stato perché Belgrado non lo ha riconosciuto), gli accordi duramente negoziati dall’UE dal 2011 sembravano essere giunti a una conclusione positiva lo scorso marzo.

    Essi miravano al riconoscimento da parte di Pristina di una “Associazione dei Comuni a maggioranza serba del Kosovo”, in cambio del rispetto da parte di Belgrado dell’integrità dei confini kosovari e della partecipazione del Kosovo a organismi e negoziati internazionali.

    L’applicazione pratica dell’accordo è fallita e ha portato alle dimissioni di massa delle autorità dei comuni a maggioranza serba. L’ostilità di Albin Kurti (il leader kosovaro dell’organizzazione “Autodeterminazione” salito al potere con una forte maggioranza e un programma di sinistra eletto nel 2021. Vedi il dossier Inprecor) nei confronti di qualsiasi status autonomo per questi comuni, lo ha portato ad accendere la miccia: ha deciso di organizzare elezioni locali e di riconoscere i sindaci nonostante il boicottaggio indetto dalla lista serba e seguito in massa dalla popolazione.

    È lo spettro della Republika Srpska “entità serba” della Bosnia-Erzegovina (B&H), nata dagli accordi di Dayton (del 1996), a perseguitare i leader del Kosovo – così come quelli di Kiev, con sullo sfondo lo stallo degli “accordi di Minsk” sul Donbass dopo il 2014.

    Da Dayton e dalla Republika Srpska al Kosovo

    Ponendo fine a tre anni di smembramento etnico della Bosnia-Erzegovina, gli accordi di Dayton hanno lasciato quel paese in una situazione di pseudo-“sovranità” (all’interno dei suoi confini) ma permanentemente diviso in “entità” etnicamente ripulite, dominate da forze nazionaliste serbo-bosniache e croato-bosniache che minacciano regolarmente la secessione nei paesi vicini.

    Sponsorizzati da Washington, questi accordi erano stati co-firmati da Izetbegović (che si trovò legittimato come presidente) e da Milošević, leader della Serbia, e Tudjman, leader della Croazia, autorizzati a parlare in nome dei “serbi” e dei “croati” e a gestire gli affari “interni” dei loro paesi (rispettivamente il controllo del Kosovo e l’espulsione di centinaia di migliaia di serbi dalla Krajina croata).

    Fu questa consapevolezza che, nel 1996, spinse una parte degli albanesi del Kosovo a passare alla lotta armata dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) per l’indipendenza, rompendo con la lotta pacifista condotta fino ad allora da Ibrahim Rugova e dalla LDK (Lega Democratica del Kosovo).

    L’UCK è cresciuta in popolarità mentre Belgrado la reprimeva, trattandola come “terrorista”, così come gli Stati Uniti e l’UE. L’UE, emarginata a Dayton, sperava in un successo diplomatico con la sua “politica estera” nei negoziati sullo status del Kosovo a Rambouillet nel 1999, sperando in un accordo con Milošević, come aveva fatto a Dayton.

    La presunta sovranità del Kosovo

    Se non fosse che, notando la popolarità dell’UCK in loco, gli Stati Uniti decisero di renderli alleati della NATO (per ottenere una base militare nel cuore dei Balcani e contrastare un’eventuale azione “autonoma” dell’UE). Lungi dal capitolare e dall’essere indebolito, Milošević si trovò consolidato, con grande disappunto della sua opposizione liberale (che dominava in tutte le principali città).

    Il fiasco militare e politico della NATO, in assenza di un mandato ONU, in quella che si è trasformata in una guerra di tre mesi, ha portato l’Alleanza sull’orlo del collasso alla vigilia del suo 50° anniversario, che avrebbe potuto portare alla sua dissoluzione.

    La via d’uscita dalla crisi richiedeva la rapida reintegrazione delle Nazioni Unite nei negoziati della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza.

    Lontano dalle presentazioni mitiche dello scenario di questa guerra, è la Serbia che (ancora oggi) rivendica la paternità di questa risoluzione 1244 (votata dalla Russia!) e non gli albanesi – esclusi dai negoziati.

    Il protettorato dell’ONU (poi dell’UE) introdotto all’epoca, sostenuto dalla forza militare della NATO (KFOR), ha certamente protetto il rapido ritorno degli albanesi fuggiti dalla guerra, ma ha mantenuto il Kosovo come una “provincia” all’interno dei “confini della Jugoslavia” – o di ciò che ne rimaneva fino a quando il Montenegro se ne è andato nel 2006…

    La cosiddetta “indipendenza” è stata votata dal parlamento (e ratificata da un voto popolare) nel 2008, con una forte cornice fornita dagli sponsor che ne hanno redatto le condizioni.

    La forza di polizia del Kosovo avrebbe dovuto sostituire la KFOR della NATO, a dimostrazione di una presunta sovranità, ma in realtà di una neocolonizzazione economica del Kosovo.

    Priorità di realpolitik o “pace giusta e duratura”?

    La vicina Serbia continua a minacciare e sfruttare le minoranze serbe in Bosni-Erzegovina e in Kosovo. Ma la Serbia non è la Russia. E il fascino dell’UE è forte nei Balcani, nonostante i crescenti dubbi sulle aperture pratiche.

    Dopo aver inizialmente rifiutato la NATO e l’UE, l’attuale governo serbo sta giocando tutti i giochi, compresa la richiesta di adesione all’UE e la partecipazione a manovre militari con la NATO o la Russia. I media sono imbavagliati e Aleksandar Vučić tiene il paese con il pugno di ferro, mobilitando l’estrema destra a sostegno dei serbi del Kosovo, aiutato e sostenuto dai gesti dei leader dell’UE… e degli Stati Uniti.

    Questi ultimi hanno incolpato Albin Kurti di aver mandato a monte l’accordo negoziato dall’UE e di aver innescato una polveriera. La prima sanzione annunciata da Washington è stata la cancellazione della partecipazione del Kosovo all’esercitazione militare Defender Europe 2023 e la fine della campagna internazionale per il suo riconoscimento.

    Il ritorno della KFOR in sostituzione della polizia kosovara (rifiutata dai serbi) “è un brutto segnale”, afferma Belgzim Kamberi dell’Istituto Musine Kokalari, un centro di analisi socialdemocratico di Pristina. “Significa che la sovranità del Kosovo sul nord è ancora illusoria, poiché l’area è ora direttamente sotto il controllo della NATO”. Allo stesso modo, i leader dell’UE hanno chiesto nuove elezioni e il riconoscimento dell’“Associazione dei comuni a maggioranza serba” come condizione per l’“integrazione europea”.

    Solo che, come nel caso di Kiev, questa sta assumendo la forma della nuova “Comunità politica europea”, una sorta di “sala d’attesa” senza politiche in grado di offrire un quadro egualitario e progressista alle popolazioni interessate. Siamo molto lontani dalle condizioni per una pace giusta e duratura.

  • Rakovskij, Christian Georgievič

    Rakovskij, Christian Georgievič

    Nato in Bulgaria, Christian Rakovsky divenne uno dei principali leader della Rivoluzione russa. Voleva che l’Unione Sovietica diventasse un vero partenariato tra la Russia e le nazioni oppresse dell’ex Impero zarista. Ma quando Rakovsky sfidò la dittatura di Stalin, fu processato e giustiziato con accuse inventate.

    È quasi impossibile concepire che l’ascesa e il declino del movimento marxista internazionale nella prima metà del XX secolo possano essere racchiusi nel destino di un singolo individuo. Eppure la vita di Christian Georgievich Rakovsky (1873-1941) illustra, quasi come nessun’altra, un’intera generazione di intellettuali di sinistra che si impegnarono nei movimenti operai socialisti europei: un impegno incrollabile che definì le loro vite dall’inizio alla fine.

    Rakovsky fu cancellato dalla storia dal suo carnefice, Joseph Stalin. Ma possiamo ripercorrere il dramma degli sconvolgimenti che travolsero l’Eurasia in quei decenni attraverso l’arco della sua vita: studente, attivista sindacale e contro la guerra, giornalista politico, autore prolifico in molte lingue, medico, leader bolscevico, capo del giovane stato ucraino, leader dell’Armata Rossa, diplomatico sovietico, antifascista e antistalinista.

    La questione balcanica

    Bulgaro di nascita, Rakovsky proveniva da una famiglia relativamente ricca che, negli anni Sessanta del XIX secolo, si batté attivamente per l’indipendenza della Bulgaria dall’Impero Ottomano. In quei tempi difficili, la “questione nazionale” e le questioni sociali plasmarono il suo pensiero. La sua politicizzazione lo portò a essere escluso dall’istruzione bulgara all’età di quindici anni per aver guidato una manifestazione studentesca. Da quel momento in poi, la sua formazione e il suo impegno politico divennero sempre più multinazionali.

    Dal 1889 fu attivo nei movimenti socialdemocratici in Bulgaria e Romania. Nel 1891 lasciò la Bulgaria per Ginevra, patria degli emigrati politici di sinistra, dove si unì a un circolo di studenti socialisti e pubblicò sulla rivista bulgara Social-Demokrat. Si iscrive alla facoltà di medicina e conosce figure marxiste come Friedrich Engels, Georgi Plekhanov e Rosa Luxemburg.

    Divenne presto un giornalista prolifico e un energico attivista politico. Nel 1893 organizzò il Secondo Congresso Internazionale degli Studenti Socialisti e rappresentò la Bulgaria al Congresso Internazionale Socialista di Zurigo. Tre anni dopo, fu delegato al Quarto Congresso della Seconda Internazionale, tenutosi a Londra. Questo incontro fu segnato da accese controversie, in particolare tra Lenin e Luxemburg sulla questione dell’autodeterminazione nazionale.

    Il giovane Rakovsky si distinse come studente di medicina. Si laureò all’Università di Montpellier nel 1897 con una tesi provocatoria e molto apprezzata, che sosteneva un approccio socio-economico alle “cause della criminalità e della degenerazione” piuttosto che un approccio antropologico e atavico. Ma la sua vera vocazione non era la medicina, che praticò per soli sei mesi nell’esercito rumeno, bensì la politica, e una politica rischiosa.

    Nel 1899 fu costretto a fuggire dalla San Pietroburgo zarista per evitare l’arresto dopo aver parlato dei dibattiti tra i populisti russi, che vedevano nella tradizionale comune contadina un veicolo per la rivoluzione, e i marxisti, che guardavano alla classe operaia, come lui stesso. Un anno dopo, dopo essere stato nuovamente espulso dalla capitale russa per commenti “infiammatori”, si recò a Parigi per partecipare al Congresso socialista internazionale.

    Lì strinse amicizia con i socialdemocratici bulgari e serbi, che rappresentò al Congresso della Seconda Internazionale di Amsterdam nel 1904. L’anno successivo partì per la Romania, dove fondò România Muncitoara (“Lavoratori della Romania”), il giornale del Partito socialista rumeno. Allo stesso tempo, guidò una campagna in difesa dei marinai che si erano rifugiati in Romania dopo essersi ammutinati sulla corazzata Potemkin durante la rivoluzione russa del 1905.

    Resistere alla guerra

    La deportazione e l’incarcerazione sono parte integrante del curriculum di Rakovsky. Le autorità rumene lo dichiararono agitatore socialista e lo ritennero responsabile delle rivolte contadine che scossero il paese; nel 1907 fu espulso. Ci vollero cinque anni di campagne di massa a suo favore prima che gli fosse concesso di tornare.

    Gli anni di esilio non furono sprecati per lui.

    Rappresentò i socialisti rumeni ai Congressi di Stoccarda e di Copenaghen e l’Ufficio dell’Internazionale socialista alla prima Conferenza dei partiti socialisti balcanici a Belgrado nel 1911. Non tardò a esprimere le sue convinzioni contro la guerra, denunciando la Prima guerra balcanica (1912-13) come una “guerra di conquista infame e criminale”. Per Rakovsky, l’unica guerra legittima era la guerra di classe.

    La reazione iniziale di Rakovsky allo scoppio della Prima guerra mondiale fu ambigua. Non condannò i socialdemocratici dei paesi belligeranti che votarono per i crediti di guerra. Pur ritenendo che la Serbia, la Francia e il Belgio fossero attaccati dalla Germania e dall’Austria, fece una campagna con i socialdemocratici rumeni a favore della neutralità rumena contro i due partiti concorrenti favorevoli alla guerra: i russofili e i germanofili.

    Tuttavia, l’avvento dell’Union Sacrée in Francia, che vide l’ingresso al governo del veterano socialista Jules Guesde, unito all’influenza delle discussioni con l’amico Leon Trotsky e alle critiche virulente di Lenin, radicalizzarono rapidamente la posizione di Rakovsky. Egli passò dalla neutralità all’opposizione alla guerra imperialista e cominciò a identificarsi con la posizione di Trotsky, che sosteneva “una pace senza indennizzi né annessioni, senza vincitori né vinti”.

    Lenin, tuttavia, chiedeva la “trasformazione della guerra imperialista in una guerra civile”. Condannò l’assenza di lotta per questo obiettivo come un “male kautskiano” opportunista. Le tensioni tra Rakovsky e Lenin furono evidenti alla conferenza antibellica di Zimmerwald, tenutasi dal 5 all’8 settembre 1915, in cui Rakovsky fu uno dei protagonisti.

    Rakovsky sostenne il manifesto finale della conferenza predisposto da Trotsky. Lenin e i delegati della sinistra a Zimmerwald votarono infine a favore di questo documento, che consideravano un passo avanti verso la rottura con l’opportunismo socialdemocratico, nonostante le loro riserve sulla mancanza di analisi dell’opportunismo o di come combattere la guerra.

    Zimmerwald, tuttavia, segnò una vera e propria svolta per Rakovsky, che finalmente ripudiò la Seconda Internazionale a favore di una nuova Internazionale rivoluzionaria. Ora rifiuta l’idea del “difensismo” nazionale. Abbandona l’opposizione indeterminata alla guerra adottata alla Conferenza di Stoccarda della Seconda Internazionale nel 1907, considerando invece la rivoluzione negli stati belligeranti come il mezzo per porre fine al conflitto e cercando di formulare le tattiche necessarie per promuoverla.

    Alla conferenza di Berna del febbraio 1916 dell’esecutivo del movimento di Zimmerwald, Rakovsky si vantò di essere “dalla parte di Lenin”. Condannò categoricamente l’unità nazionale in tempo di guerra, sostenne l’obiettivo di creare una Terza Internazionale che sostituisse la Seconda e sostenne la rivoluzione socialista come mezzo per porre fine alla guerra. Come scriveva un giornale bernese dell’epoca, era “la figura più internazionalista del movimento rivoluzionario europeo”.

    La rivoluzione russa

    Tornato in Romania, Rakovsky fu arrestato nel settembre 1916, un mese dopo l’entrata in guerra dell’esercito rumeno a fianco delle potenze dell’Intesa. La rivoluzione del febbraio 1917 nella Russia imperiale sarà la sua salvezza. Rakovskij fu liberato il 1° maggio 1917 “in nome della rivoluzione russa” da una guarnigione russa di stanza in Romania.

    All’età di quarantaquattro anni si recò immediatamente nella Russia rivoluzionaria e si unì al partito bolscevico di Lenin subito dopo la Rivoluzione d’ottobre. A nome del popolo rumeno, Rakovsky salutò “il trionfo della rivoluzione proletaria e contadina in Russia”. Da parte loro, i bolscevichi accolsero una nuova illustre recluta, il “famoso leader rumeno” e “rinomato internazionalista”.

    La giovane rivoluzione sovietica era minacciata dalle forze tedesche che occupavano l’Ucraina nella primavera del 1918. A Rakovsky fu chiesto di negoziare con Pavlo Skoropadsky, divenuto hetman (leader) dell’Ucraina in seguito a un colpo di stato sostenuto dai tedeschi, per disinnescare eventuali ostilità. La rivoluzione tedesca del novembre 1918 pose fine a questa minaccia immediata.

    Tuttavia, l’esercito tedesco trattenne Rakovsky nel suo nuovo ruolo di emissario dei Soviet panrussi al Congresso dei Consigli degli Operai e dei Soldati di Berlino. Dopo il suo rilascio, Lenin affidò a Rakovsky un ruolo ancora più difficile, quello di leader bolscevico in Ucraina, che era diventata uno dei principali campi di battaglia nella guerra civile tra l’Armata Rossa e l’Armata Bianca.

    In questo calderone, Rakovsky si impegnò in molti incarichi bolscevichi: presidente del Soviet ucraino dei commissari del popolo, presidente del Consiglio di difesa, commissario per gli affari esteri e membro del Politburo del Partito Comunista (bolscevico) dell’Ucraina (PC(b)U). Il curriculum multietnico di Rakovsky, per non parlare del suo coraggio, della sua energia e della sua esperienza politica, lo rendevano la scelta giusta per i compiti da svolgere.

    La giovane Repubblica Socialista Sovietica Ucraina (URSS), proclamata il 10 marzo 1919 a Kharkiv, era quasi nata morta. L’Armata Rossa dovette affrontare una serie di agguerriti avversari controrivoluzionari, tra cui l’Esercito Popolare Ucraino di Symon Petliura e le Forze Bianche di Anton Denikin, oltre agli interventisti francesi e polacchi. Il corso della battaglia cambiò radicalmente più volte, così come le alleanze politiche e militari, finché il trattato sovietico-polacco del marzo 1921 pose finalmente fine ai combattimenti.

    Nazionalismo e internazionalismo

    Nel 1919-1921, le condizioni sociali erano tutt’altro che favorevoli per il governo sovietico ucraino di Rakovsky. Le condizioni di una spietata guerra civile, combinate con le draconiane politiche bolsceviche del “comunismo di guerra” e delle requisizioni agricole, avevano distrutto l’economia e provocato la rabbia della popolazione, in particolare dei contadini, che rappresentavano l’80% della popolazione ed erano prevalentemente ucraini.

    I centri urbani erano le roccaforti del PC(b)U, soprattutto nel Donbass industriale. La popolazione di queste regioni è in gran parte di origine russa ed ebraica, il che rafforza gli stereotipi antirussi e antisemiti sulla natura del bolscevismo.

    Rakovsky non aveva nulla contro il nazionalismo ucraino: vista la “debolezza e l’anemia” del proletariato ucraino, riteneva che l’idea di un’Ucraina indipendente fosse una pericolosa concessione alla controrivoluzione e all’imperialismo occidentale. In questa fase, rifiutava qualsiasi distinzione etnografica tra ucraini e russi o qualsiasi preoccupazione per la minaccia della russificazione.

    Secondo Rakovsky, il nazionalismo ucraino era una forza artificiale imposta dall’intellighenzia. A suo avviso, gli imperativi della lotta di classe e della rivoluzione socialista internazionale sono decisivi e descrive la lotta rivoluzionaria ucraina come “il fattore decisivo della rivoluzione mondiale”.

    Il punto di vista di Rakovsky sul nazionalismo ucraino cambiò radicalmente con la fine della guerra civile, l’introduzione della Nuova Politica Economica (NEP) nel marzo del 1921 e i negoziati per la formazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) nel 1922-23. Durante queste discussioni, si scontrò con Stalin, che intendeva costruire un’URSS centralizzata, dominata dalla sua più grande repubblica, la Russia. Questo, nonostante i timori di un Lenin morente per il ritorno del dominio della Grande Russia.

