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  • Gran Bretagna, appello per un’azione internazionale il 1° febbraio

    Gran Bretagna, appello per un’azione internazionale il 1° febbraio

    Le/i compagne/i britannici di Anti*capitalist Resistance fanno appello perché il 1° febbraio diventi una giornata internazionale di solidarietà con il movimento che nel Regno Unito si oppone alla legislazione antisindacale che il governo conservatore sta adottando

    La classe operaia britannica ha sofferto oltre un decennio di austerità e bassi salari. Dal 2010 la retribuzione di molti lavoratori si è ridotta di oltre il 20% in termini reali. Ora l’inflazione è al 14% e le bollette energetiche sono alle stelle. Molti devono scegliere tra riscaldarsi e mangiare.

    Proteggiamo il diritto di sciopero

    I lavoratori hanno reagito con una massiccia ondata di scioperi che non si vedeva da molti anni. In risposta, il governo conservatore sta varando nuove leggi contro i sindacati. Abbiamo già alcune delle leggi antisindacali più restrittive dell’Europa occidentale, e ora vogliono imporre livelli minimi di servizio per costringere gli scioperanti a tornare al lavoro.

    Questo attacco al nostro movimento è stato accolto con proteste e azioni da parte dei lavoratori in tutto il paese. Il 1° febbraio è previsto uno sciopero coordinato di macchinisti, docenti universitari, insegnanti e dipendenti pubblici. Anche altri stanno pensando di aderire.

    Stiamo lanciando un appello per azioni di solidarietà davanti alle ambasciate britanniche il 1° febbraio! Unitevi a noi nella lotta per il diritto di sciopero, dimostrando che la causa dei lavoratori è internazionale e che stiamo lottando per le nostre libertà non solo in Gran Bretagna ma a livello internazionale.

    Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!

  • Perù, più di 200 arresti nello sgombero dell’università di Lima

    Perù, più di 200 arresti nello sgombero dell’università di Lima

    La Polizia nazionale peruviana (PNP) ha arrestato sabato più di 200 persone in seguito allo sgombero del campus dell’Universidad Mayor de San Marcos (UNMSM) a Lima, dove centinaia di manifestanti provenienti da diverse regioni si erano accampati da mercoledì per partecipare alle marce antigovernative nella capitale.

    In mattinata, la polizia nazionale peruviana ha sfondato l’ingresso dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos con un carro armato ed è entrata nel campus per sgomberare centinaia di manifestanti, che sono stati poi arrestati e portati in diverse stazioni di polizia.

    Secondo la Procura, la polizia “aveva ricevuto denunce dall’Universidad Nacional Mayor de San Marcos per aggressioni contro le forze dell’ordine”

    Da mercoledì, centinaia di persone provenienti da altre parti del paese, soprattutto Puno, Arequipa e Cuzco, sono arrivate all’università per partecipare a grandi cortei che chiedono le dimissioni di Dina Boluarte, che ha assunto la presidenza dopo il colpo di Stato, la chiusura del Congresso, la convocazione di un’assemblea costituente ed elezioni anticipate.

    Lo sgombero è stato eseguito da squadre antisommossa che hanno isolato l’area. L’operazione è stata supportata da un elicottero della polizia.

    Circa un’ora e mezza dopo l’inizio dell’operazione, diversi autobus della polizia hanno iniziato a lasciare l’università con i detenuti, alcuni dei quali ammanettati, diretti alla stazione di polizia.

    Questa operazione brutale e le centinaia di arresti hanno generato critiche da parte di attivisti, politici e altre università.

    “Siamo in sei, diversi membri del parlamento della Repubblica. Nell’ambito delle nostre funzioni siamo venuti a verificare la situazione attuale in cui questo sgombero, questo intervento, ha avuto luogo. Non abbiamo informazioni, non c’è un comandante, non sappiamo cosa sia successo, non conosciamo il procuratore responsabile. Vogliono limitare i nostri diritti”, sono state queste le dichiarazioni rilasciate a EFE dalla deputata Ruth Luque ai cancelli del campus. Ha aggiunto che “ciò che la polizia sta facendo è completamente arbitrario” e che “il diritto alla difesa dei detenuti è stato violato, così come il diritto dei deputati di esercitare i loro compiti di controllo e rappresentanza”.

    Altri parlamentari, oltre a familiari e amici, hanno chiesto alla polizia di poter entrare nel campus universitario per scoprire le ragioni dello sgombero e per informarsi sullo stato di salute dei manifestanti detenuti, ma un cordone di polizia ha impedito loro di entrare.

    La condanna per l’ingresso nell’università e per la brutale repressione che ha già provocato la morte di oltre 60 persone ha raggiunto diverse istituzioni.

    Anche l’Istituto per la democrazia e i diritti umani della Pontificia Università Cattolica del Perù (PUCP) ha respinto l’intervento nel campus.

    Da parte sua, la missione in Perù dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) ha dichiarato in un comunicato: “Di fronte all’intervento presso l’UNMSM, l’OHCHR chiede alle autorità di assicurare la legalità e la proporzionalità dell’intervento e le garanzie di un giusto processo”.

    Inoltre, il Difensore civico, Eliana Revollar, ha denunciato che dopo lo sgombero, al personale dell’Ufficio del Difensore civico è stato impedito di entrare nell’università “per verificare le condizioni delle persone in loco”.

    Allo stesso tempo, la Commissione interamericana per i diritti umani (CIDH) ha espresso la sua preoccupazione per lo sgombero e gli arresti di massa all’Università di San Marcos a Lima e ha sottolineato la necessità di rendere conto di quanto accaduto. L’organismo “esorta urgentemente lo Stato a rendere conto degli eventi e a garantire l’integrità e il giusto processo a tutte le persone”. Hanno anche affermato che “gli stati devono astenersi dall’impegnarsi in detenzioni di massa, collettive e indiscriminate in contesti di protesta sociale”.

    Nel tardo pomeriggio di sabato, a Lima e in altre regioni si sono svolte manifestazioni per chiedere il rilascio dei detenuti.

    Sabato sera, i manifestanti hanno continuato a riunirsi in diverse città.

    La giornata di sabato, segnata dalla brutale repressione all’università e dalla violenza della polizia, ha nuovamente scatenato massicce mobilitazioni in tutto il paese.

    La crisi in Perù è iniziata il 7 dicembre dopo la destituzione dell’allora presidente Pedro Castillo, che è stato arrestato. Da quando sono iniziate le mobilitazioni contro il governo golpista, l’unica risposta è stata la repressione e la morte, che ha già causato più di 60 morti.

  • Francia, sabato 21 gennaio, i giovani in piazza

    Francia, sabato 21 gennaio, i giovani in piazza

    Un nuovo passo nella protesta contro la riforma delle pensioni voluta da Macron

    Questa volta, a sostenere l’appello sono le principali organizzazioni giovanili di sinistra.

    All’inizio, quasi due mesi fa, quando alcune organizzazioni giovanili francesi di sinistra, su sollecitazione di Attac France, avevano indetto per sabato 21 gennaio una manifestazione contro la riforma delle pensioni, nessuno poteva prevedere che essa si sarebbe collocata solo due giorni dopo la mobilitazione storica di giovedì 19, che ha portato in piazza oltre milioni di persone.

    Nel frattempo, la protesta contro l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni e contro un peggiore sistema di calcolo e le conseguenti pensioni più povere andava crescendo nel paese, fino a sfociare nello straordinario movimento che ha scosso ieri la Francia. Perciò il numero delle organizzazioni giovanili che hanno aderito alla manifestazione e che domani si riuniranno a Parigi a partire dalle 14 a Place de la Bastille è fortemente cresciuto.

    Questo è l’elenco completo delle associazioni studentesche e liceali di sinistra aderenti: L’Alternative, FIDL, Voix Lycéenne, Jeune Garde, Le Massicot, Young Struggle, Jeunes écologistes, Jeunes Génération.s, Jeunes Insoumis, NPA Jeunes, NPA Jeunesses Anticapitalistes, Jeunes Parti de Gauche, Jeunes POI, Place Publique Jeunes, RED Jeunes, UFSE CGT. E’ previsto l’arrivo nella capitale di decine di pullman di giovani da tutto il paese.

