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  • Nicaragua, la dittatura accusa Oscar René Vargas, senza specificare quale sia il “crimine”

    Nicaragua, la dittatura accusa Oscar René Vargas, senza specificare quale sia il “crimine”

    Lo Stato si dichiara “offeso” da un intellettuale che ha esercitato la libertà di opinione. Il caso viene assegnato a un giudice che ha condannato prigionieri politici.

    di Octavio Enríquez, da confidencial.digital

    Leggi e aderisci all’appello internazionale

    Il 23 novembre, meno di 24 ore dopo il suo arresto, la Procura ha incriminato il sociologo Oscar René Vargas (cfr. Appello internazionale), intellettuale critico nei confronti del regime di Daniel Ortega, catturato mentre visitava la sorella, in condizioni di salute precarie, nel centro residenziale Bolonia di Managua.

    Le autorità non hanno specificato il reato, ma hanno ritenuto che lo stato fosse “vittima o offeso” da Vargas, che negli anni ’80 è stato consigliere della Direzione nazionale del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Nei casi di arresti precedenti in circostanze simili, sono stati successivamente accusati di “propagazione di notizie false” o “cospirazione per minare l’integrità nazionale”.

    Il pubblico ministero è Yubelca del Carmen Pérez Alvarado, che ha depositato l’atto d’accusa di quattro pagine alle 12:56 di mercoledì scorso davanti al giudice Gloria María Saavedra Corrales, capo del Tribunale penale del X distretto di Managua. Il caso è registrato con il numero 025318-ORM4-2022-PN.

    Vargas è stato membro del FSLN negli anni ’60 e nel novembre 1967 ha salvato Daniel Ortega nel quartiere Monseñor Lezcano di Managua, quando stava per essere catturato, un atto di cui il sociologo non si è mai pentito, come ha raccontato nel 2019 al giornalista nicaraguense Fabián Medina su Infobae mentre era in esilio.

    In seguito Vargas sarebbe tornato discretamente in Nicaragua, dove non ha svolto alcuna attività pubblica, ma ha mantenuto un intenso lavoro intellettuale, pubblicando articoli critici sul suo blog ed esponendo le sue analisi a diversi media indipendenti, sulla crisi del FSLN, di Ortega e sulla crisi sociale e politica che ha colpito il Nicaragua.

    Giudice e procuratore perseguitano i prigionieri politici

    Sia il procuratore che il giudice assegnati al caso di Oscar René Vargas sono noti per perseguire i prigionieri politici. L’accademico è stato arrestato nel corso di un’operazione condotta dalla Direzione delle operazioni speciali (DOEP), composta da agenti di polizia incaricati di operazioni contro il traffico di droga e il terrorismo.

    Secondo fonti vicine alla sua famiglia, il sociologo ed economista non ha opposto resistenza. È stato trasferito in una destinazione sconosciuta.

    Una delle cause più recenti contro i prigionieri politici, intentata dal giudice Saavedra Corrales, riguarda la Chiesa cattolica, bersaglio di una feroce persecuzione da parte della dittatura.

    Il giudice ha imposto 90 giorni di carcere per “indagare” sui religiosi e i laici che accompagnavano monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa, quando è stato portato via con la forza dopo l’irruzione della polizia nella Curia il 19 agosto.

    Pérez Alvarado fa parte della rete di procuratori e giudici che hanno eseguito l’ordine politico di Ortega di condannare i prigionieri politici in un’escalation repressiva scatenata dal regime per imporre il terrore alla cittadinanza. Attualmente nel paese ci sono 219 prigionieri politici, detenuti in un sistema che è stato denunciato per aver praticato la tortura e cancellato le garanzie costituzionali.

    Questi operatori giudiziari starebbero commettendo il reato di prevaricazione e tortura, secondo un’indagine condotta mesi fa dal sito confidencial.digital. Infatti, il procuratore è stato sanzionato dagli Stati Uniti lo scorso luglio come parte di 23 operatori giudiziari del regime di Ortega che si caratterizzano come carnefici di prigionieri di coscienza.

    il Centro nicaraguense per i diritti umani (Cenidh) chiede il suo rilascio: “La sua vita è a rischio”

    Venuto a conoscenza dell’atto di accusa nel sistema elettronico dei tribunali di Managua, il Cenidh ha ritenuto il regime di Ortega-Murillo responsabile di quanto potrebbe accadere all’intellettuale, che ha 77 anni e un pacemaker.