    Come capo dell’Ucraina sovietica, Rakovsky difese con veemenza l’uguaglianza federale tra le repubbliche fondatrici dell’URSS (Ucraina, Russia, Bielorussia e Transcaucasia). Denunciò il “cieco centralismo” di Stalin e la sua “insensibilità” nei confronti delle nazionalità contadine non russe, che vedeva come una minaccia al “potere sovietico”.

    Il nuovo leader sovietico finì per sconfiggere Rakovsky su questo punto: mentre Stalin accettava formalmente il principio di una federazione sovietica di eguali nazionalità, in realtà perseguiva la creazione di un’URSS ipercentralizzata con Mosca a capo. Non perdonò mai Rakovsky, che fu destituito da capo del governo ucraino nel luglio 1923.

    Rakovsky fu nominato ambasciatore sovietico nel Regno Unito (1923-25) e poi in Francia (1925-27). Come scrisse a Stalin, questi incarichi erano solo un pretesto “per bandirmi dal mio lavoro in Ucraina”. Questo periodo di esilio non sarebbe stato l’ultimo per Rakovsky.

    L’opposizione alla burocrazia

    Rakovsky divenne sempre più preoccupato per l’emergere di una burocrazia governativa in URSS che avrebbe soffocato sia l’indipendenza nazionale repubblicana che la democrazia sovietica. Poco prima di essere licenziato come capo del governo ucraino, Rakovsky mise in guardia contro l’emergere di “un corpo separato di funzionari pubblici che uniscono il loro destino a quello della centralizzazione stessa”.

    L’opposizione di Rakovsky al progetto centralizzatore di Stalin lo portò a sostenere l’Opposizione di Sinistra guidata da Trotsky, alla quale aderì pubblicamente nell’agosto 1927. Poco dopo, le autorità francesi dichiararono Rakovsky persona non grata sul territorio francese ed egli tornò in URSS.

    Si impegnò immediatamente nella campagna dell’opposizione di sinistra in vista del decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e del Congresso del Partito Comunista dell’intera Unione che si sarebbe tenuto nel dicembre 1927.

    Durante questo periodo, Rakovsky parlò alle riunioni di fabbrica e di partito, in particolare in Ucraina, nonostante le vessazioni e la brutalità del regime di Stalin. Ben presto fu espulso dal Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, dal Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista e, infine, dallo stesso Partito comunista nel dicembre 1927.

    Dopo la sconfitta dell’opposizione di sinistra, Rakovsky fu arrestato ed esiliato nella Russia meridionale e in Siberia. Durante l’esilio, sviluppò il suo pensiero sulla burocratizzazione staliniana in un’analisi fondamentale intitolata “I ‘pericoli professionali’ del potere”, pubblicata nel bollettino clandestino dell’Opposizione di Sinistra nel 1929. Come ha notato il suo biografo Pierre Broué in Rakovsky ou la Révolution dans tous les pays, l’analisi di Rakovsky fu “il primo serio tentativo dell’Opposizione di affrontare storicamente e teoricamente il fenomeno della degenerazione burocratica”.

    L’articolo è un’analisi approfondita della degenerazione e della burocratizzazione del Partito Comunista e dello stato sovietico. Il punto di partenza della spiegazione di Rakovsky è la passività e la depoliticizzazione della classe operaia sovietica. Secondo lui, questa classe non è la stessa forza sociale che ha preso il potere nell’ottobre 1917. La classe operaia post-rivoluzionaria non ha vissuto lo stesso battesimo del fuoco che l’ha unificata e spinta alla rivoluzione.

    La guerra e le terribili condizioni economiche hanno certamente avuto il loro peso. Tuttavia, Rakovsky ritiene che la causa principale sia il fallimento del Partito Comunista nell’educare questa classe operaia ricostituita allo spirito del socialismo sovietico. Rakovsky attribuisce questo fallimento alla bancarotta delle élite del partito e dello stato, le cui condizioni di vita privilegiate sono ben lontane da quelle della classe operaia:

    “Quando una classe prende il potere, uno dei suoi componenti diventa l’agente di quel potere. È così che nasce la burocrazia. In uno stato proletario, dove l’accumulazione capitalistica è vietata ai membri del partito al potere, questa differenziazione è dapprima funzionale; poi diventa sociale. (…) Non dico di classe, ma sociale. Alcune funzioni che prima erano svolte da tutto il partito, da tutta la classe, ora sono di competenza del potere, cioè solo di alcune persone in quel partito e in quella classe”.

    Il risultato è l’“intossicazione del potere”, scrive Rakovsky, citando il leader rivoluzionario francese Maximilien Robespierre. Per rimediare a questo problema, l’opposizione di sinistra dovrebbe proporre non solo una completa epurazione dell’apparato di partito, ma anche la rieducazione dei membri del partito e della popolazione in generale.

    Rakovsky suggerì modestamente che questa era solo un’analisi preliminare del malessere della rivoluzione. Tuttavia, il suo alleato Trotsky lodò entusiasticamente il saggio e insistette affinché fosse diffuso il più possibile. In seguito servì come punto di partenza per il famoso pamphlet antistalinista di Trotsky, La rivoluzione tradita, pubblicato nel 1936.

    Tra fascismo e stalinismo

    L’espulsione dal Partito, l’esilio e la brutale prigionia avevano avuto la meglio sugli oppositori bolscevichi. Alcuni cercarono di tornare all’ovile del Partito, soprattutto dopo che Stalin sembrò fare proprie alcune delle loro politiche chiave, come l’industrializzazione accelerata, a partire dal 1928. Da parte sua, Rakovsky rifiutò l’idea di una “capitolazione” basata sulle concessioni parziali di Stalin alla piattaforma dell’opposizione, chiedendo il pieno ripristino della democrazia all’interno del partito, dei soviet e dei sindacati.

    Dopo l’espulsione di Trotsky dall’Unione Sovietica nel gennaio 1929, Rakovsky era ormai considerato il leader dell’opposizione di sinistra all’interno del paese. Nonostante l’isolamento e il deterioramento delle sue condizioni di salute, nel 1929-1930 Rakovsky scrisse diverse dichiarazioni franche, rivolgendosi direttamente al Comitato Centrale e definendo le precondizioni necessarie per la reintegrazione dell’Opposizione nella vita politica. La completa democratizzazione era l’essenza stessa di ciò che Rakovsky cercava.

    In realtà, queste dichiarazioni erano delle offerte di riammissione al Partito, che implicitamente chiedevano un’alleanza con la fazione “centrista” di Stalin contro figure “di destra” come Nikolai Bukharin. Questo approccio preoccupò alcuni oppositori, tra cui Trotsky, che espresse segretamente le sue riserve a Rakovsky.

    Ciononostante, le dichiarazioni di Rakovsky erano critiche severe e intransigenti nei confronti dell’”autocrazia dell’apparato” e della “violenta” repressione politica da esso attuata. Uno dei comunicati chiedeva provocatoriamente “l’abolizione della carica di Segretario Generale”, carica ricoperta dallo stesso Stalin.

    Rakovsky e i suoi cofirmatari denunciarono la visione di Stalin del “socialismo in un solo paese”, la marcia forzata verso la collettivizzazione agricola e l’industrializzazione e il centralismo burocratico della Grande Russia che stava soffocando le repubbliche nazionali dell’URSS. Essi sottolinearono l’importanza di ripristinare la “democrazia di partito e dei lavoratori” per rinvigorire l’“iniziativa rivoluzionaria delle masse”, che era caduta in disuso.

    Negli anni Trenta, queste speranze si rivelarono vane. Lo stalinismo trionfò in URSS e il fascismo era in marcia altrove in Europa. Deportato in Asia centrale nel 1932, Rakovsky si ammala e perde ogni contatto con Trotsky. La notizia che Rakovsky era stato ferito in un tentativo di fuga fallito raggiunse Trotsky alla fine dell’anno.

    L’eredità di Rakovsky

    Il peggio doveva ancora venire. Il 23 febbraio 1934, il giornale russo Izvestiia pubblicò il testo della resa di Rakovskij al partito. Egli fa riferimento alla presa di potere nazista in Germania, avvenuta poche settimane prima, come motivo per sostenere la leadership di Stalin:

    “Di fronte all’ascesa della reazione internazionale, diretta in ultima analisi contro la Rivoluzione d’Ottobre, ritengo che sia dovere di un comunista bolscevico sottomettersi completamente e senza esitazioni alla linea generale del partito”.

    La capitolazione di Rakovskij infligge un colpo devastante all’assediata opposizione di sinistra e a Trotskij personalmente: “Rakovskij è stato praticamente il mio ultimo contatto con la vecchia generazione rivoluzionaria”, scrive nel suo diario. “Dopo la sua capitolazione, non è rimasto più nessuno”. Tuttavia, non condannò Rakovskij personalmente, ma diede la colpa alle straordinarie pressioni politiche a cui aveva ceduto: “Possiamo dire che Stalin ottenne Rakovskij con l’aiuto di Adolf Hitler”.

    Quattro anni dopo, nel marzo 1938, all’apice del terrore staliniano, Rakovskij viene chiamato a comparire nel terzo processo lampo di Mosca contro gli ex bolscevichi come membro di un cosiddetto “centro trotskista”. È accusato di aver cospirato con agenzie di intelligence straniere per rovesciare il governo sovietico. “Il vecchio combattente, distrutto dalla vita”, scrisse Trotsky quando venne a conoscenza dell’accusa, “andrà inevitabilmente incontro al suo destino”.

    E questo è ciò che accadde, anche se la sua esecuzione avvenne solo l’11 settembre 1941. Rakovsky aveva confessato crimini architettati con “inganno, ricatto e violenza psicologica e fisica”, secondo le parole di una risoluzione del Soviet Supremo dell’aprile 1988 che riabilitava postumo Rakovsky e lo riammetteva nel Partito Comunista.

    L’arco della vita di Rakovsky si alza e si abbassa con il periodo più eroico del movimento marxista e operaio internazionale e la sua sconfitta nel XX secolo, schiacciato tra il martello fascista e l’incudine stalinista. Le ripercussioni di quella sconfitta sono ancora presenti oggi, e non solo in Ucraina, ma in tutto il mondo.

    L’eredità di Rakovsky è sia storica che contemporanea. Forgiati nel calderone delle guerre balcaniche e della catastrofe della Prima guerra mondiale, i suoi scritti ci danno un’idea della sensibilità dell’oppressione nazionale e dei pericoli dello sciovinismo nazionale quando viene sfruttato da potenze imperiali bellicose e rapaci. L’internazionalismo e la democrazia partecipativa definirono il socialismo di Rakovsky, che si manifestò non solo nel suo abbraccio alla Rivoluzione d’Ottobre, ma anche nella sua incrollabile determinazione a difendere questi principi fino alla fine.

  • “Sostituzione etnica”, migranti e Africa: tre pallini del governo Meloni

    “Sostituzione etnica”, migranti e Africa: tre pallini del governo Meloni

    La battaglia contro la “sostituzione etnica” rimane uno dei terreni centrali di azione ma soprattutto di propaganda, del governo Meloni. Due sono i campi su cui questa sua “battaglia” si sviluppa e ambedue producono disastri umani e legislativi. 

    Il primo terreno è quello della politica per la famiglia con tutte le conseguenze che comporta sul piano etico e politico.

    Il secondo, quello di cui trattiamo qui, è quello della persecuzione – perché di questo si tratta – contro profughi ed immigrati. Su questo secondo terreno le azioni del governo sono più immediate e concrete. E la sua azione è facilitata dal fatto che tutte le politiche sull’immigrazione del nostro paese, dalla legge Turco Napolitano del 1998 in avanti, si sono sempre mosse sullo stesso solco, quale che sia stato il colore del governo che le ha messe in atto.

    Peggio dei “decreti Salvini”

    Il “decreto Cutro”, emanato all’inizio di marzo e convertito definitivamente in legge all’inizio del mese di maggio e che fa seguito ai provvedimenti per ostacolare i soccorsi in mare delle ONG, costituisce un violento e invasivo sovvertimento di alcuni fondamentali principi democratici e sociali. Infatti, riesce a peggiorare ulteriormente i famigerati “decreti sicurezza” del 2018 dell’allora ministro degli Interni Matteo Salvini: demolizione del sistema di accoglienza pubblico, procedure accelerate e sommarie di esame e quindi di rifiuto delle richieste di asilo, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. In poche parole: segregare e punire.

    Il messaggio che si vuole dare all’opinione pubblica ma anche e soprattutto ai migranti che stanno qua e che, si presume, lo comunicheranno ad amici e parenti in patria è chiarissimo:

    “non puoi arrivare; se arrivi non puoi restare; se riesci a restare verrai recluso nei CPR o negli hotspot, non avrai il permesso di soggiorno, non potrai muoverti; se riuscirai a muoverti non troverai accoglienza; se la troverai non avrai i servizi sociali, non potrai lavorare regolarmente né conquistarti un’autonomia; se anche lavori non potrai convertire il permesso ‘umanitario’ in permesso di lavoro, quindi non potrai che lavorare al nero, essere sottopagato e ricattato, l’integrazione resterà un miraggio irraggiungibile e marcirai nella marginalità e nello sfruttamento, senza garanzie né futuro”.

    Per praticare questa politica più accanitamente che in passato, si moltiplicano i CPR, i Centri di permanenza per il rimpatrio (dove i migranti privi del permesso di soggiorno vengono detenuti in condizioni disumane e degradanti, come tante volte denunciato dalle organizzazioni per i diritti umani e reso di dominio pubblico anche da parecchi mezzi di informazione) e anche gli hotspot (centri di detenzione informale in cui condurre sia le procedure di identificazione sia l’esame delle domande di asilo).

    L’obiettivo dichiarato è quello di organizzare un’efficace politica di selezione tra pochi “rifugiati veri” e tanti “migranti economici”, per poter mettere in atto un meccanismo di respingimento e di rimpatrio di questi ultimi, cosa che finora non è riuscita a nessuno dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni. In realtà, il risultato che si otterrà con questi provvedimenti, è di aumentare ulteriormente il numero degli immigrati clandestini (stimati in 5/600 mila) costretti a vivere in questa condizione di irregolarità da norme che chiudono qualsiasi strada per poter ottenere un permesso di soggiorno se sei già presente in Italia.

    Per il momento, il rimpatrio per i migranti costituisce più una minaccia incombente, utile a mantenerli in una situazione di permanente precarietà materiale ed esistenziale, piuttosto che una prospettiva concreta (nel 2022, a fronte di 105.000 arrivi i rimpatri sono stati meno di 6.000).

    Rispunta la “sostituzione etnica”

      Nel frattempo, come dicevamo, il crescere del numero degli sbarchi ha ridato fiato alla denuncia del presunto complotto per la “sostituzione etnica”, che sia Fratelli d’Italia sia la Lega avevano largamente usato durante la campagna elettorale, ma che poi, una volta giunti al governo, avevano sopito per non rischiare di essere ancora una volta tacciati di “suprematismo”.

      Alcuni dirigenti del partito di Giorgia Meloni, però, poco attenti nel controllo del linguaggio, l’hanno di nuovo riesumata e risfoderata (ripescandola nei bassifondi del loro “bagaglio culturale”), perché sanno che può costituire un efficace strumento retorico per fare leva sui ceti popolari e sui timori di quest’ultimi di perdere i propri presunti privilegi nei confronti dei migranti stranieri.

      Ma il fuoco di sbarramento contro l’arrivo dei migranti è in evidentissima contraddizione con la diffusa richiesta da parte delle associazioni padronali di manodopera extracomunitaria a basso costo. Le stime si attesterebbero sulla cifra di circa 500.000 posti di lavoro fissi o stagionali disponibili. 

      E’ una contraddizione che travaglia la politica governativa, preoccupata di tenere vivi il razzismo e il clima di paura alimentati presso la sua base elettorale, ma che è anche chiamata a rispondere alle pressanti esigenze delle aziende, in particolare nell’agricoltura e nel turismo, nella ristorazione, negli alberghi e nella cura alle persone non autosufficienti. 

      Il cosiddetto “Decreto flussi” (il provvedimento che il governo emana annualmente e che determina la possibilità di assunzione temporanea di immigrati e immigrate non presenti sul territorio nazionale attraverso una complicatissima procedura stabilendo settori e paesi di provenienza dei lavoratori) è l’unico meccanismo che dovrebbe dare una risposta a queste esigenze “produttive” dei datori di lavoro italiani, ma ha da tempo mostrato la sua incapacità di saper rispondere in modo effettivo alle esigenze dell’economia e, ancor meno, al desiderio di regolarizzazione dei migranti già presenti in Italia. 

      Il 27 gennaio scorso si è avviata la procedura informatica per le richieste da parte dei datori di lavoro italiani. Alle ore 19 del giorno stesso erano state fatte 240 mila domande a fronte degli 82 mila posti previsti.

      Lo stesso discorso vale per le sanatorie di regolarizzazione degli immigrati clandestini già in Italia, che periodicamente vengono aperte dai governi in carica. L’ultima “sanatoria”, quella del 2020, a distanza di tre anni dalla sua emanazione, ha portato alla regolarizzazione del 40% delle 220 mila persone che hanno presentato domanda. Le procedure burocratiche sono ancora ben lontane dall’essere terminate.

      Il governo si dice pronto a “sburocratizzare” tutto, appalti, regolamenti, verifiche ambientali, procedure di controllo, ecc., ma, quando si tratta di migranti da ostacolare nel percorso di regolarizzazione, la burocrazia non guasta.

      Il progetto “africano”

        Occorre anche ricordare che il “continente nero”, per Giorgia Meloni, non costituisce solo la base di partenza dei migranti.

        Nella sua smania di accreditarsi come leader a livello internazionale e anche di rilanciare la vocazione neocoloniale del paese, la premier ha anche prospettato l’idea di un “piano Mattei” per l’Africa, dal nome di Enrico Mattei, il discusso fondatore nel 1953 dell’Ente Nazionale Idrocarburi.

        La crisi energetica legata alle ripercussioni della guerra in Ucraina ma anche l’impennarsi degli arrivi dei migranti hanno risvegliato nella premier un attivismo particolare verso l’Africa, che si è anche concretizzato in numerosi viaggi in paesi africani, a partire dall’Algeria (il cui gas ha sostanzialmente preso il posto di quello russo nell’approvvigionamento energetico italiano).

        Meloni aspira a fare dell’Italia, grazie alla sua collocazione nel Mediterraneo, l’hub per lo smistamento e la commercializzazione dei prodotti energetici africani in Europa.

        Così, ha avuto numerosi scambi di visite con i capi di stato di quei paesi che, come usa dire la premier con un lugubre eufemismo, “hanno importanti legami culturali con l’Italia”, cioè che, come Etiopia, Somalia e Libia, ne sono state colonie, conquistate a forza di massacri e di repressione.

        Naturalmente all’interesse economico e commerciale si aggiunge anche la preoccupazione di spingere i governanti di questi paesi (che sono paesi di provenienza o di transito di importanti flussi migratori) a operare per impedire le partenze e per agevolare i rimpatri. Fa testo su tutti l’accordo secretato che il governo italiano ha stretto con la Tunisia di Kais Saied tramite il quale la Tunisia si impegna a “riprendersi” senza alcuna formalità coloro che tentano di arrivare in Italia e vengono intercettati. Non a caso il 90% delle domande di asilo di persone di nazionalità tunisina vengono respinte, mentre tra gli espulsi tramite il sistema dei CPR i tunisini sono oltre il 50%.

        Del memorandum con la Libia poi è anche inutile parlarne.