    La partecipazione dei giovani alla mobilitazione sulle pensioni è importante e molto significativa perché smentisce clamorosamente le argomentazioni governative e padronali per cui il peggioramento delle normative previdenziali sarebbe finalizzata a tutelare gli interessi delle giovani generazioni. Sarebbe interessante propagandare l’eperienza italiana, dove la riforma Fornero e le altre normative che hanno devastato il sistema previdenziale italiano non hanno portato alcun miglioramento alle condizioni dei giovani e anzi hanno coinciso con un ulteriore degrado delle aspettaive dei giovani.

    All’iniziativa parteciperanno diversi politici. E’ stata preannunciata la presenza in piazza, dietro lo striscione del Nuovo partito anticapitalista, di Olivier Besancenot et Pauline Salingue, due dei portavoce nazionali del partito. Altrettanto saranno presenti numerosi dirigenti della France insoumise.

    Così come sosterranno la mobilitazione giovanile numerosi sindacati (CGT e Sud-Solidaires, in primo luogo). Sud-Solidaires nel suo sito afferma: “Questa riforma è solo l’ultimo attacco al mondo del lavoro e dei giovani. Mobilitiamoci tutti insieme il 19 gennaio, il 21 gennaio e i giorni successivi!”.

    Un approccio negativo alla manifestazione ha invece avuto la leadership del PCF, perché sostiene che essa sarebbe collocata in maniera inopportuna solo a distanza di due giorni dalla giornata di protesta di giovedì. Ma sembra proprio che questa discussione sia uno dei tanti punti di frizione tra un PCF in difficoltà che rischia di essere emarginato dalla France Insoumise.

    Lo slogan del corteo è duplice: lottare contro una riforma delle pensioni “ingiusta, brutale e inutile”, ma anche denunciare “il governo che rifiuta di aumentare il salario minimo e tutti i salari, rifiuta ogni progresso sociale ed ecologico e impone l’austerità con il 49,3” (la percentuale della forza parlamentare della “minoranza presidenziale”).

  • Francia, una mobilitazione potente

    Francia, una mobilitazione potente

    Comunicato intersindacale, 19 gennaio

    Il 19 gennaio, in tutto il paese, più di due milioni di lavoratori e giovani si sono mobilitati, hanno scioperato e/o manifestato, nel settore pubblico e privato, contro la riforma pensionistica di questo governo.

    Questa riforma è inaccettabile e va contro gli interessi della popolazione. Non si sbagliano, visto che anche prima di scendere in piazza, più di 600.000 persone hanno già firmato la petizione intersindacale.

    I lavoratori vogliono andare in pensione in buona salute e con un livello di pensione che consenta loro di vivere dignitosamente. Il messaggio è molto chiaro: il governo deve abbandonare sia l’età pensionabile di 64 anni che l’accelerazione dell’aumento del periodo contributivo. Esistono altre soluzioni, ma purtroppo sono state accantonate a priori.

    Tutti i sindacati ribadiscono la loro opposizione alla riforma e la loro determinazione ad avere un sistema pensionistico equo, finanziato da una diversa distribuzione della ricchezza.

    Per rafforzare e sostenere questa prima massiccia mobilitazione, i sindacati chiedono ora uno sciopero e una manifestazione interprofessionale di un giorno.

    L’intersindacale invita la popolazione a firmare in massa la petizione e chiede di intensificare le azioni e le iniziative in tutto il paese, nelle aziende e nei servizi, nei luoghi di studio, compresi gli scioperi, in particolare intorno al 23 gennaio, giorno della presentazione della legge al Consiglio dei ministri.

    Invitano i lavoratori e i giovani a preparare assemblee generali per discutere il proseguimento della mobilitazione.

    E mentre il governo chiede ai sindacati di essere responsabili e di non bloccare il paese, noi ribadiamo che è e sarà l’unico responsabile di questa situazione, dato che 9 lavoratori su 10 rifiutano questa riforma ingiusta e brutale.

    Siamo uniti e determinati a far ritirare questo progetto di riforma delle pensioni, per questo l’Intersindacale convoca una nuova giornata di scioperi e manifestazioni interprofessionali per il 31 gennaio. L’intersindacale si riunirà questa sera stessa.

  • Francia, pensioni, una mobilitazione storica

    Francia, pensioni, una mobilitazione storica

    Comunicato del Nuovo partito anticapitalista, 19 gennaio 2023

    Le cifre degli scioperi e delle manifestazioni sono storiche, con 1,2 milioni di manifestanti secondo la polizia, più di due milioni secondo l’intersindacale, tassi di sciopero molto alti (più del 70% nell’istruzione), mobilitazioni massicce nelle città. 50.000 a Bordeaux e Tolosa, 20.000 a Le Mans, 3.500 ad Alençon, 4.000 a Compiègne, 20.000 a Nizza, 7.000 ad Agen e Montauban, 4.000 a Gap, 15.000 ad Avignone, 50.000 a Nantes, 15.000 a Saint-Nazaire, 20.000 a Rouen, 35.000 a Le Havre, 15.000 a Bayonne e Pau, 13.000 a Quimper, 13.500 a Brest, 11.000 ad Angoulême, 10.000 a Poitiers, 13.000 ad Angers, e naturalmente diverse centinaia di migliaia a Parigi (ben lontano dagli 80.000 annunciati dal Ministero dell’Interno)…

    Nella stragrande maggioranza delle città (anche le più piccole), le cifre erano superiori a quelle dei grandi scioperi del 1995, con talvolta una persona su sette o otto in strada. Nel settore privato la partecipazione è stata eccezionale, con scioperanti provenienti dall’industria alimentare, metallurgica, automobilistica, elettronica…

    Una rabbia generale

    La causa scatenante di questo movimento è la riforma delle pensioni, che costringerebbe i dipendenti a lavorare due anni in più, con un periodo di contribuzione più lungo e quindi pensioni ridotte. Tutto questo per consegnare decine di miliardi alle grandi imprese e per cercare di far passare una pietra miliare nella creazione di fondi pensione, pensioni complementari che diventerebbero necessarie per non invecchiare in miseria.

    Sappiamo però che mettere la pensione a 60 anni e 37,5 anni, con un ritorno ai 10 migliori anni di calcolo nel settore pubblico come in quello privato, pesa per circa il 3,5% del PIL, che potrebbe essere recuperato per la maggior parte della popolazione tassando davvero i ricchi e le grandi aziende e smettendo di fare regali fiscali ai più abbienti. Le “soluzioni” violente di Macron non sono quindi inevitabili.

    Al di là del rifiuto di questa controriforma, è una vera e propria frustrazione per la situazione economica e sociale globale che viene espressa: le pensioni erano già basse in seguito alle precedenti controriforme e l’attuale inflazione, con l’esplosione dei prezzi, sta già riducendo il potere d’acquisto delle classi lavoratrici. L’agitazione, la rabbia, è lì, contro Macron, contro questo governo, contro il loro disprezzo, contro le loro politiche ingiuste.

    Costruire un movimento per vincere

    La portata della mobilitazione pone enormi responsabilità a tutta la sinistra sociale e politica. Macron deve ritirare la sua riforma, dobbiamo ripristinare il pensionamento a 60 anni e aumentare i salari. Il governo si rifiuta e noi dovremo quindi alzare il livello di mobilitazione, passare da una giornata di sciopero, anche molto riuscita come quella di oggi, a uno sciopero rinnovato fino alla vittoria, ancora più massiccio, con la partecipazione di nuovi settori.

    I sindacati hanno concordato una nuova convocazione per lo sciopero di martedì 31. È una data lontana, troppo lontana: avremmo certamente dovuto basarci su questo primo successo per annunciare una data anticipata la prossima settimana, per accelerare il ritmo, per organizzare un accumulo in modo da far salire il movimento di marcia.