    “La sua vita è a rischio. Chiediamo il suo rilascio immediato”, ha chiesto la nota organizzazione, che ha sottolineato l’innocenza dell’uomo e ha aggiunto che i suoi parenti e il suo avvocato difensore sono riusciti a fargli passare l’acqua, ma che ha bisogno di assistenza sanitaria specializzata.

    Ripercussioni internazionali

    L’arresto di Vargas, autore di 36 libri e coautore di altri 20, ha provocato reazioni internazionali. L’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) ha definito arbitraria la sua detenzione e ha affermato che i funzionari del carcere, compresoil carcere di El Chipote, hanno negato di averlo in custodia. L’OHCHR ha dichiarato che questo modello è ricorrente e può essere definito una “sparizione forzata a breve termine”.

    Da parte sua, anche l’Associazione Sociologica Latinoamericana (ALAS) ha espresso la sua più ferma protesta e ha sottolineato il suo lavoro in un comunicato.“Il suo importante lavoro di analisi e ricerca si è tradotto, tra l’altro, nella pubblicazione di decine di libri e centinaia di articoli sia in Nicaragua che all’estero”, ha dichiarato l’organizzazione.

    Come specifica il sito web del sociologo nicaraguense, Vargas è anche un economista. Ha studiato, tra l’altro, all’Università di Losanna (Svizzera) e al Graduate Institute of Development Studies (Ginevra). Ha conseguito un dottorato di ricerca in economia politica presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM). In uno dei suoi ultimi articoli, Vargas ha analizzato un documento del Fondo Monetario Internazionale sul caso del Nicaragua, pubblicato dopo una visita del FMI tra il 7 e il 15 novembre.

    L’organizzazione multilaterale ha dichiarato che l’economia si sta riprendendo e le prospettive sono favorevoli. “Nonostante la dittatura non abbia un accordo formale con il FMI, le misure da attuare nel 2023 sono molto più forti di quelle raccomandate dal FMI nei suoi programmi di aggiustamento strutturale. La situazione sarà peggiore di quella attuale: più disoccupazione, maggiore migrazione, riduzione del potere d’acquisto, impossibilità di acquistare i generi di prima necessità alimentare di base, malnutrizione, fame e maggiore malcontento tra i cittadini”, ha affermato il sociologo (Segnaliamo a questo proposito l’analisi del rapporto del FMI, intitolata “Salari, costo del paniere alimentare di base e fame” pubblicata sul blog di Oscar René Vargas).

  • Manovra contro gli ultimi illudendo i penultimi

    Manovra contro gli ultimi illudendo i penultimi

    di Fabrizio Burattini

    La guerra ai poveri di Draghi continua e si inasprisce con la manovra Meloni 2022. Si delinea una società sempre più diseguale. Vendetta contro chi non ha accettato la demagogia della destra e premio per i ceti che la hanno appoggiata. Un’opposizione da costruire

    La “grande stampa”, dopo la pubblicazione della proposta di legge di bilancio del governo Meloni, sembra tirare un sospiro di sollievo. Certo, la manovra è una “manovrina” (“La Stampa” di Massimo Giannini), è “piccola piccola” (“La Repubblica” di Maurizio Molinari), risente della “stesura fatta in tutta fretta da un governo appena insediato”… Sempre sulla “Stampa”, Marcello Sorgi afferma che il governo “supera l’esame di maturità”, perché ha “sostanzialmente rispettato” i vincoli europei e la lezione Mario Draghi quanto a “rigore fiscale” e a “politiche di austerità”.