      1. I poveri responsabili della loro stessa povertà

        I poveri responsabili della loro stessa povertà

        Un mito duro a morire

        Michel Husson (1949-2021) è stato un economista marxista militante, a lungo attivo nella LCR francese, nel consiglio scientifico di Attac e nella Fondazione Copernicus. Il suo sito hussonet.free.fr è stato e resta anche dopo la sua morte un repertorio di eccezionale ricchezza per la riflessione sul capitalismo del 21° secolo.

        La sua prematura scomparsa nell’estate del 2021 ha lasciato un vuoto importante nel pensiero e nell’elaborazione economica dei marxisti. In Francia è stato recentemente pubblicato postumo un suo libro che ci sembra suggerire una riflessione certamente attuale anche nell’Italia del governo Meloni e del decreto di cancellazione del reddito di cittadinanza.

        Questo libro, non a caso intitolato Portait du pauvre en habit de vaurien (Ritratto del povero in veste di furfante), mobilita la vasta cultura dell’autore per smascherare il discorso mistificatorio sulla povertà e sulla disoccupazione. Molti economisti neoliberali continuano a sostenere, in tono più o meno sguaiato, che i poveri e i disoccupati sono i responsabili della loro condizione e che costituiscono un peso eccessivo per la società. E, come sostiene l’autore, decifrare questi modi di legittimazione dell’ordine sociale è senza dubbio un prerequisito per l’emancipazione sociale. E questo è l’obiettivo del libro.

        Nell’introduzione, Michel Husson si chiede: “Come può una società tollerare di emarginare chi ‘è in soprannumero’?” e poche righe dopo ricorda la testimonianza di un disoccupato che sentiva che la società gli mandava il messaggio: “Non ho bisogno di te”, in breve che era “inutile al mondo”.

        “Inutile al mondo” era infatti un’espressione usata già nel XIV secolo per indicare mendicanti e vagabondi. È il titolo del libro dello storico polacco Bronislaw Geremek “Truands et misérables dans l’Europe moderne, 1350-1600” (Delinquenti e criminali nell’Europa moderna, 1350-1600), e si riferisce all’idea che ci sono esseri umani che sono “di troppo”, soprannumerari.

        Questi “furfanti” (il dizionario francese Littré nota che nel XV secolo esisteva un ancor più eloquente “vaultnéant”, senza valore) erano indubbiamente “troppi” e spesso considerati pericolosi, ma non del tutto esclusi dalla società e dai rapporti di lavoro:  nella sua opera fondamentale “Les métamorphoses de la question sociale” (Le metamorfosi della questione sociale), il sociologo Robert Castel ha dimostrato che molti membri di questa categoria sociale erano in realtà impegnati in lavori stagionali o comunque episodici: nel 1786, il ricovero di mendicanti di Soissons, della Francia del Nord, contava 854 internati, di cui 256 “lavoratori manuali” e 254 “braccianti indigenti”.

        Robert Castel ha descritto come la nascita e poi la generalizzazione del lavoro salariato e delle conquiste sociali (quella che lui chiama “società salariale”) abbiano contribuito a ridurre questa categoria, almeno nei paesi a capitalismo sviluppato. Ma questa evoluzione è stata lenta e diseguale, perché l’“esercito industriale di riserva” ha una funzione essenziale: costringere la “classe salariata in servizio attivo […] a sottomettersi più docilmente agli ordini del capitale”.  

        Inoltre, la “terza età del capitalismo”, per usare il titolo di un libro di Ernest Mandel, vedrà il ritorno in massa della povertà, della disoccupazione e di varie forme di lavoro precario. Coloro che subiscono queste condizioni e le loro conseguenze sono stati spesso oggetto di accondiscendenza o disprezzo da parte dei potenti.

        Poco più avanti nella sua introduzione, Michel Husson osserva che nel corso degli anni le numerose analisi dominanti della disoccupazione e della povertà “hanno in comune il fatto di voler rendere i disoccupati (o i poveri) responsabili del loro destino”. In un salutare svelamento, il libro nel suo complesso è quindi una meticolosa raccolta e analisi di molti dei “discorsi di legittimazione” della situazione dei rifiutati, dei soprannumerari, dal XVIII secolo a oggi.

        La prima parte tratta della “gestione” dei poveri e dell’evoluzione dei primi edifici ideologici utilizzati per giustificare la loro situazione: il secolo dei Lumi ha visto una secolarizzazione degli argomenti: la volontà divina è stata sostituita dalle leggi dell’economia e della demografia. Per citare lo storico ed economista austro-ungarico Karl Polanyi: “… si ritiene ormai che il mercato autoregolato derivi dalle inesorabili leggi della Natura e che sia una necessità ineludibile che il mercato sia liberato, che sia liberato da ogni ostacolo”.

        Infatti, anche se dobbiamo risalire a un testo filosofico precedente al fermento dell’Illuminismo, il mondo così com’è sarebbe “il migliore dei mondi possibili”, come scriveva Leibniz già nel 1710, aggiungendo: “È vero che possiamo immaginare mondi possibili senza peccato e senza sventura, e potremmo farne romanzi e utopie […]; ma questi stessi mondi sarebbero molto inferiori al nostro sotto tanti aspetti”.

        Per Malthus, il cui primo “Saggio sulla popolazione” fu pubblicato nel 1798, la questione fondamentale era lo squilibrio tra la crescita delle risorse e quella della popolazione: la popolazione cresceva geometricamente, mentre la produzione agricola cresceva aritmeticamente. Il risultato è una situazione in cui troppe persone affollano la tavola del “banchetto” (per usare un termine usato da Malthus) e causano disordini e scompiglio. Le misure per alleviare la miseria sono controproducenti perché permettono ai poveri di riprodursi in numero eccessivo.

        Marx (citato da Michel Husson) si preoccupò di argomentare contro il ragionamento di Malthus:

        “Gli interessi conservatori di cui Malthus era l’umile valletto, gli impedirono di vedere che il prolungamento smodato della giornata lavorativa, unito allo straordinario sviluppo del macchinismo e al crescente sfruttamento del lavoro delle donne e dei bambini, era destinato a rendere una gran parte della classe operaia ‘in soprannumero’, una volta che la guerra fosse finita e il monopolio del mercato universale fosse stato tolto all’Inghilterra. Naturalmente era molto più comodo e molto più conforme agli interessi delle classi dominanti, che Malthus lodava da vero sacerdote qual era, spiegare questa ‘sovrappopolazione’ con le eterne leggi della natura piuttosto che con le leggi storiche della produzione capitalistica”.

        Ma questa vigorosa critica non ha impedito che il “malthusianesimo” si perpetuasse in vari modi fino ai giorni nostri. Michel Husson ha denunciato “il ritorno dei figli di Malthus” in un libro “Sommes-nous de trop?” (Siamo troppi?) del 2000. 

        Fin dall’inizio, in questa svolta tra Settecento e Ottocento, si intrecciano tre temi essenziali, destinati a essere sviluppati in modi diversi fino ai giorni nostri: quello della responsabilità dei poveri (e poi dei disoccupati) per la loro situazione, quello degli effetti perversi o addirittura controproducenti delle politiche volte ad aiutarli o a proteggerli, e infine il tema della necessità di distinguere in modo assoluto tra i veri poveri (inabili al lavoro o almeno in grado di dimostrare di fare ogni sforzo per trovare un’occupazione) e i “fannulloni” alla ricerca della minima assistenza sociale.

        Su quest’ultimo punto, si noti la dichiarazione rilasciata proprio il 1° maggio dalla premier postfascista Giorgia Meloni per giustificare un pacchetto di misure antisociali: “Stiamo riformando il reddito di cittadinanza per differenziare chi è in grado di lavorare da chi non lo è”.

        Uno dei capitoli più istruttivi per il lettore è quello dedicato alla grande carestia irlandese del 1845-1851 che, su una popolazione di circa nove milioni di abitanti, fu segnata da un milione di morti e più di un altro milione di partenze dall’Irlanda per sfuggire a una situazione mortificante. All’epoca l’Irlanda era una colonia inglese: i governanti di Londra e i grandi proprietari terrieri dell’isola controllavano la maggior parte della situazione.  

        Inizialmente la carenza di cibo fu causata da una malattia delle patate, ma Michel Husson mostra come si trasformò in una catastrofe a causa della cinica inazione del governo e della brutalità dei proprietari terrieri. Lungi dall’essere scossi, i governanti usarono ogni possibile argomento per spiegare la carestia e giustificare il loro rifiuto di prendere provvedimenti per porvi rimedio: dalla Divina Provvidenza alle leggi dell’economia fino all’inferiorità razziale degli irlandesi, che erano meno intelligenti e più pigri degli inglesi e potevano solo ostentare ed esagerare la loro miseria per ottenere assistenza.

        La seconda parte del libro è dedicata al “darwinismo” e a quello che è stato definito “darwinismo sociale”, cioè l’estensione del principio di selezione alla specie umana. Qui Michel Husson entra in un dibattito complesso: lo storico della scienza e darwinista francese Patrick Tort ha sempre scagionato Darwin da ogni responsabilità in questo campo, incriminando in particolare il filosofo e sociologo Herbert Spencer (1820-1903) e il cugino di Darwin, lo scienziato Francis Galton (1822-1911).

        Per Patrick Tort, c’è stata infatti una forma di estrazione della natura umana dalla legge della selezione naturale attraverso il processo di civilizzazione: “in termini semplificati, la selezione naturale seleziona la civiltà, che si oppone alla selezione naturale”. Tort torna instancabilmente su questo punto; nella sua recente opera “Du totalitarisme en Amérique” (Del totalitarismo in America), denuncia la “lettura ristretta” di Darwin da parte di Spencer, che gli permette “di subordinare la società a una ‘legge’ selettiva che in Darwin si applica solo all’evoluzione degli esseri viventi non umani e all’evoluzione ante-civilizzazione dell’uomo”.

        Michel Husson, da parte sua, sulla base di una lettura meticolosa di Darwin e in particolare della sua corrispondenza privata, mostra che egli rimase cauto e ambiguo, pur non rinnegando coloro che sostenevano di ispirarsi alla sua opera e di estendere la selezione naturale alle società umane. Michel Husson nota anche che Darwin sosteneva che le donne fossero intellettualmente inferiori agli uomini.

        Husson mostra l’influenza di questa linea di pensiero, anche tra i progressisti. Marx ed Engels accolsero con favore gli scritti di Darwin: la sua teoria introduceva una rottura decisiva con i racconti religiosi sulla traiettoria della specie umana. In seguito presero le distanze dall’applicazione delle teorie darwiniane all’analisi delle società umane. Engels, citato da Michel Husson, scrisse: “la concezione della storia come serie di lotte di classe è più ricca e profonda della sua semplice riduzione a fasi appena differenziate della lotta per la vita”.

        Tuttavia, la penetrazione del darwinismo e dei suoi avatar “spenseriani” fu più profonda, tra vari autori e in particolare, paradossalmente, nella socialdemocrazia, soprattutto in Germania e in Inghilterra. Per fare un esempio non citato nel libro, i lettori di Martin Eden di Jack London avranno certamente notato i forti riferimenti alle tesi di Spencer fatti dal protagonista: “La vecchia legge dello sviluppo è ancora valida”, sostiene. Il darwinismo sembra quindi fornire una nuova spiegazione, o addirittura una giustificazione, con pretese scientifiche, alla situazione dei poveri e dei disoccupati.

        Affronteremo più rapidamente le ultime due parti del libro, il che non significa che siano meno interessanti. La terza parte tratta degli eccessi del “darwinismo sociale” quando alcuni hanno cercato di utilizzarlo per giustificare le disuguaglianze non solo tra gli individui ma anche tra i popoli. Il francese Vacher de Lapouge (1854-1936) la metteva così:

        “Non solo gli individui sono ineguali, ma la loro ineguaglianza è ereditaria; non solo le classi, le nazioni e le razze sono ineguali, ma ognuna di esse non può subire un perfezionamento completo e l’aumento della media è la conseguenza dello sterminio degli elementi peggiori, della propagazione degli elementi migliori, della selezione in una parola, inconscia o consapevole”.   

        Tali analisi hanno spesso portato alla promozione dell’eugenetica: occorre limitare la riproduzione di tutti coloro che sono “inutili al mondo”. Un assertivo tropismo eugenetico si ritrova logicamente tra i reazionari e i razzisti conclamati che trovano meriti nelle politiche di miglioramento della “razza” perseguite dai regimi fascista e nazista. Ma tendenze eugenetiche si trovano anche tra i progressisti come lo scrittore H.G. Wells, l’economista J.M. Keynes e lo scienziato e attivista pacifista Bertrand Russell.

        Infine, la quarta e ultima parte affronta in modo più diretto le storture di scienziati che si rivelano avere due facce, come il premio Nobel per la medicina del 1912 Alexis Carrel, che è anche un razzista, un petainista e un sostenitore dell’inferiorità femminile. Michel Husson si concentra qui su autori, statistici ed economisti i cui contributi hanno informato e continuano a informare il lavoro e il pensiero degli economisti contemporanei. Egli sottolinea che quasi tutti i fondatori della statistica erano profondamente reazionari, indipendentemente dalla qualità intrinseca degli strumenti che hanno inventato e che sono ancora oggi comunemente utilizzati dai ricercatori (come l’indice di Gini per misurare la disuguaglianza).

        Lo stesso vale per l’economia, molti dei cui padri fondatori rivelano occasionalmente una vicinanza di fondo al darwinismo sociale, anche se questo legame non appare nei loro contributi principali. Questa vicinanza può essere a volte dolce, a volte sfacciata, per tutti coloro che, come i social-liberali, deplorano le devastazioni del Leviatano economico e l’austerità di bilancio e al contempo formulano raccomandazioni che fanno poco o nulla per metterne in discussione l’impatto su “chi sta in basso”.

        Per Michel Husson, questa stigmatizzazione dei poveri e dei disoccupati rimane più o meno alla base delle moderne teorie sulla disoccupazione. Se avesse potuto completare il suo libro, avrebbe certamente sviluppato quest’ultimo aspetto. Così com’è, tuttavia, il libro è di grande interesse. Ci spinge a riflettere sulla persistenza e sui molteplici e rinnovati aspetti delle ideologie che stigmatizzano, in forme più o meno sofisticate, la “gente che non è niente”, coloro che sarebbero incapaci di “attraversare la strada” per trovare un lavoro, che mirano a descriverli come inferiori e a presentarli come troppo costosi. “Decifrare questi modi di legittimare l’ordine sociale è senza dubbio un prerequisito per l’emancipazione sociale”. Questa è la frase finale del libro, che in un certo senso riassume l’itinerario di economista e attivista di Michel Husson.

        Il libro è completato da una prefazione di Laurent Cordonnier, autore di Pas de pitié pour les gueux (Nessuna pietà per i poveri), un denso libretto sulle teorie economiche della disoccupazione, e da una postfazione di Alain Bihr, coautore con Michel Husson di Thomas Piketty: une critique illusoire du capital.

      2. La strage di Brescia 49 anni fa

        La strage di Brescia 49 anni fa
        La prima pagina del quotidiano Lotta Continua all’indomani della bomba

        Per ricordare l’evento e il clima in cui esso si svolse, riproduciamo la cronaca che il quotidiano Lotta Continua fece il giorno stesso. Segue l’editoriale politico di commento

        BRESCIA, 28 maggio 1974 – Il massacro più orrendo è avvenuto questa mattina nella piazza principale di Brescia nel corso di un comizio antifascista a cui erano presenti migliaia di operai, studenti, lavoratori, e antifascisti.

        Sei compagni sono rimasti assassinati; 79 gravemente feriti, ‘di cui alcuni in pericolo di morte. Oggi a Brescia la federazioneCGIL-CISL-UIL. aveva indetto uno sciopero generale provinciale in risposta al criminale susseguirsi di attentati e provocazioni fasciste che nelle ultime settimane si erano avute in Lombardia, ma sopratutlo a Brescia, centro di questa ondata di violenze. Tre grossi cortei (complessivamente oltre 10 mila persone hanno sfilato oggi per il centro della città), si erano mossi
        dopo le 9 da Piazzale Garibaldi, Porta Trento, e Piazza della Repubblica per confluire nella piazza centrale della Loggia dove era previsto un comizio convocato dal comitato unitario antifascista: Le parole d’ordi-ne, i cartelli, gli sJogans per la messa fuori legge del MSl avevano caratterizzato tutto l’andamento della manifestazione. Sul palco, per il comizio conclusivo, aveva appena preso la parola il segretatario della FLM Castrezzati quando, alle 10,30, un enorme boato, una spaventosa deflagrazione ha mozzato le parole dell’oratore: un ordigno a orologeria è esploso presso i portici della Torre dell’orologio, dalla parte opposta del palco, dentro a un cestino per la carta straccia dove era stato collocato. Le colonne del portico hanno fatto da schermo, contribuendo a proiettare la forza dell’esplosione nella piazza gremita. Chi ha progettato l’attentato ha voluto raggiungere la certezza del massacro: il luogo dove è stato posto l’ordigno si trova infatti in un angolo della piazza che è sempre affollato nel corso delle manifestazioni; stamattina poi la pioggia che aveva battuto in modo insistente sul corteo aveva spinto molti compagni a trovare riparo presso i portici dove è avvenuta l’esplosione.

        E’ stata una carneficina. Centinaia di persone ferite, dilaniate dallo scoppio, scagliate a molti metri di distan.za dall’esplosione. Le sirene delle autoambulanze hanno cominciato a echeggiare disperatamente, a terra corpi inanimati, straziati, resi irriconoscibili dalla potenza dell’ordigno.

        Nella città percorsa da un’ondata di sgomento; cominciavano intanto le prime reazioni alla criminale strage fascista. Dalla camera del lavoro partiva l’indicazione di prolungare lo sciopero. generale provinciale fino alle 24 in tutte le fabbriche e gli uffici, e di procedere all’occupazione di tutti gli stabilimenti, per preparare la grandiosa risposta di massa per domani. La .indicazione veniva raccolta dovunque, mentre da ogni centro della lombardia si accavallavano notiize di analoghe iniziative.

        Quanti sono i morti? Per tutta la giornata si sono susseguite le notizie contradittorie provenienti dall’ospedale e dall’obitorio di Brescia. Ora, al momento di andare in macchina si parla di 6 morti certi, ma sono in molti, anche alla camera del lavoro, che temono che essi saranno di più. E’ certo che tra i 78 feriti , rimasti a terra sanguinanti dopo l’esplosione, alcuni sono gravissimi. L’identificazione dei cadaveri è stata spesso difficile, tanto i corpi erano dilaniati , Una delle sei vittime è ancora senza un nome.

        Degli altri 5 compagni assassinati uno è un pensionato dell’lNPS di 70 anni, Cihe si chiama Euplo Natali; gli altri sono tutti compagni insegnanti della CGIL-Scuola. Il compagno AIberto Trebeschi, che era membro del direttivo della CGIL-Scuola, ed insegnava fisica all’ITI di Brescia è morto dilaniato dall’esplosione insieme alla moglie Clementina Calzolari; così la compagna insegnante Livia Bottardi Milani. Nell’esplosione ha trovato anche la morte la compagna Giulietta Banzi, una delle più note e capaci militanti della sinistra rivoluzionaria di Brescia, che faceva parte di Avanguardia Operaia. Giulietta era appena rientrata a Brescia da Ariccia dove aveva preso parte, come delegata nazionale, al
        congresso della CG’IL-Scuola.