    Si tratta ora di organizzare assemblee generali di discussione nei luoghi di lavoro e nelle scuole per rafforzare e amplificare la mobilitazione, di costruire assemblee interprofessionali, di discutere della necessità di alzare l’asticella preparando il prolungamento dello sciopero da martedì 31 gennaio, dal 1° febbraio, e fino ad allora di mobilitarsi, di costruire lo sciopero ora ovunque sia possibile.

    Ciò richiede anche la combinazione di diversi quadri e forme di mobilitazione, perché non possiamo permetterci il lusso della competizione nel nostro campo sociale. Per questo motivo partecipiamo alla manifestazione nazionale di sabato 21 gennaio a Parigi (ore 14.00 alla Bastiglia), indetta dalle organizzazioni giovanili.

    Questa mobilitazione è un banco di prova: tutti i sindacati e i partiti, l’intera sinistra sociale e politica, la grande maggioranza della popolazione, si oppongono alla riforma. Se passa, il governo sentirà di avere le ali e accelererà gli attacchi. Al contrario, se vinciamo, possiamo ribaltare la situazione, conquistare il ritorno della pensione a 60 anni, aumenti di reddito, dare fiducia per costruire un’alternativa politica in rottura con Macron e il suo mondo, per una forza del mondo del lavoro contro questo sistema.

  • Brasile, appunti sull’avventura del colpo di stato

    Brasile, appunti sull’avventura del colpo di stato

    di Valerio Arcary, professore in pensione dell’Instituto Federal de Educação, Ciência e Tecnologia de São Paulo, autore, tra gli altri libri, di Ninguém disse que seria fácil (Boitempo), editorialista di esquerdaonline.com.br, articolo tratto da aterraeredonda.com.br

    La controffensiva deve andare oltre la risposta istituzionale. Sarà nelle strade che dovremo misurare le forze con i complotti golpisti

    “In cento si scagliano contro chi ne punisce uno. La punizione fa ragionare lo sciocco”
    (proverbio popolare portoghese)

    Hanno fallito. L’assalto bolsonarista ai palazzi è stato sconfitto. Ora è il momento di andare avanti con le indagini, l’arresto e la condanna dei responsabili, senza inciampi, ma soprattutto senza esitazioni sul destino di Jair Bolsonaro. Il principale responsabile dell’incitamento al complotto golpista, per anni, impunemente, è Jair Bolsonaro.

    La decisione del governo Lula di decretare l’intervento federale per la sicurezza di Brasilia, alla luce della minaccia di colpo di stato, è stata corretta e Ricardo Capelli (ex presidente dell’UNE, l’Unione nazionale degli studenti brasiliani, designato da Lula come responsabile dell’intervento del governo federale nel distretto di Brasilia, ndt), merita di essere sostenuto nell’iniziativa di attuare la necessaria repressione immediata. Anche la decisione di Alexandre de Moraes (attuale membro della Suprema Corte Federale-STF e presidente del Tribunale Superiore Elettorale-TSE, ndt) di rimuovere Ibaneis Rocha dal governo del Distretto Federale era giusta, per cercare di riprendere il controllo di Brasilia. Ma la controffensiva deve andare oltre la risposta istituzionale. Sarà nelle strade che dovremo misurare le forze con i golpisti.

    Quella di domenica 8 gennaio è stata un’insurrezione, punto e basta. Caotica, folle, oscura, ma un’insurrezione. L’obiettivo era il rovesciamento del governo Lula. Fortunatamente non ci sono stati morti. Non era una manifestazione di protesta. Non si è trattato di una “esplosione” incontrollata di radicalizzazione spontanea. L’apparente “acefalia” della sovversione non deve nascondere la responsabilità di coloro che hanno preparato, organizzato e diretto il tentativo di prendere il potere. Obbedisce a un piano. È stato un folle tentativo di provocare una rivolta. Una rivolta non armata, ma non per questo meno pericolosa.

    Obbediva al calcolo delirante che una scintilla sarebbe stata sufficiente per spingere alcuni generali a mettere i carri armati nelle strade. Il fatto che la scintilla non abbia generato un incendio con l’uscita in strada di truppe militari disposte a sostenere il colpo di stato non sminuisce la gravità della rivolta. E non annulla il pericolo rappresentato da un’evidente simpatia della polizia e dei militari per il movimento bolsonarista. Una sconcertante operazione articolata, pianificata e accuratamente orchestrata che non può essere sottovalutata. Scoprire chi ha dato gli ordini, quindi chi ha comandato: questa è la sfida centrale di questi giorni.

    Abbiamo assistito, perplessi, stupiti e scioccati, all’incredibile facilità con cui non più di qualche migliaio di fascisti, vestiti da patrioti in una marcia carnevalesca, scortati dalla Polizia Militare, hanno invaso gli edifici simbolo dei poteri della Repubblica. Qualcosa di semplicemente incredibile. L’invasione del Congresso Nazionale, della Corte Suprema e del Palazzo del Planalto (sede del governo e della presidenza della Repubblica, ndt) è stata la dimostrazione che l’impunità dell’estrema destra, dopo due mesi di raduni alle porte delle caserme per chiedere un colpo di stato militare, ha gravi conseguenze. L’assurdo e grottesco spettacolo di tre ore nel centro del potere della capitale sarebbe stato inspiegabile senza la complicità delle forze di polizia e militari di Brasilia.

    Gli arresti preventivi sono inevitabili per indagare sugli organizzatori. Ci sono mandanti occulti che devono ancora essere scoperti. Tuttavia, per quanto progressive, queste decisioni sono insufficienti. La “questione militare” rimane irrisolta. José Múcio Monteiro (dirigente del partito di destra PTB, ndt) non è adatto a rimanere come ministro della Difesa. Il comandante dell’esercito non può rimanere in carica. La risposta della mobilitazione popolare iniziata lunedì 9 gennaio, che non deve essere interrotta, sarà decisiva.

    La “debolsonizzazione” deve essere una strategia permanente. Con il fallimento dell’avventura golpista si è aperto un nuovo momento congiunturale, un’opportunità che non possiamo perdere. È il momento di una controffensiva implacabile. Purtroppo, dobbiamo essere consapevoli che la società brasiliana è ancora molto frammentata. La vittoria elettorale ha modificato favorevolmente i rapporti di forza politici. Ma solo la lotta sociale delle masse potrà imporre un migliore rapporto sociale di forze.

    Non dimentichiamo che la maggioranza della borghesia ha sostenuto Jair Bolsonaro negli ultimi anni. Che la classe media ha sostenuto Jair Bolsonaro. Che, sebbene divisa, una parte importante della classe lavoratrice ha sostenuto Jair Bolsonaro. Le provocazioni fasciste non si fermeranno finché non ci sarà la repressione. L’estrema destra deve essere fermata. L’avventura di domenica è stata in gran parte una “prova generale”. Le forze di estrema destra sono entrate in crisi a seguito della sconfitta elettorale. Lo stesso Jair Bolsonaro si è ritirato demoralizzato per due mesi e ha lasciato il paese.

    Ma non sono ancora state neutralizzate, mantengono le loro posizioni. I fascisti volevano dimostrare a Brasilia di avere ancora forza sociale, ambizione politica e capacità di azione. Scommettono sull’accumulo di forze.

    Se non verranno repressi con l’arresto dei responsabili, a partire dall’indagine su Jair Bolsonaro, torneranno. Non ci può essere amnistia per i crimini che ha commesso. Il governo Lula deve assumere pienamente la guida della lotta contro le provocazioni di Bolsonaro. La sinistra, appoggiandosi ai movimenti sociali, dovrà organizzare una giornata di mobilitazione nazionale in risposta. I fascisti non passeranno!