    L’entusiasmo della destra

    Se la stampa “democratica” si sente rassicurata (ma sapevano bene che Meloni e i suoi non si sarebbero discostati dai diktat di Bruxelles, il loro progetto è molto più ambizioso), la stampa amica della premier si spertica in elogi e osanna: “La strada giusta” (Alessandro Sallusti su “Libero”), “Manovra di bilancio, il governo aiuta i più deboli” (“Il Tempo”), “Coraggiosa. Aiuta il ceto medio e i pensionati” (De Feo sul “Giornale”). Quanto al blocco del Reddito di cittadinanza, le prime pagine dei giornali di destra traboccano di esultanza: “Buon lavoro fannulloni” (“Libero”), “Stop alla follia dei 5 Stelle” (“Il Secolo d’Italia”). 

    Sanno che il blocco del RDC è importante non tanto perché fa recuperare qualche centinaio di milioni (dicono 700) da stornare a favore delle imprese piccole e grandi, ma soprattutto perché è una misura che spinge verso il basso i rapporti di forza delle classi più povere che saranno sempre più costrette ad accettare un lavoro a qualunque condizione e in cambio di salari ancora più bassi. Non dimentichiamo che almeno 173.000 percettori di RDC lavorano regolarmente (iscritti all’INPS) ma ricevono un salario così misero da dover essere integrato dal RDC.

    Gli argomenti della demagogia

    Il governo “gialloverde” aveva preteso di “sconfiggere la povertà”, il governo Meloni vuole “sconfiggere i poveri”

    Come cento e più anni fa, il padronato e il governo al suo servizio vogliono usare come armi di costrizione il bieco marchio del “fannullone” e la fame per obbligare le persone ad accettare qualunque occupazione, e questo non è solo uno strumento di politica (anti)sociale ma costituisce un segnale nei confronti del mondo imprenditoriale ed anche dei settori centristi (Calenda e Renzi), altrettanto agguerriti contro i ceti più poveri.

    E poi in quella misura sul RDC c’è anche un aspetto vendicativo verso quegli ampi settori popolari che (soprattutto al Sud) non hanno prestato ascolto alla demagogia reazionaria di Fratelli d’Italia e delle altre consorterie alleate, ma hanno confermato il loro voto agli odiati 5 Stelle.

    L’ideologia che muove il governo e che, purtroppo, raccoglie un immeritato consenso, è quella secondo cui la disoccupazione, la povertà non sono fenomeni intrinseci al sistema capitalista, ma sono solo la conseguenza della inettitudine e della pigrizia dei “fannulloni”. I 660.000 percettori di RDC “occupabili”, per di più un certo numero tra di loro anche immigrati da chissà dove, diventano così, nell’immaginario della narrazione governativa, confindustriale e dei loro lacchè, nemici della “nazione”.

    Certo, quella misura solletica anche il consenso di quei tantissimi lavoratori che oggi sono occupati e che faticano per portare a casa salari di poco superiori al RDC e che sono quindi sensibili alla demagogia contro i “fannulloni” che “stanno sul divano e vivono sulle spalle di chi paga le tasse”. E che non pensano che il destino di non trovare un lavoro minimamente degno di questa definizione potrebbe colpire anche loro, tanto più in una fase di crisi economica nella quale fabbriche ed aziende chiudono, i contratti a termine non vengono rinnovati…

    Cuneo fiscale e Confindustria

    Dunque, una manovra durissima contro gli ultimi volta a far credere ai penultimi che il governo vuole aiutarli con la riduzione del “cuneo fiscale”, con l’aumento irrisorio delle pensioni minime e con un piccolo incremento degli aiuti ai settori più poveri per affrontare il “caro bollette”.

    In realtà, occorre dirlo una volta per tutte, la riduzione del cuneo fiscale consente sì un misero incremento dei salari netti (tra i 10 e i 20 euro mensili) ma tutto autofinanziato dai lavoratori, perché la riduzione dei prelievi fiscali al lavoro dipendente riduce in maniera cospicua le entrate dell’erario e di conseguenza anche la capacità di spesa pubblica. Con la conseguente riduzione dell’offerta di servizi pubblici e universali (pensioni, ammortizzatori sociali, scuola, sanità) ai ceti più deboli.