        Mentre scriviamo è in corso in una sala gremita della camera del lavoro l’attivo convocato dalle organizzazioni sindacali. Inaudito il comportamento della polizia subito dopo la strage. Non era trascorsa nemmeno mezz’ora dal massacro che 4 compagni di Lotta Continua venivano fermati mentre si trovavano a bordo di un furgoncino pieno di materiale di propaganda.

        Successivamente sono stati rilasciati, ma poco dopo la polizia ha imbastito una provocazione ancora peggiore iniziando una serie di perquisizioni presso le abitazioni di dirigenti dell’ANPI e dei sindacati.

        Questa circostanza è stata denunciata nel corso del pomeriggio nella conferenza stampa del comitato unitario antifascista che aveva promosso la manifestazione del mattino.

        Sembra che i carabinieri si siano messi in moto sulla pista nera individuata dalle indagini della procura bresciana. A questo proposito va segnalato un minaccioso messaggio che è stato recapitato questa mattina prima della strage alla redazione dei due giornali cittadini. Il messaggio, firmato “Ordine Nero, gruppo Anno zero” contiene “una lista di persone condannate a morte” e afferma che “la sentenza è da oggi eseguibile”. Il comunicato termina con la macabra affermazione: “Chi non sparge sangue sulla propria terra sarà sempre schiavo”.

        Occorre aggiungere che questa mattina a Brescia è stata trovata una seconda bomba. L’ordigno era stato posto nell’asilo di via Chiusure; soltanto per un caso gli artificieri sono riusciti a disinescarlo prima che
        scoppiasse.

        Un ordigno è esploso a Milano questa mattina, vicino al garage gestito da Carlo Fumagalli. Nella zona è stato trovato un volantino firmato SAM (Squadre di Azione Mussolini).

        UN DEBITO GRANDE

        A Brescia la furia fascista ha compiuto il più orrendo fra i suoi crimini. Ha rinunciato ai camuffamenti, si è voluta firmare senza equivoci. Come nella tentata strage alla scuola elementare slovena di Trieste, come nelle bombe disseminate in lungo e in largo durante la campagna elettorale.

        Le vittime di questo massacro sono bambini, donne, operai, militanti antifascisfii, che a viso aperto e serenamente testimoniavano il loro sdegno per la violenza nera. Queste vittime lasciano un debito grande alla classe operaia e agli antifascisti.

        Tutta l’Italia, oggi, scenderà in sciopero, riempirà le piazze. Bisogna che questo sciopero generale sia davvero forte come esige q.uel debito. Bisogna che questo sciopero generale segni una netta svolta per la lotta antifascista nel nostro paese. Bisogna che esso dimostri che i proletari e gli antifascisti non si uniscono per chiedere soccorso allo stato, ma per esercitare la giustizia antifascista. Bisogna che esso si impegni a non concedere libertà ai criminali squadristi, ai loro mandanti. Bisogna che esso riprenda con forza la rivendicazione che sia sciolto il partito fascista di Almirante. .

        Di fronte alla strage di Brescia, tornano fuori, come in un gioco del pendolo, le frasi d’occasione suffa democratizzazione dello stato, dei corpi separati, e via dicendo. Che cosa vogliono dire questi frasi? Perché non si fanno nomi e cognomi, perché non si fissano scadenze ultimative? I socialisti, grandi produttori di frasi, affermano che dopo il referendum le rivendicazioni civili e democratiche non possono più essere eluse. Perché allora non si esige che vengano destituiti e incriminati i funzionari di polizia e dei carabinieri coinvolti nelle trame nere? Perché non si scioglie l’Ufficio Affari Riservati, dando pubblicità al suo operato e ai suoi archivi? Perché non si denuncia l’azione illegale ed eversiva di tanti funzionari del SID? Perché non si impone che sia garantito il diritto all’organizzazione democratica dei soldati nelle caserme? Perché non si impone che i dirigenti dei corpi dello stato, dei corpi di polizia, o i gerarchi militari, siano nominati sulla scorta di una informazione e discussione pubblica sul loro passato, sulle loro posizioni, sui Ioro obblighi? Perché non si impedisce che i corpi di polizia e militari si addestrino sistematicamente a funzioni re:pressive antidemocratiche? Perché non si rifiuta la confisca democristiana e amerikana dei ministeri che controllano i corpi separati?

        E’ troppo facile rispondere. Le avocazioni parlamentari per il petrolio, per la Montedison, stanno a mostrare che cosa intendono i nostri governanti per democratizzazione dello stato. Per spezzare la rete di comp!icità e di ricatti che salda l’uno all’altro i diversi anelli del potere, non c’è altra forza all’infuori dell’iniziativa del movimento di classe e antifascista. Quella forza che oggi riempie le piazze, col cuore gonfio di dolore per la distruzione di tante vite fiduciose in una società giusta, con la promessa di render loro giustizia.

        Un momento dei funerali delle vittime della strage

        Leggi: L’ultima inchiesta sulla strage di piazza della Loggia a Brescia. La regia della Nato nella strategia della tensione – di Saverio Ferrari, da sinistrasindacale.it

      3. Stati generali della natalità, il capitalismo di fronte alle “culle vuote”

        Stati generali della natalità, il capitalismo di fronte alle “culle vuote”

        di Giovanna Russo

        Il recente decreto legge sul lavoro, con le sue misure di ampliamento delle forme di precarietà, il ridimensionamento del reddito di cittadinanza, colpiscono in particolare le donne, che più spesso degli uomini si trovano in condizioni di disoccupazione e di lavoro povero. Ma oltre l’aumento delle difficoltà materiali di vita, c’è una pressione ideologica reazionaria specifica, centrata sul tentativo di rilanciarne il ruolo di asse portante del lavoro di riproduzione sociale all’interno di una famiglia dalla forma patriarcale tradizionale. 

        La triade “dio-patria-famiglia”, che è stata al centro della campagna elettorale di FdI, è ora terreno della politica governativa di riordino sociale in cui le donne sono viste come fattrici per la riproduzione biologica, segregate nella subalternità dei ruoli familiari, in un quadro di ri-disciplinamento dell’intera società.  

        La terza edizione degli “Stati generali della natività”, nella due-giorni romana (11-12 maggio), è stata la rappresentazione eloquente di questo orientamento politico-ideologico e delle sue finalità. La nutrita presenza di ministri,  rappresentanti istituzionali ed esponenti di grandi aziende economiche, oltre quella immancabile del Papa, ha mostrato l’importanza della questione demografica per l’insieme della classe dominante: nell’attuale trend demografico che ha condotto la natalità ai minimi storici, con poco più di 300.000 nascite annuali, il capitalismo ha l’interesse generale di assicurarsi la sostituzione generazionale della forza lavoro e la “carne da cannone” per le prospettive militari internazionali,  ma trova spazio anche la preoccupazione  contingente delle aziende del settore materno-infantile di fermare il restringimento del mercato dei prodotti per l’infanzia.  

        Nella brochure intitolata Avete mai immaginato un mondo senza bambini? sono evocati scenari apocalittici di una “Italia spopolata da qui alla fine del secolo”. Blanciardo, presidente dell’Istat, già noto per la sua proposta di includere i feti abortiti nel calcolo delle aspettative di vita, ha accreditato la tesi della necessità di almeno 500.000 nuovi nati all’anno; vi hanno fatto eco una sequela di affermazioni clerico-razziste sulla necessità di una filiazione italiana – beninteso da coppie eterosessuali – per scongiurare il pericolo di “sostituzione etnica” da parte degli immigrati “che ci invadono”. Il ministro Lollobrigida si è lanciato nella difesa dell’etnia italiana e dell’identità della “nazione” da difendere con ogni mezzo.

        Queste squallide dichiarazioni si potrebbero liquidare come grottesche, se non fossero condivise da esponenti della classe dirigente di numerosi paesi dell’occidente industrializzato, sostenute dal fondamentalismo religioso e da centinaia di associazioni antiabortiste, se non si collegassero alle tesi di raggruppamenti neo-nazisti che coltivano teorie sulla purezza della razza di hitleriana memoria.

        Il governo riafferma la concezione della famiglia gerarchica, patriarcale e bianco-arianamalgrado l’esistenza attuale di una molteplicità di forme di famiglia e di convivenza – arrivando a non riconoscere i diritti dei figli di coppie omogenitoriali, impedendone la registrazione anagrafica, come un tempo si discriminavano i figli nati fuori dal matrimonio. 

        Durante la convention sulla natalità, gli oppositori di centro-sinistra (Schlein, Conte, Carfagna, Bonetti) non hanno saputo che esporre le difficoltà economiche delle donne e le carenze dei servizi sociali di sostegno (di cui sono responsabili i governi di tutti i colori) a giustificazione del calo delle nascite. 

        Meloni ha risposto prospettando interventi vari, già promessi senza esito diverse volte, ma soprattutto incentivi alle aziende che assumono donne o le riassumono dopo la maternità. Perché le donne “devono poter lavorare”:  in realtà,  per dirla tutta, mancando il sistema economico di una sufficiente offerta di forza- lavoro, le donne devono continuare a rimbalzare dallo sfruttamento nella sfera del mercato formale a quello nella sfera familiare, in più portando “figli alla patria”. 

        Nessun accenno ai fattori di infertilità dovuti all’inquinamento ambientale, alla mancanza di fiducia nel futuro o allo stress del doppio lavoro, aumentati enormemente tra le coppie sterili che vorrebbero un figlio; nessun rammarico per gli “aborti bianchi” dovuti alle pesanti condizioni di lavoro nelle fabbriche.

        Noi pensiamo che la crisi demografica che investe i paesi dell’occidente industrializzato – in cui l’Italia si colloca ai primi posti –  sia una crisi di capacità del sistema capitalistico di riprodurre la specie umana, nella sua fase decadente distruttiva. Questo problema rimane irrisolto all’interno delle istituzioni sociali storicamente determinate che privatizzano e scaricano la responsabilità genitoriale sulle sole donne, rinchiudendole nella subordinazione di genere. 

        La diminuzione delle nascite è la risposta legata soprattutto ai cambiamenti di immagine che le donne hanno di sé, ai programmi di vita che vanno oltre lo scopo tradizionale della procreazione, al diritto di scelta che si sono conquistate, compreso quello di accedere alla maternità in una età non precoce come un tempo. Su questo i bonus economici possono poco, come dimostra l’esperienza degli stati dove le politiche familiari sono più sviluppate.

        La visione del mondo sessista e nazionalista delle destre, per altro tacitamente connivente con gli spazi di profitto aperti da una vasta casistica di forme del mercato riproduttivo, viene portata in tutti gli ambiti possibili, nel tentativo di influenzare il senso comune e il mercato del consenso.  

        Quando incontra il dissenso pubblico, la vocazione autoritaria è pronta ad impedirne l’espressione. E’ accaduto recentemente al Salone Internazionale del Libro di Torino, quando la presentazione di un libro di Eugenia Roccella, ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità, è stata contestata dai collettivi di Extinction Rebellion e di Non una di meno di Torino. L’episodio si è concluso con la denuncia di 29 attiviste, che dovranno rispondere del reato di violenza privata. 

        Ad esse va la nostra completa ed attiva solidarietà. E’ evidente l’intento intimidatorio di dissuadere le contestazioni simili, di stroncare sul nascere ogni opposizione accampando il pretesto della libertà di parola, pur non mancando certo né la ministra Roccella né gli altri politicanti di strumenti per far sentire la propria voce e imporre il peso della maggioranza.

        Meloni ha definito l’episodio “inaccettabile e fuori da ogni logica democratica”. Ma non è certo accettabile né democratico disapplicare la legge 194 con l’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici, tagliare le spese ai consultori e alle strutture della salute riproduttiva, usare mezzi di umiliazione e di ricatto come il seppellimento dei feti per colpevolizzare le donne che ricorrono all’aborto, distribuire finanziamenti ai movimenti pro-life che proprio in Piemonte hanno raggiunto la cifra record di 400 milioni.

      4. Grecia, ondata di destra, crollo della sinistra

        Grecia, ondata di destra, crollo della sinistra

        Risultato sorprendente o prevedibile?

        di Yorgos Mitralias

        Come spiegare la vittoria, o meglio il trionfo, della destra greca e la sconfitta, o meglio il crollo, della sinistra di Syriza nelle elezioni del 21 maggio? Come spiegare il fatto che Nuova Democrazia (ND) del primo ministro Kyriakos Mitsotakis abbia ottenuto più del doppio dei voti (41%) rispetto a Syriza (20%)? E come si spiega il fatto che la sinistra – praticamente di tutte le confessioni – fino alla vigilia delle elezioni prevedeva risultati elettorali che sarebbero serviti da trampolino di lancio per l’assalto finale di un nascente movimento popolare greco contro il potere di una destra in crisi?

        Piuttosto che cercare le cause di tutte queste enormi “sorprese” negli “errori di comunicazione” che vengono tradizionalmente evocati dopo le sconfitte, o in questa o quella “gaffe” pre-elettorale commessa da qualcuno destinato a essere usato come capro espiatorio (come, ad esempio, sta facendo attualmente l’ex ministro degli Esteri George Katrougalos) per salvare il suo capo, preferiamo guardare più in profondità, iniziando a ricordare un fatto comprensibile per i lettori europei perché si riferisce al recente disastro ferroviario greco, che è stato ampiamente commentato ben oltre la Grecia.

        Come ricorderete, il ministro dei trasporti responsabile dell’incidente, Konstantin Karamanlis jr, è stato costretto a dimettersi e una parte della destra politica e mediatica ha fatto campagna affinché non si ricandidasse per evitare la sconfitta elettorale del suo partito (ND). A tutto ciò si aggiunga che pochi giorni prima delle elezioni, le famiglie delle 56 persone morte in questo disastro ferroviario hanno manifestato davanti all’ufficio elettorale di Karamanlis, gridando “Il posto di Karamanlis non è in Parlamento ma in prigione”. Il risultato: non solo Karamanlis è stato rieletto, ma ha fatto un vero e proprio trionfo!

        La trionfale rielezione di Karamanlis la dice lunga ed è anche molto emblematica dello stato attuale della società greca. Quindi, se vogliamo cercare le cause delle recenti “sorprese” elettorali non in superficie ma nel profondo della realtà greca, dobbiamo partire dalla constatazione che l’attuale società greca è molto conservatrice e addirittura reazionaria.

        In altre parole, è terribilmente razzista, molto più della società polacca, il che è confermato anno dopo anno non solo dai fatti ma anche dai sondaggi, compresi quelli annuali dell’Hellenic Statistical Authority. Una società che, con poche eccezioni, chiude sistematicamente gli occhi e le orecchie di fronte agli innumerevoli atti disumani – spesso omicidi – compiuti dalle autorità contro i migranti, denunciati e condannati pubblicamente da decine di ONG (che spesso vengono definite… “terroristi” dal governo greco), nonché dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e persino dalla Commissione europea!

        Una società che continua a coltivare un aggressivo sciovinismo nei confronti dei suoi vicini balcanici, perpetuando un antico e virulento antisemitismo che si manifesta soprattutto nella profanazione dei cimiteri ebraici, dal momento che in Grecia non è rimasto praticamente nessun ebreo vivo dopo la Shoah.

        Inoltre, un’altissima percentuale si dichiara filo-russa, filo-Putin e anti-ucraina come in nessun altro luogo, proprio come 30 anni fa era filo-Milosevic e filo-Karadjic durante le guerre jugoslave.

        Inoltre, vota a centinaia di migliaia per i partiti razzisti che si collocano a metà strada tra l’estrema destra e il vero e proprio neonazismo. Ecco perché, in assenza della disciolta e bandita Alba Dorata, i vari partiti dell’estrema destra greca hanno ottenuto poco più del 10% alle ultime elezioni. E questo nonostante il fatto che la tradizionale destra Nuova Democrazia, che comprende un’ala molto forte di estremisti di destra, abbia appena trionfato con il 41% dei voti…

        Ma come è possibile che i greci siano diventati così conservatori o addirittura reazionari quando questi stessi greci hanno votato in massa a favore e portato al governo una sinistra piuttosto radicale (Syriza) solo otto anni fa?

        La risposta a questa domanda critica ed essenziale non ha nulla a che fare con la metafisica, il DNA o le “predisposizioni” dei greci. In realtà, la vera metamorfosi della società greca nel giro di pochi anni non è piovuta dal cielo, ma è la diretta conseguenza delle scelte politiche compiute dalla leadership di Syriza quando ha governato il Paese dal 2015 al 2019. La storia è nota e non può essere riassunta semplicemente con la capitolazione del luglio 2015, quando Tsipras e i suoi amici hanno tradito la fiducia dei loro elettori e di quel 60% di greci che avevano votato NO alla sottomissione ai dettami dei creditori dell’UE e del FMI.

        In realtà, l’enorme tradimento di Syriza è stato costituito da innumerevoli piccole, medie e grandi capitolazioni, che sono continuate dopo il 2019 e fino ad oggi, e hanno contribuito alla metamorfosi di questo partito della cosiddetta “sinistra radicale” in un partito i cui leader ora non esitano a definirlo pubblicamente come… “centro-sinistra”…

        Le conseguenze sono state e continuano a essere drammatiche. Sia in Grecia che altrove. Come abbiamo scritto nell’agosto 2015,

        “la situazione creata nel movimento socialista e progressista internazionale dalla capitolazione di Syriza è terribilmente pericolosa. Non si tratta solo del fatto che migliaia e migliaia di persone sono spinte ad abbandonare ogni attivismo e a ritirarsi in se stesse. Né il fatto che altrettante persone si sentano paralizzate e scelgano di aspettare passivamente l’evolversi degli eventi. Soprattutto, il tradimento di Syriza arriva in un momento storico estremamente critico, in cui l’estrema destra razzista sta avanzando quasi ovunque nel nostro continente, rendendo immediata e diretta la minaccia che gran parte dei cittadini europei delusi da Syriza cadano preda di questa estrema destra razzista, neofascista e autoproclamatasi “antisistemica”.

        E pochi mesi dopo, sempre nel 2015, prendevamo atto della devastazione già operata dalla capitolazione di Syriza, avvertendo che:

        “il grande evento che sta aprendo i viali all’estrema destra è la delusione causata a decine di milioni di cittadini europei, che non si identificano né con le politiche di austerità né con la corruzione dei partiti neoliberali tradizionali, dal tradimento delle loro speranze investite nella Grecia di Syriza e nella Spagna di Podemos. Quando, il 21 agosto, parlavamo già delle ‘responsabilità criminali di Tsipras’ nelle ‘catastrofiche conseguenze internazionali dell’annunciata capitolazione di Syriza’, pochi capivano davvero di cosa stessimo parlando. Oggi, quando queste ‘catastrofiche conseguenze internazionali’ ci guardano in faccia e appaiono in tutta la loro grandezza da incubo, chi oserebbe ancora contestare le ‘responsabilità criminali’ di Tsipras, ma anche dell’intera leadership di Syriza, nella scomparsa dell’ultima speranza che costituiva l’ultimo argine europeo in grado di trattenere la marea dell’estrema destra?”

        Approfittando dell’impreparazione della destra, che aveva appena iniziato a riorganizzarsi, della mancanza di prospettive e di respiro del resto della sinistra e soprattutto dell’apatia del “popolo della sinistra”, ancora stordito dal vero e proprio colpo ricevuto nel 2015, Syriza è riuscita a rimanere al potere fino alla fine della legislatura. Infatti, pur essendo stata battuta da ND nelle elezioni del 2019, ha lasciato il potere con un risultato più che rispettabile (31%).