  • L’assalto a Capitol Hill, il golpe (fallito) di “The Donald”

    L’assalto a Capitol Hill, il golpe (fallito) di “The Donald”

    Due anni fa uno dei tentativi più assurdi di conservare il potere nel cosiddetto “tempio della democrazia”…

    di Francesco Soverina, da CantoLibre

    «Non vi riprenderete mai il nostro paese con la debolezza. Dovete esibire forza e dovete essere forti. Siamo giunti qui per chiedere che il Congresso faccia la cosa giusta e che conti solo gli elettori che sono stati nominati legalmente. So che ognuno di voi presto marcerà sul Campidoglio per far sì che oggi la vostra voce, pacificamente e patriotticamente, venga ascoltata. […] Combattete. Combattiamo come dannati. E se non combatterete come dannati, per voi non vi sarà più un paese […]».

    Con queste incendiarie parole Donald Trump, dietro uno schermo di vetro, si rivolgeva a Washington – il 6 gennaio 2021 – alla variopinta platea dei suoi seguaci. Nel suo discorso, volto a impedire la conferma, per mano del Congresso, dell’elezione del democratico Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti, chiedeva esplicitamente al vicepresidente Mike Pence di vanificare l’esito del voto del novembre 2020. Avrebbe dovuto essere quest’ultimo – secondo quanto ha ammesso l’ex capo di Gabinetto dell’amministrazione Trump, Mark Meadows – uno dei passaggi del piano che avrebbe portato ad un vero e proprio colpo di Stato, finalizzato a mantenere ancora alla Casa Bianca “The Donald”.

    Tuttavia, il disegno eversivo non è andato in porto, anche se si è trattato di un tentativo senza precedenti nella storia degli Usa, così come non ha riscontri nel passato della repubblica nordamericana il clamoroso assalto a Capitol Hill condotto dai sostenitori del tycoon newyorchese, accorsi in migliaia alla “Marcia per salvare l’America” (“Save America March”) e infervorati dalle invettive di Trump, del suo consigliere e avvocato Rudolph Giuliani, nonché dei deputati Mo Brooks e Madison Cawthorn. Espressione della galassia dell’estrema destra interna, razzista e xenofoba, militanti e simpatizzanti dei “Proud Boys”, dei “Libertarians”, dei “Groypers”, di “Qanon”, tra cui il pittoresco «sciamano», Jake Angeli, si sono riversati tumultuosamente nel Palazzo del Congresso, mettendo seriamente in pericolo, per alcune ore, la tenuta delle istituzioni democratiche statunitensi. Sconcerto e scalpore hanno suscitato dappertutto le immagini provenienti da Oltreoceano, sequenze di un film che è stato riproposto, secondo modalità per certi versi non dissimili, in occasione dell’irruzione violenta orchestrata dai neofascisti di CasaPound nella sede nazionale della Cgil a Roma, il 9 ottobre 2021.

    Quanto è accaduto a Washington due anni fa è destinato – certamente – a restare scolpito nell’immaginario degli statunitensi, come altri drammatici momenti: l’inizio della guerra di Secessione, nell’aprile 1861; il micidiale attacco sferrato dai giapponesi contro la base di Pearl Harbor nelle Hawaii, il 7 dicembre 1941; l’assassinio a Dallas del presidente John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963; l’attacco alle Torri Gemelle a New York ad opera del terrorismo jihadista, l’11 settembre 2001. A Washington il giorno dell’epifania 2021 è andato in scena un evento che ha dimostrato, in maniera inequivocabile, le profonde fratture che da tempo solcano lo sconfinato Paese nordamericano. Ascrivibili all’emergere di purulente lacerazioni – è il caso di rammentarlo – sono tanto l’assassinio a Minneapolis, il 25 maggio 2020, dell’afro-americano George Floyd, soffocato dall’agente di polizia Derek Chauvin, quanto i fatti di Charlottesville del 12 agosto 2017, quando un’auto si è lanciata su un corteo antirazzista, uccidendo una manifestante, anch’essa scesa in piazza per contrastare la protesta dei suprematisti bianchi contro la rimozione di una statua del generale sudista Robert E. Lee. I due gravi episodi hanno segnalato, una volta di più, il diffondersi di pratiche e comportamenti riconducibili all’orizzonte politico-ideologico dell’estrema destra e il perdurare dell’odio e dei pregiudizi razzistici, contro i quali si è vigorosamente attivato il movimento del Black Lives Matter.

    Se in campo internazionale, durante il suo mandato, Donald Trump ha rafforzato i legami da un lato con l’Arabia Saudita e dall’altro con Israele, all’interno non ha fatto altro che esasperare conflitti e tensioni, assecondando e solleticando gli umori più retrivi allignanti nella società statunitense.

    Già nella campagna elettorale per le presidenziali del 2016, nel corso della quale ha ripetuto ossessivamente lo slogan vincente “Make America Great Again”, si è distinto per gli insulti a ispanici e musulmani, per la sua netta opposizione all’immigrazione e al multiculturalismo, per la richiesta di blindare il confine con il Messico, per l’esibizione in atteggiamenti machisti e per il rifiuto di mostrare la propria dichiarazione dei redditi.

    Grazie ad uno stile ben lontano dal politically correct, all’abile uso dei social-network e alla capacità di attrarre attenzione mediatica, sfruttando la sua notorietà di popolare personaggio televisivo, Trump ha sedotto ampie fasce dell’elettorato statunitense, riuscendo a fare breccia tra i «perdenti della globalizzazione», tra i «bianchi poveri» (whites poor), oltremodo penalizzati dai processi di deindustrializzazione e di decentramento produttivo che, nel giro di qualche decennio, hanno ridotto il Midwest in una «cintura della ruggine» (la Rust belt).

    Ricorrendo sistematicamente all’armamentario della retorica populista e anti-establishment, il magnate newyorchese si è imposto nel 2016, battendo una figura politica di lungo corso come la democratica Hillary Clinton e diventando il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. La sua affermazione, che pure ha sorpreso molti osservatori in America e nel mondo, non costituiva – a ben guardare – una novità. Altri miliardari, affidandosi alle medesime risorse ed “armi”, hanno conquistato il potere politico: dall’apripista di questo filone, l’italiano Silvio Berlusconi, allo svizzero Christoph Blocher, all’argentino Mauricio Macri, al cileno Sebastián Piñera, al thailandese Thaksin Shinawatra. La loro ascesa ha provato quanto sia precario lo stato di salute della democrazia rappresentativa nell’età del capitalismo globale, caratterizzata dalla subordinazione della politica all’economia, dalla crescente disillusione degli elettori, dalla pervasività del web e dalla crisi del giornalismo di qualità.

    Al vertice della superpotenza nordamericana, Trump per quattro anni è stato un’icona e un perno del populismo di destra, che ha trionfato in Gran Bretagna con Boris Johnson, in Brasile con Jair Bolsonaro e ha avuto un punto di riferimento politico-ideologico nel suprematista bianco Steve Bannon, ripetutamente omaggiato dai leader della destra italiana, Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

    Certo, il consenso di cui godeva Trump è stato non poco eroso dalla sua scellerata gestione della pandemia da corona virus esplosa nei primi mesi del 2020.

    Eppure “The Donald” ha saputo risalire la china, ottenendo nel novembre di quell’anno molti più voti del 2016, anche se ciò non gli è bastato per rimanere alla Casa Bianca. Forse pochi ricordano che, già in occasione della sfida con Hillary Clinton, ha manifestato il proposito di non voler riconoscere la vittoria del proprio avversario. Comunque, la mancata rielezione alla presidenza degli Stati Uniti e il fallimentare tentativo di golpe dell’epifania 2021 non hanno decretato l’uscita di scena di Trump, intenzionato a ricandidarsi nel 2024, pronto ad approfittare delle difficoltà cui sta andando incontro l’amministrazione Biden e ad egemonizzare il Partito repubblicano, portandone a termine il processo di ricollocazione a destra, avviato negli anni Novanta da Newt Gingrich e proseguito in qualche modo da Sarah Palin del Tea Party.