    Una riduzione del cuneo che punta soprattutto a ridurre la pressione salariale dei lavoratori verso le imprese. La riduzione del cuneo fiscale consente alle imprese di dire durante i negoziati contrattuali: “ma come, avete avuto la riduzione del cuneo e chiedete ulteriori aumenti?”.

    La Confindustria critica il governo perché avrebbe voluto una riduzione del cuneo più consistente e almeno una parte di quei soldi a vantaggio delle imprese. Le associazioni padronali (a differenza dei sindacati) non si accontentano mai. Hanno già pronti i comunicati di dissenso ancor prima che il governo annunci le sue scelte, perché sanno che così ostacolano preventivamente ogni “miglioramento” delle misure a favore dei lavoratori e, non si sa mai, spingono verso un “miglioramento” a proprio favore.

    La tassa piatta per alcuni e progressiva per gli altri

    Com’è noto, la “flat tax” al 15% viene estesa alle partite IVA fino a 85.000 euro di reddito, con la conseguenza (che giustamente Nadia Urbinati su “Domani” ritiene anticostituzionale) per cui un dipendente, a parità di reddito, pagherà fino a 10.000 euro di tasse in più rispetto ad un autonomo. Si delinea, come ha scritto Giuseppe Pisauro sul Manifesto “una separazione netta tra il regime fiscale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, da un lato, e dei lavoratori autonomi e dei professionisti, dall’altro”.

    Dunque, una manovra che acutizzerà pesantemente e perfino renderà strutturali le già indegne diseguaglianze economiche e sociali del paese.  Né va trascurato un pesante effetto “macroeconomico” della manovra: essa contribuirà a far scendere ancor di più i consumi interni e, dunque, forse riuscirà a contenere l’inflazione ma asseconderà anche la tendenza recessiva già in atto.

    La manovra della disuguaglianza

    Una manovra ispirata ad un minimo di equità sociale avrebbe dovuto affrontare seriamente il problema delle retribuzioni del lavoro dipendente e delle pensioni basse al palo da trent’anni e taglieggiate nell’ultimo anno dalla fiammata inflattiva, avrebbe dovuto inasprire la progressività fiscale, ampliare il reddito di cittadinanza e tutti gli altri ammortizzatori sociali, mettere sotto controllo pubblico i prezzi dei prodotti di prima necessità. 

    Il governo Meloni ha scelto coscientemente di fare proprio il contrario. Non ha avuto neanche il coraggio di abolire l’IVA sui prodotti di prima necessità (pane, latte…). 

    • Con il taglio netto e la minaccia di abolizione totale del RDC, ha rinvigorito ulteriormente la guerra ai poveri, sulla linea che era già stata di Draghi. 
    • Ha peggiorato il sistema di adeguamento delle pensioni all’inflazione (recupereranno integralmente l’inflazione solo le pensioni non superiori a 1.584 euro netti). 
    • Ha tagliato gli sgravi sulle bollette per le famiglie mentre ha incrementato gli sgravi per le imprese. 
    • Gli extraprofitti miliardari delle imprese dell’energia, lucrati grazie all’impennata dei prezzi del petrolio e del gas e nei fatti estorti con la forza ai cittadini, verranno tassati al 35%, cioè tanto quanto viene tassato un lavoratore dipendente che riceve un salario mensile netto di 1.650 euro.
    • Hanno allargato, come già detto, la platea di chi godrà di una tassa piatta.
    • Hanno favorito l’evasione fiscale e il riciclaggio del denaro illecito con i provvedimenti sul contante, con la flat tax, sulla rottamazione delle cartelle, sulla detassazione dei capitali illecitamente portati nei paradisi fiscali.

    Una manovra di bilancio in continuità con il governo Draghi e con i dettami della UE per ridurre i consumi popolari e così “combattere l’inflazione”. Poco importa se a farne le spese saranno i più poveri, il Sud, i lavoratori a reddito fisso. “Fine della pacchia” per loro, fine di una pacchia che non è mai iniziata.