        Ma il tempo trascorso all’opposizione non è servito alla leadership di Syriza né per riconoscere i propri errori né per correggere la rotta. Al contrario, ha continuato e persino approfondito la sua deriva destrorsa verso un fantomatico “centro” che voleva – invano – mettere in competizione con la destra.

        È così che, con l’aumento della distanza dal potere, siamo arrivati al disastro delle elezioni del 21 maggio 2023. Il “miracolo” Syriza stava per finire e il partito del 2023 non aveva nulla in comune, anzi era l’antitesi di quello che era stato all’inizio: da raggruppamento unitario (unico al mondo!) di una dozzina di partiti e organizzazioni di sinistra e di estrema sinistra, Syriza era diventato un partito di notabili carrieristi e di altri disertori di un PASOK morente.

        Il cerchio si era completato e il radicalismo iniziale era stato sostituito dall’arroganza e dal cinismo dei nuovi ricchi…

        E il resto della sinistra greca?

        Il fatto che non stia beneficiando del crollo di Syriza la dice lunga sui suoi limiti attuali. La coalizione di estrema sinistra Antarsya rimane notevolmente stabile, ripetendo (all’infinito?) il suo risultato dello 0,5%. E il CP (KKE), sempre visceralmente settario, descrive come una “grande vittoria” il fatto che il suo risultato sia passato dal 5,3% del 2019 all’attuale 7,2% e, come al solito, rimane rannicchiato nel suo angolo, ancora innocuo per la destra, che lo rispetta e lo lascia in pace così come rispetta la destra e la lascia in pace per governare il paese.

        Quanto a Varoufakis e ai suoi alleati dell’Unione Popolare (LAE), il loro risultato (2,6%) è più che eloquente: non solo non confermano le previsioni trionfalistiche – al limite della mitomania – in cui Varoufakis tradizionalmente eccelle, ma non riescono nemmeno a entrare in parlamento, e sono in calo (-30%) rispetto al 2019!

        Ancora una volta, l’incoerenza di Varoufakis non ha dato i suoi frutti, nonostante abbia fatto di tutto per superare persino i suoi alleati del LAE nel putinismo incondizionato…

        Ovviamente, la conclusione non può essere ottimistica.

        Quando la destra di Nuova Democrazia riesce non solo a vincere ma a trionfare, nonostante il fatto generalmente accettato che il governo fortemente neoliberista di Mitsotakis sia stato travolto da uno tsunami di scandali senza precedenti, i fatti parlano più di qualsiasi analisi sullo stato della società greca e della sinistra greca.

        Così come, del resto, quando Tsipras è molto meno popolare di Mitsotakis, anche se tutti sanno e ammettono che quest’ultimo è senza scrupoli e non esita a buggerare sistematicamente anche i suoi stessi ministri e qualche migliaio di altri amici e nemici. Mitsotakis potrebbe quindi dormire sonni tranquilli se non fosse per l’estrema “volatilità” che ha caratterizzato la società greca negli ultimi 15 anni.

        Come quasi ovunque in Europa, non si possono escludere esplosioni sociali, ma il grande problema è che nessuno può prevedere chi ne beneficerà politicamente. Sarà una nuova sinistra radicale unita che dovremo inventare, o l’estrema destra che è solo in crescita? Quello che succederà promette di essere molto eccitante…

      5. La Sardegna, “cortile dietro casa”

        La Sardegna, “cortile dietro casa”

        Proprio 10 anni fa, nel maggio del 2013, un certo numero di compagne/i scelse di interrompere la loro militanza nell’organizzazione “Sinistra Critica” e di dare vita ad un’altra organizzazione “Sinistra Indipendentista Sarda – Movimento Anticapitalista”, più conosciuta attraverso il suo suggestivo acronimo SIS-MA.

        In quel periodo, l’organizzazione italiana Sinistra Critica, peraltro, si dibatteva in un complesso e divisivo dibattito interno che sfociò in una scissione tra “Sinistra Anticapitalista” e “Communia”. Dunque, quella che era l’attrazione del progetto di Sinistra Critica si stava drasticamente affievolendo e tutto questo incoraggiava le compagne e i compagni sardi a fare le loro scelte.

        Ma quelle scelte non erano tanto una soluzione di ripiego di fronte al dissesto del progetto italiano. Quelle scelte si basavano sulla percezione della necessità di parlare ad un disagio a cui nessuno dava risposte.

        Si trattava, per SISMA, di dare vita ad un’azione politica che si radicasse e avesse la sua ragion d’essere nel diritto della Sardegna all’autodeterminazione, alla sovranità e all’indipendenza.

        SISMA si dichiarava marxista e anticolonialista, denunciando i secoli di colonizzazione violenta da parte dell’Italia (prima “sabauda”, poi “risorgimentale”, e infine fascista), colonizzazione però continuata, seppure con forme nuove, fatte di blandizie e di brutalità, di promesse e di menzogne nella culla consolatoria della costituzione del 1948 (“La repubblica è una e indivisibile”).

        SISMA manteneva infatti l’impostazione marxista e rivoluzionaria che alcuni dei suoi fondatori avevano maturato militando in Sinistra Critica, ma aveva tra i suoi punti di riferimento anche quel Partito Comunista di Sardegna, che elaborò indirizzi programmatici del tutto avversi al centralismo del PCI. In quel programma si immaginava la Sardegna come repubblica autonoma e sovrana, parte costituente di una repubblica socialista federativa più ampia.

        Il PC di Sardegna fu sciolto nel 1944 sotto le pressioni centraliste del PCI togliattiano.

        Da allora la bandiera dell’autodeterminazione sarda era stata affidata ad interpreti a tratti spuri e, comunque, di ispirazione ideologica la più diversa.

        La componente di matrice marxista è comunque riemersa più volte nel corso dei decenni. Si pensi all’esperienza di Su Populu Sardu negli anni ’70 e – nonostante l’impostazione a tratti settaria – a Manca pro s’Indipendentzia nel primo decennio di questo secolo. E ancor oggi, pur nel quadro di un indipendentismo che ha perso la spinta propulsiva del decennio 2003-2013, la sinistra di matrice anticolonialista conta alcune organizzazioni politiche attive nelle lotte come Liberu e Caminera Noa.

        Il progetto di SISMA, invece per una serie di ragioni legate anche a fattori personali come l’emigrazione dalla Sardegna, si arenò e quell’organizzazione nei fatti si sciolse.

        Si è trattato di uno dei tanti fallimenti della sinistra anticapitalista, segnata da sempre da un eclettismo culturale e da una scarsa capacità di mettersi in “connessione sentimentale” con il popolo.

        Come si sa, in questo mondo in cui tutto ricerca la “crescita”, il “profitto”, la ricchezza, tutto viene valutato e gerarchizzato in base agli stessi parametri. Così, la Sardegna, che è una delle ultime regioni per “contributo al PIL nazionale”, da questo governo, ma anche da tutti i precedenti governi di ogni colore, viene trattata come un territorio di risulta, a disposizione non di chi ci abita ma della politica nazionale italiana, come un “cortile dietro casa” nel quale fare quelle cose che non si possono fare nel “giardino di fronte”.

        Così, complice la delicata posizione geografica dell’isola, la Sardegna è stata ritenuta il terreno di passaggio dei giganteschi tubi della SNAM, per portare il gas fossile dall’Algeria al continente, le baie di Porto Torres e di Portovesme i siti per collocare due navi rigassificatrici, Porto Canale e Santa Giusta di Oristano i luoghi più adatti per costruire impianti stabili di rigassificazione, tutti impianti che si prevede di interconnettere con 400 chilometri di metanodotti.

        E il popolo sardo e la sua isola non sono solo insidiati dalla rigassificazione ma anche dalla militarizzazione del territorio.

        Proprio in questi giorni, come avviene periodicamente da anni ma con frequenza crescente, la Sardegna ancora una volta vivrà la sua guerra simulata, con reparti militari di numerosi paesi della NATO in azione nei poligoni di Teulada, Quirra e Decimomannu e con una flotta sempre “atlantica” a mimare operazioni di sbarco.

        Queste dimostrazioni di forza militare, oltre ad avvelenare le acque e il terreno sardi con i loro esplosivi, i loro missili, i loro proiettili, il loro uranio impoverito, mostrano in modo sfacciato e vergognoso il loro totale disinteresse per l’integrità e la dignità della gente sarda. Contro questo stato di cose il 2 giugno a Cagliari si terrà un corteo “Contro l’Occupazione Militare della Sardegna” promosso dal movimento A Foras.

        E, come se non bastasse, questa volta in nome di una “transizione ecologica” pensata e gestita a beneficio del profitto delle multinazionali energetiche, proprio pochi giorni fa, il sindaco di Villanovaforru, nel sud dell’isola, a metà strada tra Oristano e Cagliari, ha ricevuto l’avviso dal ministero dell’Ambiente del progetto già avviato da due di multinazionali della “transizione ecologica”, di installare sul territorio di quel comune e su quello di altri centri vicini numerose gigantesche pale eoliche (oltre 200 metri di altezza), espropriando terreni agricoli e devastando irrimediabilmente il paesaggio delle colline della Marmilla, rovinando l’ambiente, le colture, il turismo, e complessivamente un territorio immerso nel verde e ricco di storia.

        Nel caso degli agricoltori della Marmilla il “sacro principio della proprietà privata” non vale e, senza neanche consultarli prima, le multinazionali hanno già proceduto ad attivare gli espropri.

        Maurizio Onnis, il sindaco di Villanovaforru, nella sua campagna di resistenza contro l’invasione delle multinazionali eoliche, denuncia le complicità dei gruppi dirigenti e della borghesia sarda.

        Oggi più che mai ci sarebbe bisogno di un’azione decisa per rilanciare un’azione anticapitalista, anticentralista, ambientalista e antimilitarista. Di provocare un nuovo “sisma” nella politica sarda e italiana.

      6. Migranti, da hospes a captivus

        Migranti, da hospes a captivus

        Con il documento che potete leggere qui sotto, scritto da Stefania Piras, Camilla Ponti, Nicola Cocco, per il collettivo NoCPRSalute (Mai più Lager – No ai CPR) e pubblicato sull’ultimo numero (maggio 2023) della rivista di Medicina democratica, inauguriamo la sezione di rosarossaonline.it dedicata al tema dei migranti. In questa sezione pubblicheremo materiali di riflessione, ma anche di iniziativa e di lotta su questo tema così cruciale in questa fase storica.

        Le basi psicopatogene della criminalizzazione delle persone migranti e della detenzione amministrativa

        “Ma vi sono altri esseri più sventurati ancora che, senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi ha alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che proceda da loro; non si tratta di uomini che vivono più duramente di altri, posti socialmente più in basso di altri; si tratta di un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere. Che un essere umano possa essere una cosa è da un punto di vista logico una contraddizione; ma, quando l’impossibile è divenuto realtà, la contraddizione diventa strazio nell’anima. Questa cosa aspira in ogni momento ad essere un uomo, una donna, e in nessun momento ci riesce. È una morte che si allunga per tutto il corso di una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa”
        Simone Weil., Divide et impera, 1941

        Dalle origini, abbiamo lasciato a pochi – imperatori, re, istituzioni – il potere di decidere arbitrariamente chi potesse avere il privilegio e chi no di appartenere alla categoria di essere umano. L’idea stessa di società – antica e moderna – si è generata grazie alla suddivisione degli esseri umani in gerarchie; la base di questa piramide è sempre stata costituita da tutte quelle persone identificate come “non umane” e dunque schiacciabili, sfruttabili ed eliminabili.

        Basti pensare alla figura dell* schiavo, corpo/oggetto privato di qualsiasi tipo di libertà e autodeterminazione, che ha origine nella genesi stessa delle prime civiltà. Lo svuotare una persona degli attributi attinenti alla categoria essere umano permette la messa in atto contro di lei di azioni che, altrimenti, non sarebbe possibile compiere.

        Questo processo di esclusione di alcune persone dalla categoria dell’umano viene chiamato deumanizzazione.

        Deumanizzare significa “negare l’umanità dell’altro – individuo o gruppo – introducendo un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato privo o carente” (Volpato 2011, 4). La deumanizza zione contiene una componente psichica/cognitiva – privare l’altro degli attributi fondamentali caratteristici dell’essere umano – e una emotiva – assenza di empatia verso chi si ritiene esserne privo -;

        da un punto di vista psicologico e sociologico, può essere messa in atto come:

        • un processo psicologico individuale portato avanti da un singolo;
        • un fenomeno sociale di massa.

        Le scienze comportamentali, psicologiche e sociologiche hanno iniziato a studiare il processo di deumanizzazione in seguito alle terrificanti azioni dell’esercito nazista. Lo studio della cosiddetta soluzione finale, e delle condizioni che l’hanno resa possibile, è nato al fine di evitare che una tale deumanizzazione di massa potesse avvenire di nuovo. Eppure, al giorno d’oggi, alcune persone continuano ad essere private del diritto di essere considerate umane.

        Concentrandoci sulle società occidentali, autonominatesi patrie dei diritti umani, il processo di deumanizzazione prosegue indisturbato, colpendo soprattutto la figura della persona straniera/non-cittadina e della persona migrante. È interessante notare come, nel corso dei secoli, i concetti di ospitalità e di straniero si siano profondamente modificati.

        Il termine “ospite”, che in italiano ha un doppio significato (colui che è ospitato, ma anche colui che ospita), deriva dal termine latino “hospes”, che significa sia straniero sia amico di casa.

        Il doppio contenuto semantico della parola hosps ci fa comprendere come, nell’antichità, l’idea della persona straniera fosse assimilata a quella di una persona cara, da accogliere e far sentire al sicuro. Il termine greco xenìa – da cui oggi deriva, al contrario, la parola xenofobia – stava proprio a simboleggiare uno specifico tipo di amore: quello tra l’oste e la persona ospitata.

        Tuttavia, anche la parola latina hostis ha una doppia accezione: sta a significare sia nemico che straniero. Dunque, la persona straniera, da hospes gradita può trasformarsi in colei che ci è ostile. Quindi, passando per il termine hostis, la persona straniera può diventare captivus – prigioniera di guerra – e, in quanto bersaglio morale (“cattiva”), può essere legalmente privata della libertà personale.

        Questa degradazione dal sacro concetto del mondo classico di “hospes” all’“hostis” minaccioso e da combattere, fino ad arrivare al “captivus”, può rappresentare un correlato storico-culturale per inquadrare la percezione profondamente negativa della persona straniera nella nostra società attuale.

        Infatti, la nostra realtà sociale è attraversata da forti pulsioni xenofobe e razziste, e da una gestione politica dei fenomeni migratori che legalizza la criminalizzazione delle persone migranti, fino all’elaborazione e attuazione del dispositivo della detenzione amministrativa. La deumanizzazione della persona straniera e migrante odierna rappresenta una conseguenza naturale e “burocratica” di tali processi, i cui possibili effetti psicosociali sulle persone coinvolte saranno affrontati più avanti.

        I CPR, Centri di permanenza per il rimpatrio

        “La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere ne*ro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammontic- chiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colo- nizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù”
        Frantz Fanon, 1961

        I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono dei luoghi all’interno dei quali vengono recluse persone in detenzione amministrativa (1), un tipo particolare di detenzione utilizzata dall’apparato di sicurezza statale nei confronti di persone straniere/non-cittadine ritenute irregolari per evitare il rischio di fuga durante il processo di identificazione e successiva deportazione (2). Per approfondire il tema della creazione dei CPR e del loro inquadramento giuridico, si rimanda ad altri articoli della Rete “Mai più lager – NO ai CPR” (vedi qui e qui). In queste pagine il focus è quello di evidenziare la patogenicità e la disumanità di questi luoghi e di analizzare gli aspetti di principale sofferenza psicologica causati e/o aggravati dal CPR.

        (1) Per quanto venga spesso identificata la specificità della detenzione amministrativa nella “reclusione in assenza di reato”, va rilevato che anche individui con pregressi reati penali, ad esempio provenienti dal carcere, si trovano ad essere detenuti nei CPR: la mancanza di accesso ai diritti propria di questi luoghi nonché i loro effetti patogeni interessano in egual modo tutti i soggetti che vi si trovano reclusi, a prescindere dalla sussistenza di reati nel loro vissuto. La maggiore comprensione del senso di “ingiustizia” vissuta da chi si trova ad essere detenuto in assenza di reato penale rappresenta una semplificazione del senso comune, e questa nostra riflessione vuole essere quanto più analitica delle criticità intrinseche dei CPR quanto più inclusiva nei confronti degli individui che vi si trovano detenuti.

        (2) Il termine “deportazione”, che nella lin- gua italiana viene spesso collegato a episodi storici di massa, relativi in particolare ai conflitti mondiali del Novecento, viene qui utilizzato in quanto, come dimostrato dal- l’utilizzo corrente di “deportation” nella let- teratura anglofona che si occupa di questi temi, il termine “rimpatrio” lascia trasparire un substrato di volontarietà e accettazione del provvedimento amministrativo statale da parte dell’individuo deportato (ne è un
        riscontro la dicitura specificata “rimpatri
        forzati” che anche il linguaggio burocratico
        delle direttive ministeriali è costretto ad utilizzare). La semplice etimologia del termine
        “deportare”, con la preposizione de- ad
        indicare l’allontanamento del soggetto dal
        posto in cui ha deciso di stare, chiarisce
        come tale atto sia eterodiretto, in questo caso
        da un provvedimento forzato legalizzato.

        La criminalizzazione della persona straniera/non-cittadina e la sua desoggettivazione all’interno del CPR

        Un aspetto fondamentale del processo di deumanizzazione è che esso avviene, da un punto di vista temporale, prima della messa in atto di comportamenti violenti e/o contrari alla dignità umana.

        In altre parole, non si deumanizza l’altro perché lo si vede meno umano; al contrario, per poter percepire l’altro meno umano, è necessario prima deumanizzarlo. Dunque, secondo il pensiero di Volpato, la deumanizzazione può essere considerata come “un’arma fondamentale per chiunque intenda compiere azioni di violenza estrema verso altre persone o gruppi” (Volpato 2011, 28).

        All’interno di questo concetto è racchiusa l’essenza stessa del processo di deumanizzazione: la legittimazione della violenza. Sorge quindi spontanea una domanda: quale espediente utilizziamo al fine di deumanizzare la persona straniera e migrante?

        Come citato in precedenza, trasformandola da hospes a hostis e da hostis a captivus.

        Lo psicologo statunitense Philip Zimbardo, teorizzatore dell’“effetto Lucifero” cui faremo riferimento più avanti, analizza lo strumento principale utilizzato da uno stato o da un insieme di persone al fine di giustificare azioni crudeli e violente: la creazione di una propaganda d’odio verso il nemico, tramite l’ideazione di un’immaginazione ostile.

        “Che cosa ci vuole perché i cittadini di una società detestino quelli di un’altra società al punto da volerli segregare, torturare, addirittura uccidere? È necessaria un’“immaginazione ostile”, una costruzione psicologica profondamente radicata nella loro mente dalla propaganda, che trasformi gli altri nel “Nemico”.

        Tale immagine è la motivazione più potente di un soldato, quella che carica il suo fucile con le munizioni dell’odio e della paura. L’immagine di un nemico temuto che minaccia il benessere individuale di una persona e la sicurezza nazionale della società spinge madri e padri a mandare i loro figli in guerra e autorizza i governi a cambiare l’ordine delle priorità per trasformare i vomeri degli aratri in spade di distruzione” (Zimbardo, 2008, p: 13).