    Tuttavia, l’inedita, vasta mobilitazione a favore del socialista Bernie Sanders in ben due importanti campagne presidenziali e la combattività mostrata da un gruppo di deputate democratiche, tra cui la radicale Alexandria Ocasio-Cortez, rendono meno fosco il quadro politico statunitense, su cui incombono gravi incognite, destinate a ricadere inevitabilmente sul resto del mondo.

  • Classi sociali, che cosa sono?

    Classi sociali, che cosa sono?

    Le classi sociali sono gruppi sociali che si riproducono di generazione in generazione, fonte di disuguaglianza sociale. Per i marxisti, le classi sociali sono fondamentalmente determinate dalla loro posizione rispetto ai mezzi di produzione (proprietari o espropriati)

    Definizioni

    Che cos’è la classe in sé

    La classe in sé è definita oggettivamente dai rapporti di produzione. Pertanto, l’appartenenza alla classe operaia si basa sul fatto che l’operaio possiede solo la sua forza di produzione da vendere, mentre il borghese è il detentore dei mezzi di produzione. Conta anche la modalità di acquisizione della ricchezza (eredità, sfruttamento…).

    Le principali classi sociali che si possono definire sono

    • l’aristocrazia finanziaria
    • la borghesia industriale
    • la borghesia mercantile
    • la piccola borghesia
    • i contadini
    • il proletariato
    • il sottoproletariato

    Che cos’è la classe per sé

    La classe operaia non è cosciente di essere una classe. In primo luogo tende a pensare secondo l’ideologia dominante: quella della borghesia. Ma questo dominio ideologico non è assoluto e presenta molte fragilità, che diventano particolarmente visibili in tempi di crisi.

    La nozione di classe per sé si riferisce quindi al processo consapevole di formazione della coscienza di classe.

    L’origine delle classi

    Origine della divisione in classi

    Da quando l’umanità è stata in grado di produrre più del necessario per sopravvivere e una minoranza di persone si è appropriata di questo “surplus sociale”, l’umanità si è sempre divisa in dominanti e dominati, sfruttati e sfruttatori. Questi ultimi si riuniscono in gruppi più o meno omogenei chiamati classi sociali. Queste classi sociali, nel corso della storia (aristocrazia, schiavi, servi della gleba, borghesi, proletari) sono fondamentalmente definite dal posto che occupano nel sistema di produzione. Se una particolare classe (o gruppo di classi) detiene il potere economico, detiene anche il potere politico. Per mantenere il loro potere, le classi dominanti hanno sempre dovuto perpetuare il dominio politico e ideologico su coloro che sono stati espropriati dei mezzi di produzione.

    Origine del concetto

    La divisione della società in classi nella società emersa dalla rivoluzione industriale era chiara anche ai pensatori borghesi. Lo stesso Marx disse nel 1852:

    “Non è a me che si deve la scoperta dell’esistenza delle classi nella società moderna, né la loro lotta reciproca. Molto prima di me, gli storici borghesi avevano descritto lo sviluppo storico di questa lotta di classe e gli economisti borghesi ne avevano analizzato l’anatomia economica” [Karl Marx, Lettera a J. Weydemeyer, 5 marzo 1852].

    Nel 1780, Marat scriveva:

    “Periscano, dunque, finalmente, queste leggi arbitrarie, fatte per la felicità di pochi individui a scapito del genere umano, e periscano anche quelle odiose distinzioni che hanno reso alcune classi del popolo nemiche delle altre, che fanno sì che la moltitudine si addolori per la felicità di pochi, e che i pochi temano la felicità dei molti” [Jean-Paul Marat, Piano di legislazione criminale, 1780].

    Nel 1794, Chamfort scrisse: “La società è composta da due grandi classi: coloro che hanno più cene che appetito e coloro che hanno più appetito che cene” [Sébastien-Roch Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, 1794].

    Classi in movimento

    Nell’epoca contemporanea si è spesso detto che le classi sociali non esistono più. Con il pretesto che sono avvenuti molti cambiamenti formali, tutto si confonde: ora ci sono classi medie, esclusi, azionisti dipendenti… Questa idea, ovviamente conveniente per la stabilità del sistema stabilito, è contraria a qualsiasi analisi seria dei fatti. Ha avuto origine nel periodo “magico” tra il 1945 e il 1975, e ancora oggi lascia il segno nelle menti delle persone assieme a ogni sorta di illusione sul capitalismo. Ma la realtà gli sta riservando ogni giorno una smentita più crudele.

    Il compromesso precario

    Il periodo dei “30 anni gloriosi”, dopo la Seconda Guerra mondiale, ha creato condizioni di accumulazione particolarmente favorevoli al capitalismo, e allo stesso tempo la pressione delle organizzazioni dei lavoratori è stata abbastanza forte (nei paesi occidentali) da imporre un minimo di redistribuzione.

    Durante questo periodo di forte e prolungata crescita, l’idea di proletariato ha gradualmente lasciato il posto a una vaga nozione di classe media e, soprattutto, a molte illusioni sulla fine degli antagonismi (ascensore sociale…).

    La nozione di classe sociale è stata notevolmente ridimensionata nel discorso politico.

    Ritorno evidente della polarizzazione di classe

    Il periodo 1970-2010 è una sorta di contraccolpo per tutti coloro che avevano riposto false speranze nel sistema. Le classi dominanti sono chiaramente all’offensiva su scala globale. Dalla parte degli sfruttati, la coscienza di classe è certamente più che mai indebolita. Ma chi negherebbe l’esistenza della borghesia? Basta osservare come si organizza su scala nazionale (Confindustria e tutte le altre associazioni padronali), su scala europea (nella UE) o addirittura su scala globale (Organizzazione mondiale del commercio, Banca Mondiale, Fondo monetario, ecc.) per organizzare i suoi attacchi ai diritti dei lavoratori…

    Questa realtà ha portato persino Warren Buffet – il secondo uomo più ricco degli Stati Uniti – ad affermare: “C’è una guerra di classe, certo, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta combattendo questa guerra, e la stiamo vincendo”.

    Tuttavia, la risposta migliore non sta in un’argomentazione, ma nella realtà: con la grave crisi globale del 2007-2010, gli attacchi e le risposte dei salariati stanno aumentando, portando a una polarizzazione sempre più visibile degli antagonismi di classe. Il mito dell’ “ascensore sociale” mostra sempre più la sua falsità. E’ sempre più evidente che la collocazione e il destino sociale di ogni individuo è determinato dalla condizione sociale dei suoi genitori, dal loro reddito, dall’istruzione ricevuta, dal suo luogo di residenza. L’idea un tempo diffusa secondo cui i figli avrebbero vissuto una vita migliore di quella dei genitori sta svanendo.

    Classe e casta

    Nelle società di classe precapitalistiche, le classi erano spesso interpretate come status sociali formalizzati, legati alle ideologie che li giustificavano. Questo vale in particolare per le varie forme di nobiltà. A volte gli status (gli “ordini”, o le “caste”) erano più numerosi, come il sistema delle caste in India. L’appartenenza a una casta è per lo più legata a uno status ereditario.

    Quando queste società erano al loro apice, le nozioni di casta e di classe corrispondevano ampiamente. Tuttavia, più si sviluppavano gli scambi di mercato, e con essi si sviluppava la borghesia, più tendevano a disgregarsi, creando complessi intrecci:

    • I nobili decaduti mantengono il loro status nobiliare, ma essendo privi di terra, non fanno più parte della classe di proprietari terrieri che era il fulcro del potere nobiliare,
    • In circostanze in cui la società borghese non è ancora egemone, alcuni grandi borghesi acquistano titoli nobiliari (e alcuni re li vendono perché hanno bisogno di soldi dalla borghesia, e questa transazione esprime di per sé l’imborghesimento dei valori), queste persone sociologicamente borghesi entrano così nella casta nobiliare,
    • In Russia, fino al 1917, i contadini mantenevano lo status di contadino anche quando erano diventati operai.
    • Le rivoluzioni borghesi tendono generalmente ad abolire le caste, spesso in nome del liberalismo politico, come è successo in Francia nel 1789 (abolizione del sistema dei “tre stati”, nobiltà, clero, terzo stato).