    La “pacchia” e l’opposizione

    Mentre la “pacchia” continua e si accresce per quei ceti sociali che hanno votato per Fratelli d’Italia e per gli altri partiti della destra e che vengono per questo premiati: grandi imprese, bottegai, lavoratori “autonomi”, albergatori e ristoratori…: insomma quella che in un altro articolo abbiamo definito “lumpenborghesia dell’evasione fiscale”.

    Profittando dell’estrema debolezza (al limite dell’inesistenza) dell’opposizione politica e dell’atteggiamento di complicità (CISL) e di imbarazzata attesa (CGIL e UIL) dei sindacati confederali, il risultato della manovra governativa sarà l’incremento della sofferenza sociale del paese. Allo stato attuale l’unica risposta in campo resta quella dello sciopero generale del 2 dicembre e della manifestazione nazionale a Roma di sabato 3, che così sono diventati appuntamenti ancora più importanti.

  • USA, il sindacato delle infermiere condanna la violenza trans e LGBTQ+

    USA, il sindacato delle infermiere condanna la violenza trans e LGBTQ+

    dal sito nationalnursesunited.org, 21 novembre 2022

    In qualità di sostenitori dei pazienti e di una società giusta e sana, le infermiere iscritte al National Nurses United sono solidali con i nostri fratelli LGBTQ+ presi di mira nella sparatoria mortale di sabato a Colorado Springs (5 morti e 25 feriti sotto i colpi di un killer omofobo, ndt) e condannano i gruppi di destra, i funzionari, gli account dei social media e i media che incitano deliberatamente all’odio e alla violenza contro la comunità LGBTQ+, in particolare le persone e i giovani transgender.

    L’attacco al Club Q è avvenuto mentre i gruppi anti-trans stanno prendendo di mira anche le strutture sanitarie per bambini e gli operatori che forniscono assistenza di genere con minacce di bombe, recentemente a Boston e a Filadelfia. Le infermiere dell’NNU stanno lanciando l’allarme contro la retorica anti-trans e la disinformazione diffusa da politici di destra, media e organizzazioni politiche, che hanno portato a un aumento vertiginoso delle intimidazioni, delle minacce e delle violenze pubbliche contro le persone trans e contro gli operatori sanitari che, come noi, forniscono cure che confermano il genere.

    Le infermiere hanno già monitorato questa odiosa ondata di attacchi contro i nostri pazienti trans e LGBTQ+ e sono seriamente preoccupati per i danni sociali e sanitari immediati e a lungo termine che stanno subendo. Il procuratore generale del Texas ha dichiarato che indagherà e perseguirà le famiglie dei bambini trans che ricevono cure per l’affermazione del loro genere con l’accusa di abuso di minore, e in quello stato sono pendenti più di una dozzina di proposte di legge che criminalizzerebbero l’assistenza sanitaria trans e la vita LGBTQ+. Il Texas è solo uno dei tanti esempi che dimostrano le politiche anti-trans e anti-LGBTQ+ che si stanno diffondendo nel paese.

    Le infermiere dell’NNU mantengono il loro incrollabile sostegno ai giovani transgender, alle loro famiglie e alla più ampia comunità LGBTQ+. Così come ci pronunciamo contro gli sforzi legislativi volti a criminalizzare l’assistenza ai giovani trans, dobbiamo anche pronunciarci contro la violenza anti-LGBTQ+ fomentata dagli stessi leader eletti e dal più ampio movimento di estrema destra.

    “Questa è violenza politica e una chiara espressione dell’agenda anti-trans e anti-LGBTQ+ dell’estrema destra in questo Paese”, ha dichiarato Deborah Burger, presidente del National Nurses United. “Le infermiere dicono: ‘Non se ne parla. Non sotto i nostri occhi’. Tutte le persone meritano di sentirsi al sicuro, sia sul posto di lavoro che nelle strutture sanitarie o negli spazi culturali. La sicurezza è parte integrante della salute e della sanità pubblica. Il nostro sindacato farà tutto ciò che è in nostro potere per resistere a questa violenza inaccettabile e sconfiggere l’odiosa agenda politica che la alimenta”.

    Il National Nurses United è il sindacato e l’associazione professionale di infermiere/i più grande e in più rapida crescita degli Stati Uniti, con quasi 225.000 iscritte/i a livello nazionale.