        Secondo Zimbardo, questo processo di costruzione dell’odio incomincia tramite la formazione di concezioni stereotipate dell’altro che puntino a privarlo delle caratteristiche proprie di un essere umano. Dunque, si trasmette un’immagine dell’altro come di un mostro, di un criminale immorale, di una qualcosa di demoniaco e inarrestabile, di un virus o di un animale disgustoso e pericoloso.

        Riferendosi alla campagna d’odio e di allarmismo portata avanti dalla politica italiana ed europea nei confronti dei fenomeni migratori, si va incontro a quella che viene definita criminalizzazione della persona straniera e migrante.

        Quante volte all’interno di articoli di giornale, servizi televisivi o dibattiti e comizi politici abbiamo sentito utilizzare le parole “invasione”, “pericolosità sociale”, “bisogno di sicurezza”, “rubare il lavoro”? Quante volte, a seguito di un reato, viene specificata la nazionalità del reo esclusivamente se non è quella italiana?

        Se al grande pubblico viene trasmessa l’idea che l’equazione migrazione = pericolo sia moralmente corretta e veritiera, tramite anche la manipolazione e la distorsione di dati e statistiche, il perpetrare abusi indisturbati diviene molto più semplice. Quindi, ciò che permette la deumanizzazione della persona straniera e migrante è la sua criminalizzazione, e la messa in atto della trasformazione da hospes a hostis.

        Dopo la diffusione dell’immagine della persona migrante quale pericolosa e quindi da individuare e rinchiudere, il passaggio da hostis a captivus è molto semplice. La criminalizzazione è il presupposto socioculturale necessario alla giustificazione della detenzione amministrativa e al mantenimento dei CPR.

        Le modalità tramite le quali una persona viene portata all’interno dei CPR, l’architettura e il funzionamento dei centri sono tutti aspetti correlati al rafforzare l’idea che, nei confronti della persona straniera e migrante, siano necessarie azioni di violento contenimento.

        Inoltre, le caratteristiche detentive e deumanizzanti tipiche del percorso all’interno dei CPR hanno un altro, fondamentale scopo condiviso con tutte le istituzioni totali: quello di assoggettare e sottomettere la persona straniera e migrante tramite una sua desoggettivazione. Desoggettivare significa privare una persona della possibilità di vivere come un individuo unico, irripetibile ed autodeterminato, togliendole tutte le caratteristiche che la rendono chi è.

        Significa strappare ad una persona il proprio Sé, spogliandola della complessità insita in ognuno di noi. Significa ridurla ad essere nuda vita. Il concetto di nuda vita venne teorizzato per la prima volta da Giorgio Agamben; il filosofo, ricollegandosi al concetto di biopolitica (3) foucaultiano, riflette su come la politica abbia la facoltà di creare e giustificare situazioni di eccezione giuridica all’interno delle quali i diritti caratterizzanti la tutela dell’essere umano vengono meno, al fine di controllare al massimo le persone assoggettate, riducendole a meri corpi che respirano.

        (3) Per Foucault la biopolitica è quell’insieme di pratiche tramite cui la rete di poteri regola e gestisce i corpi – e dunque la vita – delle persone assoggettate.

        Questi corpi, privati delle prerogative sociali e individuali della vita umana, diventano oggetti/ostaggi alla mercé di un potere che ne può fare ciò che desidera. Sono vite conosciute e considerate per negazione: ci accorgiamo di loro soltanto nel momento in cui ne eliminiamo la più profonda essenza umana e ne decretiamo la morte simbolica e sociale.

        Di seguito, verranno analizzati i principali aspetti della detenzione amministrativa e del funzionamento dei CPR, utili al fine di desoggettivare le persone al loro interno rendendole nuda vita.

        Un primo, agghiacciante aspetto riguarda l’accompagnamento e l’entrata all’interno dei CPR. Spesso, le persone vengono costrette verso i CPR con metodi coercitivi e tramite l’utilizzo di manette, fascette di velcro o altri strumenti di contenzione, con scarse se non nulle informative di carattere giuridico e relative alla tutela dei diritti fondamentali. Questo aspetto per la psiche della persona straniera è disgregante, poiché, giustamente, viene destabilizzata e totalmente disorientata dal non riuscire a comprendere il perché di un simile trattamento, non avendo compiuto alcun reato che possa “validare” suddetti metodi.

        Inoltre, all’entrata nei CPR, ad ogni persona trattenuta viene affidato un codice numerico per il riconoscimento, codice che spesso viene utilizzato anche dall’operatore al posto del nome della suddetta persona.

        Gli operatori che collaborano nella Rete Mai più lager – NO ai CPR riportano come, diverse persone intervistate, da cui sono stati contattati in seguito alla detenzione, si presentano e parlano di sé utilizzando il codice numerico assegnatogli all’entrata, invece del proprio nome.

        Questo particolare tipo di deumanizzazione, che conduce ad una desoggettivazione totale e assoluta della persona, viene chiamato oggettificazione, e fa sì che l’individuo sia considerato e trattato come una cosa, una merce, uno strumento.

        Il processo di oggettivazione comprende sette dimensioni (Volpato 2011, p: 107):

        1. strumentalità: l’oggetto è uno strumento per gli scopi altrui;
        2. negazione dell’autonomia: l’oggetto è un’entità priva di autonomia e autodeterminazione;
        3. inerzia: l’oggetto è un’entità priva della capacità di agire e di essere attivo;
        4. fungibilità: l’oggetto è interscambiabile con altri oggetti della stessa categoria;
        5. violabilità: l’oggetto è un’entità priva di confini che ne tutelino l’integrità, è quindi possibile farlo a pezzi;
        6. proprietà: l’oggetto appartiene a qualcuno e può quindi essere venduto o prestato;
        7. negazione della soggettività: l’oggetto è un’entità le cui esperienze e i cui sentimenti sono trascurabili.

        Naturalmente non tutti gli individui oggettivati lo sono in tutti questi modi contemporaneamente.

        Rubare il nome, e dunque l’identità, ad una persona sostituendola con un numero, permette di avere un totale controllo su di lei. La desoggettivazione delle persone detenute, sostenuta da una loro precedente oggettificazione, permette anche di assopire il senso di colpa e la naturale empatia delle persone che lavorano all’interno dei CPR, e favorisce la messa in atto di comportamenti crudeli e violenti, contrari alla dignità umana.

        Zimbardo, in seguito al suo esperimento carcerario di Stanford (4), definì questo processo relazionale effetto Lucifero. Il concetto alla base dell’effetto Lucifero è che, se delle persone essenzialmente non violente vengono inserite all’interno di un contesto che favorisce la deumanizzazione e la conseguente desoggettivazione dell’altro, e sono investite di potere da un’autorità superiore, diventino capaci, in un lasso di tempo estremamente breve, di mettere in atto contro altri esseri umani azioni violente e terribili. La vastità della portata dell’effetto Lucifero verrà ripresa in seguito.

        (4) Philip G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008.

        Un altro aspetto volto a favorire la depersonalizzazione delle persone trattenute è l’aspetto fisico e architettonico dei centri. L’architettura di questi luoghi è indissolubilmente legata alla loro funzione: isolare – dalla comunità all’esterno, ma anche da se stessi – e contenere.

        La struttura e la funzione dei CPR rimandano indissolubilmente all’idea di carcere, di cui mancano però l’intento costituzionale di reinserimento sociale nonché di tutele dei diritti – incluso quello alla salute -: le persone vivono letteralmente sulla loro pelle il tragico paradosso della detenzione in assenza di un reato connesso alla detenzione stessa, e in attesa di espulsione.

        È bene sottolineare che qualsiasi persona entri all’interno del CPR, viene invasa da un’immediata, diffusa e penetrante sensazione di soffocamento. I CPR sono dei blocchi di cemento con muri infiniti e sbarre alle finestre, all’interno dei quale sono previsti dei moduli abitativi minuscoli (5), che non rispettano neanche le minime norme igieniche e sanitarie, sporchi, e spesso privi di porte, sanitari, arredamento, spazi per attività di culto e/o ricreative e/o lavorative: “sia i tavoli sia le panche della sala mensa di ciascun settore (uno spazio piuttosto contenuto che deve contenere 28 persone) erano insopportabilmente “appiccicosi”, e quando vengono distribuiti i pasti non vengono apparecchiati, neppure con tovagliette di carta. […] In entrambe le sale mensa si trova una gabbia, con riguardo alla presenza della quale anche il Garante Nazionale aveva espresso preoccupazione per le possibilità di utilizzo improprio. Da una di esse pende un cappio, utilizzato più di una volta da trattenuti per tentativi di suicidio, come raccontatoci da A.O.

        Ancora più sporchi si presentano i cortili di ciascun settore, sul cui suolo si trovano cartacce e resti di cibo, sui quali si fiondano i piccioni, tra i fili tesi del bucato “fai da te“ […]. Ma il limite della decenza viene oltrepassato nei bagni interni che accedono ai moduli abitativi: la sporcizia impera dappertutto, e le turche (non vi son water), claustrofobiche, sono separate una dall’altra da divisori senza porte, il che impedisce di avere alcuna privacy […] Il lavandino è lungo, unico e continuo, come fosse un abbeveratoio per il bestiame.” (De Falco, 2021, pp: 54 – 56).

        (5) 50 m2 bagni compresi, che ospitano fino a 7 persone. Cfr. Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Rapporto Sulle Visite Effettuate Nei Centri Di Permanenza Per I Rimpatri (CPR) (2019-2020) .

        La persona detenuta vive in una condizione di abbandono e isolamento totale. In aggiunta, all’ingresso nei CPR, spesso i telefoni cellulari vengono requisiti/danneggiati tramite la rimozione della videocamera, per evitare che le persone detenute possano comunicare con l’esterno e/o testimoniare le disumane condizioni a cui sono sottoposte.

        L’isolamento all’interno dei CPR, inoltre, non è solo un aspetto che riguarda la dimensione fisica della persona trattenuta, ma va ad intaccare anche la cerchia sociale e affettiva. Nei casi più eclatanti – ad esempio quando vi è la necessità di assistere un genitore anziano o prendersi cura di figli minori – la direttiva ministeriale che regolamenta la vita nei CPR considera questi bisogni delle vulnerabilità sociali che di fatto rappresentano motivo di non idoneità alla vita ristretta del CPR (6).

        (6) Art. 3 della Direttiva del Ministro dell’Interno del 19 maggio 2022 “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di permanenza per i rimpatri” (cd “Direttiva Lamorgese”).

        Tuttavia, tali situazioni “eccezionali” non prendono in considerazione il bisogno e il diritto di chiunque di avere un accesso alle proprie relazioni affettive, lavorative e familiari indipendentemente da situazioni di urgenza, e di fatto rischiano di rappresentare un ulteriore arbitrio sulla scelta di chi detenere o meno da parte dell’autorità giudiziaria.

        Dunque, la depersonalizzazione della persona detenuta avviene anche a livello relazionale, poiché vengono recisi brutalmente tutti i suoi ponti affettive e sociali.

        Inoltre, all’interno dei CPR le persone detenute non hanno la possibilità di cucinare da sole, come avviene invece nelle carceri. Spesso, è stato riferito come il cibo fornito da enti gestori fosse scaduto, avariato, insufficiente a sfamarsi o immangiabile.

        Capita non di rado che il detenuto sia obbligato, in assenza di uno spazio adibito alla consumazione dei pasti, a mangiare per terra, in piedi o sui materassi, a fianco dei servizi igienici. In aggiunta, nei CPR coabitano persone con storie, esperienze e aspetti culturali; tuttavia, il cibo fornito non tiene conto delle differenze di abitudini alimentari delle persone detenute, le quali sono obbligate a consumare ogni giorno pietanze, come la pasta, che non appartengono alla loro tradizione culinaria.

        Questo aspetto, che può in apparenza risultare secondario, è invece fondamentale: il diritto alla scelta è indissolubilmente legato al mantenimento della dignità umana.

        A favorire la totale depersonalizzazione delle persone detenute all’interno dei CPR è anche l’assenza di qualsiasi tipo di attività: le giornate all’interno dei CPR sono ogni giorno uguali a se stesse. Il report “Delle pene senza delitti – Istantanea del CPR di Milano“ riporta come, all’interno del CPR di via Corelli a Milano, l’unica attività concessa sia l’utilizzo – parsimonioso – di un mazzo di carte. La persona detenuta, dotata di passioni, capacità, titoli di studio e abilità lavorative, viene completamente privata della possibilità di coltivare qualsiasi tipo di interesse, e di conseguenza della possibilità di immaginare e sognare.

        Il tempo non appartiene più alla persona che lo vive, ma è scandito dall’Istituzione. Così, ora dopo ora, la persona perde del tutto il controllo sulla propria vita.

        Tutti gli aspetti sopra descritti possono essere racchiusi all’interno dei fattori di deumanizzazione e di conseguente desoggettivazione delle persone detenute nei CPR. Le conseguenze dirette a livello psichico, emotivo e identitario possono essere individuate in tre processi: disgregazione del Sé, alienazione e dissoluzione identitaria.

        Disgregazione del Sé

        Dal punto di vista psicologico e psicanalitico, il Sé ha varie sfumature di significato, ma può essere definito come il nucleo primario dell’identità di un individuo. Il Sé è il centro di integrazione dell’esperienza psichica, emotiva e fisica di una persona, è la costante interna che, sviluppandosi e consolidandosi, permette di significare se stesso e il mondo all’interno dell’esperienza quotidiana. Lo psicologo e psicanalista ungherese Peter Fonagy teorizzò che il bambino, alla nascita, fosse dotato di un Sé pre-riflessivo, o fisico (10).

        (7) Fonagy, P. (1996). Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità. Kos, 129, 26-32.

        Durante i primi due anni di vita, il bambino sviluppa anche un Sé riflessivo, o psicologico, che con il passare del tempo diviene sempre più strutturato, complesso e integro. Il Sé di una persona riesce a diventare coeso e funzionale grazie alla presenza di relazioni di accudimento positive e alla possibilità continuativa di portare avanti una vita densa di significato affettivo, autodeterminazione e realizzazione personale.

        Traumi profondi ed esperienze di deumanizzazione possono portare ad una frammentazione di questa struttura portante della vita psichica umana.

        Un Sé disgregato porta la persona a percepire di non avere controllo sulla propria vita e si trascina dietro una costante sensazione di estraneità e di alienazione dalla realtà e da se stesso, fino a renderla un corpo che sente di essere privato di un pensiero e di una psiche soggettivi.

        Questa disintegrazione può portare la persona a sperimentare un senso di angoscia ontologica e di puro terrore, oppure una totale apatia nei confronti di qualsiasi aspetto della vita, tramite una sorta di rassegnazione psichica ed esistenziale. Rimane costante però, a seguito di una disgregazione del Sé, l’impossibilità di significare se stesso e la realtà circostante in termini di stati mentali.

        Alienazione

        L’alienazione fu studiata in particolare da Karl Marx rispetto alla condizione del lavoratore industriale a seguito della diffusione del capitalismo e della catena di montaggio tayloriana. Alienarsi significa estranearsi dalla realtà e isolarsi a livello psichico ed emotivo, tramite la messa in atto di una dissociazione totale da noi stessi e di appiattimento alla realtà che ci circonda. Il processo di alienazione porta la persona a percepire costantemente la realtà psichica interna come un qualcosa di estraneo, intollerabile, da cui, per sopravvivere, è necessario allontanarsi.

        L’alienazione comporta una perdita di sensibilità nei confronti di qualsiasi stimolo, interno o esterno che sia, tramite un assuefazione totale. In una condizione di detenzione amministrativa, l’alienazione può essere vista come una forma di tutela del Sé, al fine di sopravvivere alle violenze disumane a cui si è sottoposto.

        All’interno di una realtà deumanizzante e terrorizzante, distaccarsi del tutto dalla realtà circostante può essere l’unica soluzione possibile per proteggersi. L’alienazione permette anche alla persona detenuta di allontanarsi dal proprio passato e futuro, aiutandola a tollerare la condizione di abbandono e isolamento totale alla quale è sottoposta.

        Dissoluzione identitaria

        A seguito del processo di desoggettivazione, che ha come conseguenze dirette sulla psiche la disgregazione del Sé e l’alienazione, non si può che assistere ad una dissoluzione identitaria della persona detenuta. La persona migrante entra all’interno dei CPR come essere dotato di un’identità unica e personale e si ritrova sottoposta a condizioni che le impediscono di portare avanti un processo di consolidamento della percezione di Sé.

        La totale assenza di qualsiasi tipo di attività priva la persona detenuta della possibilità di continuare a prendersi cura di esperienze significative per il proprio senso identitario: lavoro, passioni, attitudini, studi. Inoltre, la criminalizzazione e la detenzione in assenza di reato fanno scaturire nella persona migrante una dissonanza nei confronti di se stessa; infatti, l’impossibilità di riconoscersi e ritrovarsi nella figura del “criminale”, le impedisce di poter integrare le esperienze a cui è sottoposta.

        Capita quindi che, per sopravvivere e trovare coerenza nella realtà circostante, la persona sia costretta a forgiare dall’alienazione e dalla deprivazione un nuovo senso identitario, correlato a quello della figura detenuta e pericolosa socialmente. L’essere umano ha bisogno di significare e di essere significato, e si aggrappa a qualsiasi indizio che gli permetta di intuire chi sia all’interno della realtà.

        All’interno di questo processo di dissoluzione identitaria si inserisce il fallimento del progetto migratorio, per il quale la persona migrante che ha investito denaro, risorse fisiche, psicologiche e lavorative si ritrova a non poter raggiungere i fini che l’hanno portata a spostarsi dal proprio paese. Questo fallimento comporta la creazione di un forte senso di colpa e di impotenza. Oltretutto, per molte persone migranti l’Italia è solo un paese di passaggio per ricongiungersi con familiari e conoscenti in altri stati europei.

        Invece, si trovano costrette e detenute in uno stato che le vuole rimpatriare senza nemmeno aver dato loro la possibilità di chiedere asilo o protezione internazionale nel paese desiderato, o senza aver verificato se le donne che arrivano siano vittime di tratta o di sfruttamento sessuale non avendo quindi indagato le condizioni che le hanno portate a doversi spostare.

        Altri aspetti rilevanti per la salute mentale delle persone detenute all’interno dei CPR possono essere individuate nelle condizioni di violenza a cui sono sottoposte come soggetti e come spettatrici e nella carenza di personale, correlata all’abuso dell’utilizzo di psicofarmaci.

        Violenza subita e assistita

        La persona detenuta, anche a seguito delle conseguenze causate dall’effetto Lucifero sopra indicato, rischia di subire torture (8) e/o pestaggi per ‘il mantenimento dell’ordine interno’ senza che nessuno possa intervenire e/o tutelarla.

        Infatti, la totale deumanizzazione delle persone trattenute giustifica la messa in atto di violenze fisiche e/o psicologiche al fine di educarle alla realtà detentiva circostante. Dunque, la persona detenuta si trova a sperimentare un senso di impotenza appresa.

        (8) Il 2 novembre 2022, nel CPR di via Corelli di Milano, ad un ragazzo detenuto, il quale si era cucito le labbra con un filo di ferro per protesta, è stato strappato brutalmente questo filo di ferro da alcuni Agenti in assenza di un’assistenza medica/di un’anestesia, dopo essere stato braccato ed immobilizzato.