    Tuttavia, questo è ben lontano dall’essere un processo espresso in modo “puro” e meccanico. Così la Rivoluzione inglese, in un contesto in cui le idee repubblicane erano ancora largamente eretiche, mantenne lo status della nobiltà (la borghesia riuscì a svilupparsi in un accordo relativamente pacifico con la nobiltà). Sono emerse molte forme di sviluppo ineguale e combinato: il sistema delle caste in India è proseguito fino ad oggi, sebbene si siano sviluppati rapporti di produzione capitalistici.

  • Marocco, crocevia di interessi e lotte

    Marocco, crocevia di interessi e lotte

    Le notizie del Qatargate (ma anche del Marocgate) ci hanno indotto a pubblicare questo articolo sul caso marocchino

    di Marco Sbandi

    I governi del Marocco da diversi decenni sono impegnati nella missione di convincere gruppi imprenditoriali stranieri ad investire nel paese e a restarvi più a lungo possibile. Questa strategia, teoricamente tesa allo sviluppo del paese, non è esclusiva del Marocco, ma comune a molti paesi che non dispongono di materie prime.

    In Marocco sono presenti gruppi industriali europei (francesi, spagnoli, tedeschi, italiani), americani (USA), asiatici (Turchia, India, Cina, Corea, Giappone) con attività in settori diversi: automobilistico, logistico, elettronico, sanitario, agro-industriale, ecc. Mentre aumentano gli “investimenti” stranieri in Marocco, continua la politica UE di accordi con il governo del Marocco. Gli accordi riguardano prevalentemente i seguenti settori: repressione dei flussi migratori, acquisto di prodotti ittici, acquisto di fosfati.

    Anche se non ufficialmente, gli investimenti e i trattati tra governi europei e governi del Marocco sono complementari, e funzionali soprattutto agli interessi capitalistici dei gruppi privati. Le trattative si intrecciano: quanto è disposta a pagare l’UE per reprimere l’emigrazione? Quanto è disposto il Marocco a cedere perché gruppi industriali europei aprano fabbriche e filiali in Marocco? A che prezzo il Marocco cerca di vendere il pesce e i fosfati (esportazioni principali verso UE)? Quanto sono disposti a pagare governi e industrie europee per essere concorrenziali con gli investimenti cinesi? Quanto costa alla Francia, agli Usa e alla Cina farsi concorrenza in Marocco?

    La concorrenza è tale che si manifesta anche nei media europei: a seconda dei paesi vengono messi in evidenza differenti settori di investimento in Marocco, cambia la classifica degli investitori, e scompare il concorrente cinese (che secondo altre fonti sarebbe il primo da ben 12 anni). Ogni giornale, quindicinale, periodico aggiusta le statistiche in base alle preferenze del padrone privato e del governo del momento. Per aggiustare a piacimento le statistiche si distinguono gli investimenti diretti da quelli indiretti, l’interessamento a distanza da quello in presenza, prestiti da finanziamenti, ecc. 

    E c’è un settore del quale si parla poco o non si parla affatto, soprattuto sui media europei: quello della cosiddetta “sicurezza”. Gli acquisti di materiale bellico e spionistico da parte dei governi marocchini sono aumentati di parecchio negli ultimi decenni, e sono comparabili solo a quelli algerini nel continente africano. Da cosa nasce questa ossessione securitaria ? E’ dettata da interessi interni o esterni? I fattori sono essenzialmente tre: l’opposizione algerina al riconoscimento della sovranità marocchina sul territorio saharawi, la pressione degli investitori stranieri sul controllo interno, e la pressione UE per reprimere i migranti a tutti i costi. Gli investitori stranieri, oltre a godere di vantaggi fiscali e di terreni a costo minimo, pretendono che i salari siano bassi, le misure di sicurezza minime, la copertura sanitaria debole, e che magari i sindacati scompaiano dalle aree in cui aprono le loro fabbriche e le loro sedi.

    Da una parte l’assistenza sanitaria per le malattie contratte sul lavoro sta aumentando, dall’altra i governi marocchini stanno decisamente sostenendo l’intervento di gruppi privati (prevalentemente stranieri) nella sanità, non solo nel settore della produzione di medicinali (la francese Sanofi ha una sorta di monopolio per molti medicinali) ma anche nel campo delle strutture (cliniche private e laboratori di analisi privati), con un aumento anche del ruolo delle assicurazioni private. La salute delle lavoratrici e dei lavoratori, quindi, prima è subalterna alla produzione, e poi è di nuovo merce di scambio tra governi e padronato.

    Per quanto riguarda il costo della manodopera, anche in Marocco è stato deciso che in alcune aree il salario sia più basso “per favorire gli investimenti stranieri” e lo “sviluppo dell’area”. Le aree individuate sono le più povere e quindi quelle dove un salario normale sarebbe già insufficiente a mantenere una famiglia. Queste aree sono intorno alla catena montuosa dell’Atlante e intorno alla area dove sorge il porto di Tanger Med. Questa è una area che ha alle spalle il Rif, una catena montuosa più bassa e più brulla dove agli inizi del 1900 si è sviluppata la prima resistenza armata anti-coloniale (contro le truppe spagnole e francesi alleatesi), una resistenza che ha accusato la monarchia marocchina di averla tradita per farsi promettere la cessione della area stessa. Il porto di Tanger Med, specializzato in traffico di container, ovvero in traffico mercantile, è in posizione geo-strategica rispetto allo stretto di Gibilterra con l’ingresso al Mediterraneo da ovest, la rotta che va dall’America del Sud verso l’Europa, e la rotta di circumnavigazione dell’Africa. Dal porto di Tanger Med le industrie presenti nell’area possono esportare direttamente la merce prodotta verso altri continenti.

    È vero che con gli investimenti in Marocco le industrie straniere cedono “know how” o capacità tecniche e tecnologiche (come vorrebbe la propaganda marocchina)? No, se si considera che l’occupazione riguarda soprattutto persone non laureate, non i laureati che vivono in città. E’ evidente da questi dati ufficiali marocchini che alle aziende riguardo alle operaie e agli operai del settore auto, ma anche del settore manifatturiero, della logistica, interessa soprattutto il basso salario e le ridotte capacità di autodifesa legale.

    Quando le operaie e gli operai marocchini si sono ribellati alle condizioni di lavoro disumane ed ai salari insufficienti, le imprese straniere hanno chiuso e lasciato il paese. Quindi le imprese straniere sono interessate alla repressione di ogni forma di sindacalizzazione e autodifesa operaia.

    Le imprese straniere, essendo spesso multinazionali, hanno ovviamente lo stesso interesse nelle fabbriche presenti in Europa: e dunque premono sui governi per la repressione dei lavoratori sia in Marocco che in Europa. E per scaricare la rabbia operaia del nord su capri espiatori e distrarla dal padronato, gli industriali francesi, spagnoli, belgi, olandesi, italiani, tedeschi (per restare in Europa) premono sui governi per acuire la propaganda xenofoba e allo stesso tempo creare un filtro terroristico sulla immigrazione. A dispetto della propaganda elettorale nei diversi paesi, non esiste una accoglienza dei migranti, se non nel senso della repressione e messa in gabbia immediata di coloro che riescono ad arrivare vivi in Europa. CIE, Cara, Hotspot, ecc servono a controllare gli immigrati, a intimidirli, a reprimerli, a raggrupparli per destinarli dove fa più comodo.