        Il concetto di impotenza appresa, teorizzato per la prima volta dallo psicologo Martin Seligman e poi ulteriormente studiato nelle donne soggette a violenza di genere, comporta la creazione di un’assoluta passività nella persona vittima di violenza la quale, non avendo alcun controllo rispetto alla situazione abusante a cui è sottoposta, tende a sopprimere qualsiasi tipo di iniziativa personale, al fine di adattarsi e sopravvivere.

        Di contro, può anche causare reazioni di estrema rabbia e violenza, messe in atto come tentativo di reazione alle ingiustizie subite. In ogni caso, l’impotenza appresa comporta una totale cancellazione del senso di speranza nei confronti di un cambiamento della propria condizione.

        Un altro aspetto di violenza fisica e psicologica può essere riscontrato nella messa in atto di rimpatri improvvisi. Infatti, diverse persone detenute hanno riferito di essere state svegliate nel mezzo della notte senza alcun preavviso, aggredite e poi portate via con la forza per essere rimpatriate. Questo aspetto di imprevedibilità dei rimpatri accresce nelle persone detenute un senso costante di precarietà della propria condizione; inoltre, spalanca in loro la disarmante consapevolezza che non sia concesso conoscere cosa accadrà in futuro, rendendo così impossibile l’avanzamento di un lavoro integrativo tramite il quale la persona si possa sentire protagonista attiva del proprio percorso e progetto migratorio.

        Per evitare i rimpatri improvvisi, accade (oltre che la persona si privi volontariamente del sonno per timore dei prelievi notturni – o delle cure – per timore di “agguati“ in infermeria) che nascano rivolte e atti di autolesionismo estremo, come il rompersi apposta una gamba.

        “H.A.K., uomo di 46 anni e padre di tre figli di 9, 5 e 4 anni, si è imbarcato a Zawiya, in Libia. Giunto a Lampedusa, viene isolato sulla nave GNV Allegra, dove manifesta l’intenzione di chiedere la protezione internazionale in Italia: “L’uomo ha paura di essere rimpatriato e chiede aiuto affinché questo non succeda”, è scritto sulla sua scheda della Croce Rossa […] Fatto sbarcare a Messina, a H.A.K. non viene però consentito di chiedere asilo, ma gli viene notificato un decreto di respingimento dall’Italia e un decreto di trattenimento presso il CPR di Torino […] La sera del 5 febbraio 2021, dopo 84 giorni di reclusione, H.A.K. si frattura con violenza la gamba sinistra.” (ASGI, 2021, pp: 14 – 15).

        All’interno dei CPR, gli atti di autolesionismo, i tentati suicidi e le aggressioni da parte delle Forze dell’Ordine sono all’ordine del giorno e danno luogo ad un altro tipo di violenza: la violenza assistita.

        L’essere testimoni di violazioni dei diritti umani crea un senso di terrore e di annientamento del Sé molto profondo. La violenza assistita è considerata dall’OMS come una forma grave di maltrattamento, una forma di violenza indiretta, dove la vittima è, suo malgrado, spettatrice di isolati o ripetuti maltrattamenti. Questo tipo di violenza è stata studiata soprattutto in ambito intrafamiliare, nei casi di abusi perpetrati nei confronti di un genitore, solitamente la madre, attuati in presenza di soggetti in età minorile.

        In ambito psicologico e psichiatrico, essere testimoni di violenza determina sintomi analoghi alle esperienze traumatiche e rende possibile lo sviluppo di disturbi post-traumatici o dell’umore. Inoltre, l’impossibilità di prevedere quando la successiva violenza sarà messa in atto, porta la persona a sperimentare un senso costante di terrore e di allerta, verso di sé e verso l’altro.

        Carenza di personale di cura, psicofarmaci

        Il paradosso della detenzione all’interno dei CPR è che le Forze dell’Ordine e il personale stanno al di fuori delle strutture abitative in cui sono costrette a vivere le persone detenute, le quali sono lasciate quasi per tutta la durata delle giornate ad un abbandono totale.

        Persino l’Istituzione si rifiuta di varcare i cancelli del CPR. Per qualsiasi cosa, dall’accensione di una sigaretta allo spegnimento delle luci (9), sono costrette ad affrancarsi alle sbarre che le separa dalla civiltà e urlare fino a quando qualche operatore non si accorge di loro.

        (9) In diversi CPR, le persone detenute non hanno la possibilità di scegliere quando accendere o meno le luci.

        Questa totale assenza di indipendenza personale non può che inserire le persone detenute in un processo regressivo di infantilizzazione disumana ed umiliante. In casi emergenza, come tentati suicidi, atti autolesivi e malesseri vari, capita che passino svariate ore, durante le quali l’intero modulo abitativo urla disperatamente e sferra calci alla porta blindata per attirare l’attenzione prima che qualcuno intervenga.

        La presenza del personale civile è del tutto inadeguata (10). Di contro, in assenza di prescrizione medico/psichiatrica e di qualsiasi tipo di controllo e monitoraggio, l’utilizzo degli psicofarmaci come metodo contenitivo e lenitivo è sconfinato.

        (10) Il report di ASGI del 2021 riporta come nel CPR di Torino ci siano: 1 infermiere per 24 ore, 1 medico per circa 5 ore al giorno, 2 operatori notturni e circa 14 minuti alla set- timana di assistenza psicologica.

        L’utilizzo di psicofarmaci all’interno dei CPR assolve ad una duplice funzione; da una parte, è utilizzata come strumento dell’apparato securitario al fine di controllare le persone detenute, tramite l’utilizzo di “camicie di forza farmacologiche“. Dall’altra, serve a bilanciare la carenza quantitativa e qualitativa del personale di cura all’interno dei CPR che, di fronte alle problematiche psicologiche descritte (che derivano dalla somma dei percorsi traumatici del singolo, degli aspetti psicopatogeni della detenzione amministrativa e dei CPR e della reazione psichica alle dinamiche di deumanizzazione e violenza assistita), non è in grado di rispondere con percorsi specialistici e multidisciplinari (come dovrebbe essere garantito alla popolazione generale), se non tramite l’uso sedativo degli psicofarmaci.

        Inoltre, capita non di rado che siano le stesse persone detenute a richiedere gli psicofarmaci per tollerare e lenire il dolore a cui sono sottoposte e per sopravvivere alla noia e al degrado quotidiano.

        Conclusione

        I CPR sono uno fra i tanti strumenti utilizza ti dalla necropolitica (11) europea e italiana per gestire i flussi migratori. E, dunque, diviene non solo normale ma anche giuridicamente possibile deportare (12) e segregare delle persone che hanno chiesto protezione ed aiuto ai nostri stati. E che, di contro, si sono trovate inserite in un inferno che nulla ha da invidiare a quello dantesco.

        I Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono luoghi patogeni e disumanizzanti, che deteriorano giorno dopo giorno la salute psicofisica delle persone rinchiuse al loro interno. Questo articolo vuole essere una presa di posizione assoluta e ferma contro la detenzione amministrativa e l’esistenza dei CPR sul territorio italiano ed europeo.

        Come psicologi abbiamo il dovere, non solo etico, ma anche deontologico (13), di opporci ad azioni istituzionali e politiche contrarie alla dignità umana, che violano apertamente i diritti umani. I CPR sono luoghi patogeni e disumani, che hanno effetti devastanti sulla salute psicofisica delle persone trattenute e che sono lo strascico di politiche violente post coloniali che l’Europa non vuole abbandonare, nonostante i costi umani dei CPR siano inestimabili.

        (11) Con il termine necropolitica, coniato da Achille Mbembe, ci si riferisce a tutte quel- le forme di dominio e sottomissione postco- loniali che hanno lo scopo di selezionare, tramite pratiche giuridiche, politiche inter- ne ed esterne e propagande, le persone che devono essere lasciate morire poiché sco- mode o indesiderate. La reclusione all’inter- no dei CPR è una forma di necropolitica.

        (12) Con il termine deportazione ci si riferisce ad una totale privazione di diritti civili e politici di una o più persone e il loro trasferimento coatto e forzato verso un luogo di detenzione.

        (13) Articolo 4 del Codice Deontologico degli psicologi italiani.

        Dal punto di vista psicologico questi non-luoghi del diritto rappresentano dei veri e propri apparati di tortura legalizzati. Lo stato italiano, all’arrivo delle persone migranti, nei fatti le seleziona seguendo il criterio della fantomatica fragilità, per decidere arbitrariamente chi rinchiudere in vista di una futura deportazione e chi invece è meritevole di ricevere asilo e protezione.

        “Uno scenario fatto di negligenze e abusi da parte di autorità istituzionali e attori privati che collaborano nella gestione dei centri; nonché di dinamiche di funzionamento selettivo del sistema volte a riprodurre una “gerarchia di merito della detenzione” per cui le persone più “vulnerabili” – o meglio quelle considerate più “inoffensive” o “vittime” – sono degne di essere “salvate” e differenzialmente incluse nelle nostre comunità bianche occidentali, mentre le altre – quelle “pericolose”, quelle “criminali”, quelle “devianti”– sono condannate alla reclusione e espulsione.” (Esposito, Caja, Mattiello, 2022, p: 23).

        Ma come si può essere idonei alla tortura? Dunque, la persona migrante si trova squarciata da una dicotomia di pensiero che la vede colpevole o vittima, senza mai lasciarle la possibilità di essere semplicemente un essere umano che ha il diritto ad autodeterminarsi. Le persone migranti non sono né criminali né persone prive di agency: sono esseri umani resilienti che hanno deciso – spesso senza avere altre alternative – di spostarsi, con l’indistruttibile speranza di chi sogna una vita migliore per sé e per chi ama.

        Le persone all’interno dei CPR non sono fragili di per sé, ma si ammalano e si deteriorano a causa dell’ambiente violento e deumanizzante nel quale sono inserite. I sintomi psicofisici che sviluppano non sono altro che risposte sane e funzionali ad una condizione patogena, alienante, immodificabile e disgregante, alla nuda vita.

        In quest’ottica, gli atti di autolesionismo quotidiano, come l’ustionarsi parti del corpo con olio bollente, gli scioperi della fame, le rivolte e i tentati – e a volte riusciti – suicidi possono essere visti come gesti estremi di ribellione e di resistenza attiva, portati avanti tramite l’unico mezzo a disposizione per autodeterminarsi: il corpo.

        Tuttavia, se una persona si ritrova a doversi spezzare da sola una gamba o a doversi impiccare con delle lenzuola luride per affermare il proprio diritto ad una vita libera, sicura e dignitosa, è evidente come la situazione a cui è sottoposta sia drammatica e disumana.

        Non c’è altra possibile conclusione: i CPR sono lager di stato, e uccidono.

        Chiunque scelga di rimanere in silenzio davanti a queste atrocità, è complice della morte, reale, simbolica e sociale, di tutte le persone trattenute al loro interno. Questi aspetti riportati in questo articolo sono la quotidianità per un innumerevole numero di esseri umani, che spesso non hanno lo spazio per raccontarsi e vivere il dolore con la comunità e con le loro famiglie.

        Siamo coscienti del fatto che sia stato possibile scrivere queste righe avendo il privilegio di poterlo fare e di poter testimoniare ciò che altri non hanno la possibilità di dire e raccontare.

        Il privilegio non è né una colpa né una scelta; decidere di non squarciare questo soffitto di cristallo insanguinato, dopo aver acquisito consapevolezza, è invece una scelta attiva.

        “Qual è il valore della testimonianza? Cosa significa che qualcosa è vero? Se un albero cade nella foresta e blocca a terra un tordo dei boschi femmina, e lei grida, grida e nessuno la sente, ha forse fatto un rumore? Ha sofferto? Chi lo dice?”
        Carmen Maria Machado, 2019

        Bibliografia

        • Agamben, G. (2005). Il potere sovrano e la nuda vita. Homo sacer. Torino: Einaudi Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (2021). Il libro nero del CPR di Torino
        • Avgerinou, M., Di Luciano, C., Falsone, L., Manghi, N., Pipino, M. (2018). Uscita di emergenza. La tutela della salute dei trattenuti nel C.P.R. di Torino
        • Cutro, A. (2004). Michel Foucault tecnica e vita. Bio-politica e filosofia del bios. Napoli: Bibliopolis
        • Direttiva del Ministro dell’Interno del 19 maggio 2022 “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di permanenza per i rimpatri” (cd “Direttiva Lamorgese”).
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        • Fanon, F (1952) Peau noire, masques blancs. Parigi: Seuil
        • Fanon, F (1961). Les damnés de la terre. Parigi: Les Éditions Maspero
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        • Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Rapporto sulle visite effettuate nei Centri di permanenza per i rimpatri nel periodo 2019-2020
        • Machado, C. M. (2019). Nella casa dei tuoi sogni. Torino: Codice Edizioni
        • Massaro, A. (2017). La tutela della salute nei luoghi di detenzione. Un’indagine di diritto penale intorno a carcere, REMS e CPR. L’unità del diritto – Collana del Dipartimento di Giurisprudenza. Roma: TrE-Press.
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        • Medici Senza Frontiere (2010). Al di là del muro. Viaggio nei centri per migranti in Italia.
        • Rete Mai Più Lager – NO ai CPR (2022). “Cpr: Porto Franco Del Diritto, Anche Alla Salute”. Medicina Democratica
        • Rete Mai Più Lager – NO ai CPR (2022). Intervento Al Congresso Nazionale Di Medicina Democratica
        • Seligman, M.,E.,P. (2013). Imparare l’ottimismo. Firenze: Giunti Psychometrics
        • Veglio, M. (2021). La fame di aria
        • L’inverno della primavera araba nel C.P.R. di Torino. Contenuto in Il diritto d’asilo. Report 2021, Fondazione Migrantes
        • Volpato, C (2011) Deumanizzazione. Come si legittima la violenza. Roma: Laterza Editori.
        • Weil, S. (1941). L’Iliade ou le poème de la force. Pubblicato su Les Cahiers du Sud, Marsiglia
        • Zimbardo, P.,G. (2008). L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?. Milano: Raffaello Cortina

        Leggi anche…

      7. Alle sorgenti del capitalismo, le basi domestiche e sociali dello sfruttamento

        Alle sorgenti del capitalismo, le basi domestiche e sociali dello sfruttamento

        intervista a Tithi Bhattacharya, da rs21.org.uk

        Tithi Bhattacharya è una docente e ricercatrice specializzata in Storia dell’Asia meridionale all’Università pubblica Purdue nell’Indiana (Stati Uniti). E’ una figura importante del femminismo marxista ed è stata una delle organizzatrici dello Sciopero internazionale dell’8 marzo 2017. Si batte anche per i diritti dei palestinesi partecipando alla campagna BDS. Tra le sue opere anche Femminismo per il 99%. Un manifesto, scritto assieme a Cinzia Arruzza e a Nancy Fraser

        Tithi Bhattacharya, una delle organizzatrici dello sciopero delle donne dell’8 marzo, approfondisce in questa intervista i punti di forza e le implicazioni della teoria della riproduzione sociale. Marx aveva esplorato il modo in cui la produzione di merci è organizzata sotto il dominio capitalista, ma come il capitalismo riproduce il potere del lavoro? Che ruolo giocano il genere e la razza in questi processi di riproduzione? Come si relaziona la teoria della riproduzione sociale con gli approcci intersezionali?
        Queste e altre domande vengono affrontate in questa intervista, che propone anche un modello dinamico di trasformazione sociale e politica, e spiega come lo sciopero dell’8 marzo sia stato un modo per mettere la teoria della riproduzione sociale alla prova della pratica politica.

        Per chi non ha mai incontrato questo termine prima d’ora, cos’è la teoria della riproduzione sociale?

        La teoria della riproduzione sociale (TRS), già come definizione, sembra abbastanza scoraggiante, ma i paroloni nascondono una domanda relativamente semplice: se la produzione capitalistica è fondamentalmente la produzione di merci, e sono i lavoratori a produrre queste merci, chi produce i lavoratori? La TRS teorizza i processi sociali attraverso i quali il potere lavorativo (la capacità della lavoratrice e del lavoratore di lavorare) viene riprodotto nel capitalismo e il rapporto che tali processi hanno con la produzione di merci.

        La maggior parte delle storie della produzione capitalista inizia quando il lavoratore arriva alle porte del luogo di lavoro. La TRS è la storia che sta dietro a questa narrazione. Se la produzione di merci da parte dell’operaio inizia, ad esempio, alle 7 del mattino e termina alle 17, allora la TRS riguarda ciò che accade prima delle 7 e dopo le 17.

        Tornando alla domanda su chi produce il lavoratore: una parte della risposta è facile, quasi di buon senso, ed è il ruolo svolto dalla riproduzione sociale nella sfera privata, o nella casa. Ovviamente, è perché la nostra lavoratrice ha cenato, dormito in un letto e ha avuto accesso ad altri mezzi simili per rigenerare la sua capacità lavorativa che è in grado di tornare al lavoro. Dopo la sua lunga giornata di lavoro, ha dovuto fare una “seconda giornata” di cucina per sé e per la sua famiglia? Doveva prendere in braccio il suo bambino e tranquillizzarlo? Queste domande portano a una nuova serie di problemi. Ma mettiamole da parte per un momento e limitiamoci a catalogare i modi in cui la sua casa, il suo posto nella famiglia, aiuta a rigenerare la sua capacità di lavorare.

        Esiste un’altra dimensione, più diretta, del modo in cui il lavoratore si riproduce. La nascita o la riproduzione biologica sostituisce una vecchia generazione di lavoratori e ne riproduce una nuova. Sebbene il capitalismo mistifichi la natura congiunta della produzione e della riproduzione, il linguaggio parlato conserva a volte echi sociali di questa unità, poiché continuiamo a parlare di “travaglio”, di “lavoro” per le donne che partoriscono. Allo stesso modo, il termine proletariato trae origine dal latino proletarius, cioè “colui che produce prole”, poiché nella società romana il proletario era censito solo per la sua capacità di allevare figli.

        Molte femministe sostengono che l’ordine della riproduzione sociale si ferma ai confini del lavoro domestico e riproduttivo. Secondo queste teoriche (Selma James o Mariarosa Dalla Costa sono alcuni esempi eclatanti), è il “lavoro di cura”, svolto principalmente dalle donne all’interno della famiglia, a riprodurre la forza lavoro del lavoratore, che poi vende al capitale. Il capitale trae grandi benefici da questo lavoro di cura, ma non paga nulla per esso. Pertanto, queste intellettuali e attiviste hanno lanciato una campagna per chiedere un salario per i lavori domestici.

        Altre teoriche della riproduzione sociale, e io mi considero tra queste, sostengono tuttavia che la forza lavoro si riproduce solo parzialmente all’interno della famiglia. I sistemi educativi, i trasporti pubblici, le strutture ricreative come parchi e piscine, la possibilità per una comunità operaia di avere accesso all’acqua potabile (si pensi a Flint, Michigan o a Standing Rock) sono risorse annidate nelle relazioni sociali, che riproducono il potere del lavoro. Pertanto, l’accesso alle risorse che contribuiscono alla riproduzione della forza lavoro è fondamentale sia per i singoli lavoratori che per la classe nel suo complesso. Allo stesso tempo, la classe operaia non si riproduce solo attraverso la riproduzione biologica, ma la schiavitù e l’immigrazione sono alcuni dei modi storici in cui il capitalismo ha “rigenerato” la sua forza lavoro.