    Quale è la procedura per arrivare ad un permesso di soggiorno e quanto tempo resta valido il permesso? La procedura per ottenere il permesso di soggiorno è come un labirinto per la persona immigrata: deve avere la residenza, un contratto di lavoro, soldi per vivere in Italia (più soldi di quanti lo stato ne ritiene necessari per una pensione sociale). Se il contratto di lavoro scade, se per lavorare c’è bisogno di spostarsi, se i documenti del paese d’origine non sono in italiano (ovvio) e non sono con il migrante (perché li ha persi, o perché ci sarebbero voluti mesi per averli), la persona immigrata cade in una posizione forzatamente clandestina dalla quale non può uscire indenne…

    Agenti della Guardia Civil dello stato spagnolo cercano di sloggiare i migranti dalla rete di sbarramento a Melilla

    La concessione dei visti e dei permessi di soggiorno è parte integrante delle trattative tra governi del Marocco e governi europei. A seconda del gradimento della politica marocchina da parte di investitori privati e governi, consolati e ambasciate allungano i tempi dei visti, aumentano le spese per concederli, riducono il numero di visti e permessi autorizzati. Il permesso di soggiorno vale solo un anno. In questa trattativa da mercato degli schiavi è compresa quella sui minori non accompagnati che arrivano in Europa. Molti di questi minori spariscono dalle procedure burocratiche e spariscono per tutti (anche per le famiglie). Sono le famiglie che mandano minori non accompagnati? Sono veramente non accompagnati? E che fine fanno?

    Dato l’ostruzionismo burocratico (illegale ma esistente) nei confronti di qualsiasi documento non europeo (oltre che non in lingua europea) anche l’unità delle famiglie può essere messa in pericolo da separazioni assurde contro l’interesse dei minori. Di tanto in tanto i governi europei tornano all’assalto dei governi marocchini per rispedire indietro dei minori “non accompagnati” e liberarsene. Si tratta ovviamente di una forma di ricatto nei confronti dei governi del Marocco che va a pesare rispetto ad altre trattative (sui finanziamenti alla repressione della emigrazione, ma anche sugli investimenti in altri settori).

    Se alcuni investitori stranieri non possono contare su una presenza armata ufficiale in Marocco, quelli francesi e statunitensi possono invece godere anche di questa arma vera e propria. La Francia continua ad avere un ruolo e una presenza militare in tutta l’Africa occidentale, ma sta perdendo terreno rispetto alle pretese USA. La posizione francese è oggi per esempio indebolita dalla divergenza tra Algeria e Marocco sulla sovranità saharawi. La divergenza non è affatto nuova, ma negli ultimi anni il Marocco ha incrementato decisamente l’occupazione militare ed industriale nell’area e la Francia si trova a rispondere contemporaneamente alle pressioni marocchine e algerine. In questa guerra di influenze, i saharawi e i marocchini sono solo pedine.

    Gli USA hanno da tempo una base in Marocco, ai piedi del Medio Atlante, e basi militari USA pare siano presenti anche in Algeria. Gli USA da anni stanno puntando sul terrorismo “islamico” in tutta l’Africa per destabilizzare paesi ed aree e fare poi pressione affinché i governi concedano basi e acquisti di armi (USA). La Francia sta perdendo terreno in questi scontri contro bande di mercenari che si spostano con estrema e sospetta facilità.

    La gigantesca centrale a carbone di Safi

    Ma Francia e USA (ovvero interessi capitalistici delle lobbies dei due paesi) stanno perdendo terreno, economicamente, nei confronti degli investitori cinesi. Nonostante la propaganda anti-cinese sia presente anche sui media marocchini (soprattutto francofoni) con pregiudizi da cliché, gli investimenti cinesi in Africa, Marocco incluso, sono in decisa e costante ascesa da 12 anni. La voracità del capitalismo occidentale (francese e USA) ha messo da tempo in crisi il consenso nei suoi confronti in Africa. E’ evidente che le aziende straniere tendano ad annullare qualsiasi presenza di gruppi locali nei settori più remunerativi. Gli investitori francesi e americani tendono a mantenere ed ottenere il monopolio in diversi settori: agro-industriale, energetico, sanitario, ecc.

    Acque e terre del Marocco, come la trasformazione dei prodotti della terra in prodotti alimentari, sono nel mirino degli investitori stranieri e le masse di abitanti delle campagne e delle città rischiano di vedersi sottrarre la proprietà e l’uso dei terreni e delle acque. La dipendenza dagli investimenti stranieri è tale che allo stesso tempo il Marocco ha permesso una centrale a carbone (coreana) presso Safi (sulla costa), ha concesso lo sfruttamento di ipotetici bacini di gas offshore e inshore (imprese britanniche, olandesi e americane), cerca di incrementare le centrali fotovoltaiche (imprese tedesche principalmente), e comincia a pensare alla costruzione di centrali nucleari (per la Areva francese). Una politica che rischia di rendere il territorio marocchino una discarica a cielo aperto e di rifiuti pericolosi.

    Gli investimenti cinesi, senza pretese di influenza politica e militare, stanno da anni portando anche il governo marocchino a sottoscrivere accordi con la Cina. Un tentativo di diversificazione delle dipendenze e di liberazione forse da una spirale insostenibile di incremento delle spese militari. La Cina è arrivata da poco in Marocco, anche a causa della nota dipendenza marocchina da Francia e USA, rispetto ad altri paesi africani (Tanzania e Kenya soprattutto) dove apparve già agli inizi del 1400. La Cina può vantare rispetto ai colonizzatori euro-americani, una storia di relazioni internazionali prevalentemente diplomatiche e basate sul commercio.

    La costante minaccia militare USA, una condotta mafiosa che promette “protezione” e minaccia eliminazione, sta spingendo però anche la Cina a dotarsi di difese militari in patria e di scorta alle navi mercantili. In questo senso si può leggere l’unica richiesta (al momento) di base militare fatta dalla Cina in Africa e accettata dal governo di Gibuti. Sembra che il Marocco abbia anche permesso a navi russe di attraccare nei porti marocchini in caso di necessità di manutenzione e riparazione, ma al tempo stesso pare (ci sono smentite delle forze armate) che abbia inviato armi al governo della Ucraina contro la Russia (che importa quantità importanti di prodotti agricoli dal Marocco).

    In questo mondo di trattative truccate e di protezioni mafiose, si inserisce anche il calcio. La stampa europea si è improvvisamente scandalizzata per le pressioni del Qatar affinché fosse accolta la sua candidatura ad organizzare i mondiali, e si è improvvisamente scandalizzata delle pressioni marocchine per il riconoscimento della sovranità sul Sahara. Come mai la stampa europea si scandalizza delle pressioni del Qatar e del Marocco, ma non delle pressioni mafiose USA (per restare in ambito esterno), e del massacro quotidiano di migranti e lavoratori tra il Mediterraneo e l’Europa?

    In questi scandali elementari e ipocriti si vede anche il livello di libertà di opinione in Europa. Il Qatar non è investitore gradito agli Usa perché non ha accettato di rompere le relazioni con l’Iran e non ha accettato di partecipare alla distruzione dello Yemen. Il Marocco, oggi baluardo sportivo e morale dei migranti marocchini e di tutta l’Africa, resta per la stampa europea il luogo dove i padroni vanno a fare affari e da dove partono quei migranti da reprimere ad ogni costo in patria e in Europa. Ma immigrati fieri delle proprie origini e delle proprie comunità possono costituire una base di protesta anche contro le politiche europee, e contribuire alle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici d’Europa contro il sistema capitalistico.