        La TRS opera quindi in un duplice movimento: da un lato, teorizza le diverse pratiche sociali che riproducono il potere del lavoro (tutte le numerose reti di relazioni sociali che costituiscono tale processo) e, dall’altro, mette in luce come queste relazioni, pur essendo distinte, non siano separate dalla produzione di merci, ma formino una totalità unitaria. I cambiamenti nei rapporti di produzione influenzano quindi i rapporti di riproduzione e viceversa. La riduzione dei salari sul lavoro può contribuire alla mancanza di una casa o alla violenza domestica, mentre la privatizzazione dell’acqua o l’aumento dei prezzi del pane e di altri beni socialmente necessari possono portare a rivolte sociali e sul posto di lavoro.

        Cosa c’è di nuovo in questa teoria?

        La questione della “novità” è interessante. Per i marxisti, le proposizioni centrali della TRS devono sembrare molto familiari. Questo perché la TRS può essere vista come un’estensione analitica della teoria del valore del lavoro (TVL).

        La TVL consiste nel riprodurre nel pensiero le relazioni sociali che costituiscono il capitalismo. Il primo equivoco, ossia che esse debbano essere intese in termini strettamente “economici”, deve essere respinto. La TVL si occupa di due domande: come gli esseri umani producono le condizioni materiali della loro esistenza sotto il capitalismo? Come si riproduce il capitalismo come sistema?

        La produzione di valori d’uso, le cose di cui abbiamo bisogno per vivere (pane, case, libri da leggere, strumenti musicali da suonare) si riferisce al modo in cui noi esseri umani riproduciamo noi stessi e le nostre vite. Ma come produciamo questi valori d’uso e, soprattutto, per chi produciamo, determina il modo in cui il capitalismo si riproduce.

        La teoria del valore-lavoro rivela:

        • i processi sociali con cui il capitalismo organizza la produzione di merci, attraverso luoghi di lavoro su scala globale, in modo che i diversi lavori concreti degli esseri umani siano misurati l’uno rispetto all’altro, non direttamente, ma attraverso il meccanismo del mercato;
        • il modo in cui merci diverse (una pagnotta di naan e uno smartphone) sono equiparati tra loro sulla base del tempo di lavoro socialmente richiesto per produrli;
        • che il perno della riproduzione capitalistica non è lo scambio di diversi tipi di lavoro che producono diversi tipi di merci (questo potrebbe accadere se gli artigiani indipendenti portassero i loro prodotti su un mercato). Il capitalismo come sistema è caratterizzato dall’acquisto e dalla vendita della forza lavoro del lavoratore da parte del capitalista, che poi la mette al lavoro, sotto il suo unico controllo e dominio, per la produzione di profitto.

        Il capitalista paga effettivamente il lavoratore per la sua forza lavoro, cioè il salario che riceve, ma questo è pari solo al tempo di lavoro necessario per “riprodurre” il lavoratore stesso, o i beni che il lavoratore comprerà con questo salario. Il resto del valore che il lavoratore produce sul posto di lavoro viene pagato al capitalista come plusvalore.

        Poiché la TRS elabora la “riproduzione” del lavoratore, considera sia i beni pagati che riproducono il lavoratore, o il salario reale, sia il lavoro non pagato (lavoro domestico, parto) che aiuta a mantenere e ricostituire la classe operaia. La TRS combina quindi le pratiche sociali che producono “vita” (intesa sia biologicamente che socialmente) con quelle che producono “merci” in un sistema unitario.

        L’aspetto forse nuovo della TRS è che mostra che la spiegazione della TVL di Marx, che si occupa solo dell’origine e del destino delle merci, è una spiegazione parziale. Nella maggior parte dei resoconti marxisti del capitalismo, si presume che la forza lavoro sia semplicemente presente. La TRS mostra che non possiamo né supporre la sua mera presenza “lì” né trattare la sua produzione come priva di storia. La TRS introduce nella nostra comprensione del capitalismo i modi profondamente sessisti e razziali in cui la forza lavoro viene prodotta e messa a disposizione del capitale, e questo è il contributo critico della TRS alla teoria marxista.

        Mi spiego meglio. La riproduzione della forza lavoro, pur non essendo sotto il dominio diretto del capitale, assume forme molto specifiche nel capitalismo. Al centro di questa riproduzione c’è il lavoro domestico non retribuito delle donne della classe operaia e la capacità biologica delle donne di partorire. Nessuno di questi elementi è antistorico o determinabile dall’individuo, ma sono organizzati dal capitalismo per assumere forme particolari nella società. Ad esempio, l’emergere della famiglia monogama ed eteronormativa, spazialmente separata dalla produzione, non è uno sviluppo accidentale della storia moderna, ma è legato all’esigenza generale del capitalismo di avere una fonte costante di manodopera immediatamente disponibile a un prezzo minimo.

        Devo aggiungere qualcosa sulla riproduzione biologica, dato che la transfobia è emersa come una nuova frontiera del sessismo e della violenza. La capacità delle donne di avere figli (o, per dirla in termini TRS, la loro capacità di sostituire “generazionalmente” la forza lavoro) crea le condizioni per la loro oppressione nel capitalismo. Ma questa non è un’argomentazione biologicamente deterministica, perché la TRS pone l’accento sull’organizzazione sociale delle capacità biologiche, e i modi in cui tale organizzazione ha luogo sono sia storici che contingenti alla cultura, alla geografia, ecc.

        Di fatto, la TRS ci fornisce un argomento vitale, anti-essenzialista e forse anche trans-inclusivo, sulla riproduzione biologica. Non richiama l’attenzione sulla biologia femminile, ma sulla necessità del capitalismo di sostituire la forza lavoro a livello generazionale. È la dipendenza del capitale da specifiche funzioni corporee come il parto, l’allattamento, ecc. che dà forma alla riproduzione sociale privatizzata e rafforza la forma duratura della famiglia dominata dagli uomini nel capitalismo. Le differenze biologiche tra uomo e donna o tra corpo cis e trans sono importanti solo per il modo in cui queste differenze sono articolate e organizzate dal capitale. Inoltre, una simile argomentazione implica che, in ultima analisi, è irrilevante che le funzioni procreative biologiche siano svolte da donne cis o trans, anche se quest’ultimo fenomeno non è mai generalizzato all’interno della forma sociale. Finché queste funzioni sono richieste e organizzate dal capitale, l’oppressione delle donne e, per estensione, l’oppressione e la violenza di genere, continueranno a esistere.

        La famiglia è uno dei modi in cui si riproduce la classe operaia – ma come lei ha detto sopra, la migrazione è un altro. La teoria della riproduzione sociale ha qualcosa da dire sulla migrazione e sulla razza?

        La TRS offre due livelli di analisi sul ruolo della migrazione e del razzismo nel capitalismo. Il primo è facile da individuare. La TRS si occupa di come la forza lavoro diventa disponibile per il capitale. La famiglia eteronormativa della classe operaia è ovviamente la fonte principale per il capitale, ma la migrazione forzata, la schiavitù e l’immigrazione sono stati modi fondamentali in cui la forza lavoro è stata costituita in paesi e regioni specifici, o all’interno di una comunità delimitata.

        Questi processi storici, in particolare la schiavitù, non sono accessori al capitalismo, ma ne sono costitutivi. È un esercizio teorico piuttosto futile separare il capitalismo “astratto” – che si presume sia neutrale dal punto di vista del genere e/o della razza, guidato solo dal bisogno di accumulazione – dal capitalismo “storico”, in cui il genere e la razza costruiscono e sostengono l’accumulazione. Parlare del capitalismo solo in termini astratti è come parlare della vita sulla terra solo in termini di leggi di gravità senza menzionare gli stati nazionali, le guerre o il sesso!

        Poiché la TRS ci porta a comprendere il potere del lavoro non come già disponibile, ma come reso disponibile, ci interroga sulla miriade di processi attraverso i quali ciò avviene: come il potere del lavoro viene riprodotto nelle e attraverso le relazioni sociali sessualizzate/razziali. Come ho detto, questo dimostra che l’oppressione è un organizzatore chiave delle relazioni sociali capitaliste.

        Ma c’è un secondo livello di analisi della questione della razza e del razzismo nella TRS. Se da un lato la TRS stabilisce la riproduzione della forza lavoro come condizione per la riproduzione del capitale, dall’altro si chiede se tutta la forza lavoro sia riprodotta allo stesso modo.

        Il capitalismo, in quanto sistema di produzione, cerca di stabilire equivalenze tra le diverse merci e tra le diverse capacità lavorative, come abbiamo visto sopra. Ma non tutte le forze lavoro sono uguali. Alcuni corpi/popoli e le loro forze lavoro sono riprodotti in modo tale da renderli più vulnerabili al dominio del capitale rispetto ad altri. Mentre gli effetti di queste differenze si manifestano spesso sul posto di lavoro (assunti per ultimi, licenziati per primi, disuguaglianza salariale), la produzione di queste differenze va sicuramente attribuita ai tessuti della riproduzione sociale – sistemi scolastici, accesso all’assistenza sanitaria, presenza della famiglia per nutrire il bambino o presenza di entrambi i genitori che hanno dovuto affrontare gli effetti dell’incarcerazione di massa, e così via – e al ruolo che essi giocano nella produzione di tali differenze.

        La TRS, quindi, fa due cose in modo molto efficace. In primo luogo, teorizzando (e non descrivendo) il ruolo svolto dall’oppressione nell’accumulazione del capitale, rifiuta definitivamente la divisione analitica tra sfruttamento e oppressione e dimostra che questi sono collegati dall’interno. In secondo luogo, poiché la TRS riconosce questa unità interrelata, ci permette di avere un approccio all’oppressione decisamente non funzionale. Il razzismo/sessismo (e altre oppressioni specifiche) non sono intesi come forme create dal capitale perché ne aveva “bisogno”, ma piuttosto come oscuri bricolage di molti passati che sono emersi attraverso molti tentativi ed errori, a causa dei modi in cui il capitalismo ha organizzato la produzione sociale.

        Non sono quindi forme stabili o eterne, ma dipendono sia dall’accumulazione che dalle lotte contro di essa. Se da un lato ciò significa che la forma e l’estensione dell’oppressione varieranno in base alle lotte collettive contro di essa, dall’altro implica che, essendo l’oppressione inestricabilmente legata alla necessità di accumulazione, il capitalismo determina i limiti della nostra lotta contro l’oppressione all’interno del suo contesto. In altre parole, la TRS sottolinea in teoria la necessità di una lotta anticapitalista contro l’oppressione.

        Molti hanno insistito sul fatto che non possiamo guardare alla classe, al razzismo, all’oppressione delle donne o alla sessualità in modo isolato, ma che dobbiamo affrontare questi temi in modo “intersezionale”. Che rapporto ha la teoria della riproduzione sociale con l’intersezionalità?

        La risposta a questa domanda richiede un saggio lungo e meditato! David McNally lo ha scritto per noi e fa parte del prossimo volume sulla TRS che ho curato. Pertanto, mi limiterò a sollevare in questa sede quelli che a mio avviso sono i problemi teorici del modello intersezionale.

        Innanzitutto, vorrei dire che i teorici dell’intersezione ci hanno fornito ricchi studi empirici sulla razza e sul genere e sul loro funzionamento nel capitalismo. Hanno anche insistito sulla centralità dell’oppressione nella formazione del nostro mondo moderno. In entrambi i casi, noi marxisti dovremmo trovare una causa comune. Non sorprende che oggi, in un campus universitario degli Stati Uniti, quando una studentessa dice di essere una “femminista intersezionale”, in realtà intende dire che è antirazzista. Ed è sicuramente una persona con cui dovremmo cercare di lavorare.

        Ma l’intersezionalità è uno strumento adeguato per comprendere e quindi cambiare la realtà capitalista? I problemi teorici che i marxisti hanno con l’intersezionalità iniziano con il termine stesso. L’intersezionalità come termine implica che diverse oppressioni (ad esempio, razzismo e sessismo) si intersecano e che la combinazione di queste varie intersezioni forma una realtà reticolare.

        Prendiamo sul serio la metafora dell’”intersezione”. Un incrocio è il punto in cui due strade distinte si incontrano. Ma la razza e il genere sono “strade” o relazioni sociali distinte? Se sì, dove sono emerse e su cosa si fondano? Inoltre, qual è la logica della loro intersezione?

        Al di là del termine, e dei problemi che pone fin dall’inizio, c’è la questione dell’idea marxista di una totalità contro una sorta di insieme sociale reticolare. Una combinazione aggiuntiva di relazioni non è la stessa cosa di ciò che i marxisti intendono per “totalità”. Georg Lukács, e dopo di lui il lavoro di Bertell Ollman, hanno fornito alcune delle migliori esposizioni di ciò che i marxisti intendono per totalità. A questo proposito, vorrei sottolineare due importanti differenze tra i due concetti.

        La concezione marxista della totalità sociale è intrinsecamente dinamica. Cambiamento, mutazioni, adattabilità sono i suoi tratti distintivi. C’è quasi una tendenza vitalista in molti passaggi di Marx sulla società (e sulle relazioni sociali). Scrive come se la società fosse un organismo vivente. La visione reticolare o intersezionale della società è completamente statica, quasi bidimensionale. Non c’è né nel concetto né nella metafora l’idea che una qualsiasi di queste intersezioni cambi o risponda a un cambiamento.

        In secondo luogo, il progetto del marxismo è quello di sviluppare una teoria del cambiamento storico attraverso il concetto di contraddizioni immanenti. Il marxismo mostra che questa totalità sociale mutevole e pulsante è attraversata da contraddizioni immanenti, non esterne ad essa. L’intersezionalità, a causa del suo modello statico, può avere solo modelli di oppressione trans-storici, presenti in ogni momento e nel migliore dei casi arbitrari nel loro funzionamento. Ad esempio, se le oppressioni sociali sono intersezionali, da dove vengono le nuove oppressioni?

        Teoria e concetti non sono importanti solo perché sono strumenti che spiegano il nostro mondo, ma perché dovrebbero darci i mezzi per cambiarlo. Anche in questo caso, l’intersezionalità è in qualche modo inadeguata a questo compito. Ad esempio, seguendo l’intersezionalità, è molto facile discernere perché dovremmo essere solidali con i più oppressi, in quanto ciò comporta molteplici intersezioni. Ma perché i più oppressi dovrebbero essere solidali con i lavoratori maschi bianchi?

        Infine, credo che i risultati empirici dei teorici dell’intersezione contraddicano in realtà una metodologia intersezionale. La razza e il genere non sono sistemi di oppressione separati o addirittura oppressioni separate con traiettorie collegate solo esternamente; piuttosto, le scoperte delle intellettuali femministe nere mostrano come la razza e il genere siano di fatto co-costitutivi. La TRS ci offre, come ha sostenuto David McNally, un modo per “conservare e riposizionare” le prospettive dell’intersezionalità, pur rifiutando la sua premessa teorica di una realtà aggregativa.

        Lei ha curato un libro di saggi sulla riproduzione sociale che è stato pubblicato nell’autunno 2017 (in inglese). Quali sono le questioni chiave affrontate in questo libro?

        Un punto importante per me era esplorare le implicazioni strategiche della TRS per i nostri tempi. La TRS mostra come le relazioni sociali al di fuori del rapporto lavoro salariato/capitale siano cruciali per la riproduzione del capitale e come la formazione del potere lavorativo serva come precondizione fondamentale per la riproduzione del capitale. Se le relazioni sociali capitaliste sono forgiate e sostenute al di fuori del luogo di produzione, ne consegue che queste relazioni possono anche essere messe in discussione e interrotte al di fuori del luogo di produzione.

        I movimenti sociali che si sviluppano intorno ai mezzi di sussistenza o ai servizi che contribuiscono a riprodurre la vita – le lotte per la casa, la salute o la dignità di fronte alla violenza razziale – possono quindi portare con sé lo stesso peso anticapitalista delle lotte che si sviluppano sul posto di lavoro. Questo è un tema critico che attraversa il libro e che credo sia necessario sviluppare ulteriormente, visto il basso livello delle lotte nei luoghi di lavoro.

        Lei è stata una delle principali organizzatrici dello sciopero delle donne dell’8 marzo. Da dove è nata l’idea di questo sciopero?

        L’ispirazione è venuta dallo storico sciopero delle donne in Polonia contro una proposta di legge che vietava del tutto l’aborto (2016) e da un’analoga massiccia mobilitazione femminista in Argentina da parte delle attiviste di Ni Una Menos contro la violenza maschile. L’appello per uno sciopero internazionale delle donne è stato lanciato per la prima volta dalle femministe polacche e si è gradualmente diffuso tra le attiviste di 50 paesi. Abbiamo adottato la parola “sciopero” per sottolineare che le donne non lavoravano solo sul posto di lavoro, ma anche nella sfera della riproduzione sociale.

        L’8 marzo per noi negli Stati Uniti è stata l’occasione per testare il TRS nella pratica. Sapevamo che la densità sindacale negli Stati Uniti (così come a livello globale) era ai minimi storici. Gli strumenti di organizzazione tradizionalmente disponibili per la classe operaia erano assenti nella maggior parte dei luoghi di lavoro o erano stati indeboliti da decenni di sindacalismo collaborativo. Ciò non significa che la classe operaia sia stata sconfitta dal capitale. Significava che spesso il terreno della lotta di classe si spostava dalla sfera della produzione a quella della riproduzione.

        L’8 marzo si è rivelato una lezione gioiosa e concreta di questo particolare tipo di organizzazione. Più di 30 città statunitensi hanno partecipato allo sciopero sotto forma di manifestazioni, raduni, lezioni nei campus universitari e vere e proprie interruzioni del lavoro in tre distretti scolastici. Le donne si sono date malate al lavoro, hanno scritto lettere ai loro mariti per cucinare da sole per la giornata, hanno manifestato e marciato come insegnanti, infermiere, lavoratrici del sesso e madri. Il nostro manifesto chiedeva un femminismo del 99% per sfidare direttamente il femminismo Lean-in [l’espressione fa riferimento al libro di  Sheryl Sandberg, Lean In: Women, Work, and the Will to Lead, pubblicato nel 2013, e rimanda al femminismo delle donne manager o amministratrici di azienda] di padroni come Sheryl Sandberg e il femminismo imperialista di falchi come Hillary Clinton. 

        Uno dei momenti salienti per me è stato il discorso di una giovane donna trans che ha parlato alla nostra manifestazione a New York di come ha condotto una campagna sindacale di successo sul suo posto di lavoro contro il suo capo “femminista”. Il femminismo del capo si è dissolto, ha detto, quando si è trattato di tutelare i diritti delle sue dipendenti. Contro questo “femminismo del capo”, ha detto con orgoglio, l’8 marzo è stato per lei l’inizio di un femminismo del 99%.

        Sarà importante vedere che tipo di pratiche e forme di organizzazione possiamo ricostruire dall’esperienza dell’8 marzo. L’8 marzo ci ha mostrato che esiste un enorme potenziale per la nascita di un nuovo movimento femminista globale. Quarant’anni di depredazione neoliberale delle vite della classe operaia ne dimostrano la necessità.

        Come lo sciopero delle donne, un tale movimento globale, se si realizzerà, non sarà composto solo da marxiste. Ma se noi, come marxiste, vogliamo giocare un ruolo nella formazione di un tale movimento, allora è importante preparare la nostra teoria e la nostra pratica – appannate da anni di sconfitte, settarismo e timidezza – per un tale momento. La TRS può essere un contributo essenziale a questa preparazione, ma la nuova generazione di attiviste che senza dubbio forgerà e galvanizzerà tale movimento porterà sicuramente alla TRS stessa una nuova “fusione di pensiero e azione”, cioè una propria “filosofia della prassi”.