  • Avraamov, Arseny (autore della Sinfonia delle sirene)

    Avraamov, Arseny (autore della Sinfonia delle sirene)

    Quando “scopriamo” l’avanguardia musicale della Rivoluzione d’Ottobre…

    Arseny Avraamov nacque il 22 aprile 1886 a Novotcherkassk. Fu compositore russo e sovietico. Dopo studi musicali approfonditi (teoria e composizione) a Mosca, Arseny Avraamov fu arrestato nel 1912 come bolscevico mentre prestava servizio in un’unità cosacca. Fuggito in Norvegia, lavorò come marinaio, poi in un circo francese come acrobata e clown. Tornato in Russia (San Pietroburgo), iniziò a farsi un nome come critico musicale e compositore. Subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, fu nominato commissario per la cultura nella regione di Kazan. Durante la guerra civile, divenne commissario dell’Armata Rossa e caporedattore di uno dei suoi giornali provinciali (Rostov). Alla fine della guerra civile, ha insegnato musica e arti militari nelle accademie per quadri del Partito comunista a Mosca e in Azerbaigian. Musicologo, critico musicale, teorico, compositore, inventore di nuovi strumenti musicali, studioso delle tradizioni musicali dei popoli caucasici e caspici, Avraamov, sempre povero e inquieto, è oggi giustamente riconosciuto – insieme ad alcuni suoi amici e colleghi dell’avanguardia musicale rivoluzionaria russa – come un “profeta” e un genio in quanto progenitore della moderna musica internazionale – “classica” e non solo. Dopo decenni di totale scomparsa di sé e del suo lavoro durante l’era staliniana e post-staliniana, negli ultimi 30 anni Avraamov è gradualmente emerso dall’oscurità, prima in Occidente e poi in Russia, e la sua musica è di nuovo eseguita, registrata e studiata, ricercata e discussa in tutto il mondo.
    Morì il 19 maggio 1944 a Mosca.
    Per ricordarlo pubblichiamo il seguente articolo che è apparso in Grecia nel 2017 in occasione della sessione ateniese della mostra Documenta 14.

    di Yorgos Mitralias

    Il logo di Documenta 14

    Quale può essere il punto in comune tra i signori in uniforme, grigi e cupi, con cappotti da trincea e cappelli di feltro, che si sono applauditi a vicenda interminabilmente sui banchi delle loro tristi e monotone conferenze che inneggiavano alla Rivoluzione d’Ottobre? e l’eterno ribelle sovversivo bolscevico Arseny Avraamov (Арсений Михайлович Авраамов) che, nell’autunno del 1922, guidò dal tetto più alto di Baku, sventolando bandiere e sparando in aria, la più improbabile “orchestra” fantascientifica della storia umana, composta sa unità dell’Armata Rossa, da una flottiglia della marina sovietica del Mar Caspio, da operai e da sirene delle fabbriche della capitale azera, da venticinque locomotive a vapore e dai ferrovieri della città, dai cori dei suoi abitanti, da un idrovolante, dacannoni e mitragliatrici, dacamion e autobus, e persino dal futuristico “fischio a vapore” inventato da lui stesso, compositore e direttore d’orchestra! La domanda non è retorica e sorge spontanea nella mente del visitatore che ascolta la profetica (e insostituibile) Symphony of Sirens, mentre la scopre, e con essa il suo dimenticato compositore Avraamov, grazie alla mostra Documenta 14, in un giorno d’estate del 2017, proprio nel bel mezzo del centenario della rivoluzione che vide “quelli di sotto” osare l’impensabile e prendere d’assalto il cielo!

    La risposta è ovviamente che non c’è nulla in comune. Niente di niente. O piuttosto che Avraamov, la sua opera e la sua generazione di rivoluzionari sono l’antitesi di questi signori con il cappello di feltro – sono la loro negazione vivente. Ed è per questo che questi “signori” si sono sbarazzati degli Avraamov e hanno riscritto la storia per sradicare gli Avraamov stessi dalla memoria collettiva. Come se non fossero mai esistiti…

    Questi sono i primi pensieri che vengono automaticamente e spontaneamente evocati ascoltando la Sinfonia delle Sirene in occasione del centenario della rivoluzione (socialista) russa. E questo è certamente il contributo più rinvigorente di questa sinfonia futurista al ristabilimento della grande verità storica, che vuole che tutti quei visionari e sovversivi Avraamov capovolgano il mondo per cambiare la vita da cima a fondo, e non – ovviamente – per attuare la propria versione “di sinistra” del trittico eternamente reazionario “patria-religione-famiglia” professato dai vari epigoni dei signori in trench e cappello di feltro. In occasione del centenario della grande rivoluzione russa, il semplice ascolto della “Sinfonia delle sirene”, unito ai “sottotitoli” forniti dalla biografia del suo compositore, è quantomeno rassicurante e allo stesso tempo infligge un colpo mortale alle finzioni sulla rivoluzione del 1917 di tutti i suoi nemici, sia da una parte che dall’altra: sia dei neo-stalinisti e delle altre escrescenze burocratiche del movimento operaio, sia degli eredi politici di tutti quei nemici giurati della rivoluzione, che fin dall’inizio hanno fatto di tutto, anche la guerra con le loro forze di spedizione contro la neonata Unione Sovietica, per cancellarla dalla faccia della terra! ….

    Non si tratta solo di una musica incredibilmente anticipatrice, che porta l’ascoltatore a chiedersi come sia possibile che nella Russia degli anni Venti ci fosse una tale musica del futuro, che ricorda molto la musica “elettronica”… 50-60 anni prima della sua comparsa! Vale a dire, 40 anni interi prima degli Stockhausen, dei Berio o degli Schaeffer e dell’esplosione della tecnologia di studio di tutte le “meraviglie” elettroniche acustiche – che oggi conosciamo – che hanno arricchito e plasmato la musica popolare (pop) internazionale di oggi. Soprattutto, è che questi suoni e rumori completamente rivoluzionari e “impensabili”, che ancora oggi, a distanza di un secolo (!), sconvolgono i nostri conservatori “di sinistra” con i loro gusti estetici superati, divennero possibili in un momento storico che vedeva la Russia bolscevica, stracciona ma ribelle, affamata (al punto che si moltiplicavano i casi di… cannibalismo!), che sanguinava copiosamente, che perdeva i suoi migliori rivoluzionari sui campi di battaglia e che non sapeva cosa avrebbe portato il giorno dopo. Ed è proprio questo giovane stato rivoluzionario, con i suoi mille e uno problemi esistenziali, che non solo permette, ma osa incoraggiare gli esperimenti più sovversivi e radicali nell’arte e nella vita quotidiana, arrivando persino a “prestare” il proprio esercito e le proprie fabbriche all’artista, come accadde con Avraamov a Baku nel 1922, e poi a Mosca e altrove con molti altri rappresentanti dell’avanguardia artistica del tempo!

    E tutto questo perché la dottrina ufficiale della giovane rivoluzione di quei primi anni era quella “Libertà totale nell’arte” (!), che ancora oggi rimane irraggiungibile, ben lontana dai noti depistaggi e dalle pseudo-scuse dei tristi epigoni di oggi sul dare priorità perché… “Abbiamo questioni più importanti da affrontare”.

    Non è quindi un caso che la “scoperta” di Araamov e dell’avanguardia musicale sovietica attraverso Documenta 14 abbia lasciato la sinistra greca fredda, totalmente indifferente e non abbia suscitato – tranne uno – il minimo commento da parte loro. Ma ciò che è ancora peggio è che una parte della sinistra greca non solo ha denigrato la mostra, osando addirittura definirla una “provocazione neonazista” che “fa volare di nuovo la svastica sulla Grecia” (!), ma ha anche invitato più o meno chiaramente i suoi sostenitori ad “andare a distruggerla” (!). La conclusione non lascia dubbi: questo atteggiamento mostruoso basta da solo a stabilire che il rapporto di tutti questi patrioti incalliti, aspiranti censori e altri vandali oscurantisti con i rivoluzionari del 1917 e con il loro giovane stato sovietico è uguale a quello tra il giorno e la notte. Nil!

    Ascoltate quindi la Siren Symphony di Arseny Avraamov, cercando di immaginarlo mentre dirige, sventolando bandiere e sparando colpi dal tetto più alto di Baku, la più grande e incredibile orchestra e coro di migliaia di macchine e “gente comune” che l’umanità abbia mai conosciuto…

    E se ne avete voglia, dedicate un pensiero al primo tentativo di emancipazione della razza umana, così malvisto e caricaturizzato, che alcuni sovversivi visionari osarono lanciare in quel lontano 1917 nella Russia arretrata. Un secolo dopo, la loro impresa rimane incompiuta e la loro ambizione più attuale che mai…