  • Zinov’ev, Grigorij Evseevič

    Zinov’ev, Grigorij Evseevič

    Grigorij Evseevič Zinov’ev è nato in Ucraina, nel 1883, figlio di braccianti ebrei. Rientrato dall’esilio nello stesso treno di Lenin, non ne condivide però la linea nella preparazione dell’insurrezione, esprimendo pubblicamente il suo dissenso. Fu uno dei bolscevichi più vicini a Lenin e più stimato da lui, nonostante i frequenti e importanti dissensi, tanto che quest’ultimo pensò perfino di adottarne un figlio, visto che non ne aveva avuti con Nadejda Krupskaya. E’ stato, comunque, una delle figure centrali del partito bolscevico, membro del Politburo e presidente del soviet di Pietrogrado (poi Leningrado), con un ruolo centrale nella difesa della città dalle truppe controrivoluzionarie durante la guerra civile.

    Fu il massimo dirigente del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, con un ruolo importantissimo nella fondazione di vari partiti comunisti (tra i quali quello francese). Dopo la morte di Lenin, costituì, assieme a Lev Kamenev e a Giuseppe Stalin, durante il 12° congresso del PC dell’URSS (1925), la troika che ha diretto il partito e lo stato emarginando Trotsky (nella foto da sinistra: Stalin, Rikov, Kamenev e Zinov’ev).

    Grazie al suo prestigio, alle sue molteplici cariche, ai suoi legami con numerosi dirigenti comunisti sovietici e internazionali, alle sue capacità intellettuali, organizzative e oratorie, ma anche al suo autoritarismo alla sua freddezza un po’ cinica, alla sua capacità manovriera, comincia ad apparire l’unico possibile antagonista di Stalin nella guida del partito. Costruisce l’Opposizione di Leningrado e, rendendosi conto che le analisi e le previsioni pessimistiche di Trotsky sulla burocratizzazione erano più che fondate, si riavvicina a quest’ultimo, costituendo con lui e con Kamenev la “troika dei puri”, e poi l’Opposizione unificata, contraria alla NEP e alla linea del socialismo in un solo paese, ma troppo tardi per impedire che Stalin acquisisca il potere assoluto nel partito e nello stato sovietico.

    Questa opposizione però resta circoscritta a Leningrado e viene colpita dall’epurazione staliniana. Così Zinov’ev viene privato di tutte le sue cariche (nella direzione dell’Internazionale verrà sostituito da Nikolai Bukarin) e espulso dal partito nel 1927.

    Riammesso nel partito due anni più tardi, quando Stalin sperimenterà la fine forzosa della NEP e la collettivizzazione forzata, poi di nuovo espulso e di nuovo riammesso a prezzo di una umiliante autocritica di fronte al 17° congresso nel 1934.

    Pochi mesi dopo viene accusato con Kamenev ed altri dell’assassinio di Serguei Kirov, che lo aveva sostituito nella guida del partito a Leningrado. Viene costretto ad ammetere la sua complicità morale nell’assassinio e viene condannato a 10 anni di prigione. Nell’agosto del 1936, viene accusato di far parte di un’organizzazione terroristica responsabile non solo dell’uccisione di Kirov ma anche di preparare un attentato contro Stalin, condannato a morte e immediatamente fucilato.

    Si tratta del primo processo di Mosca, quello contro il “gruppo terrorista trotsko-zinovievista”, nel quale numerosi “vecchi bolscevichi” si accusano vicendevolmente o si autoaccusano dei peggiori crimini, terminando le proprie feroci autocritiche con tragiche e grottesche apologie in gloria a Stalin.

  • Nicaragua, appello

    Nicaragua, appello

    Il professor Oscar-René Vargas deve essere rilasciato, la sua integrità fisica sia assicurata, insieme a tutti i suoi diritti

    Ultim’ora

    Oscar-René Vargas sarà processato il 9 dicembre con accuse molto gravi (“conspiración para cometer menoscabo a la integridad nacional, provocación para cometer rebelión y propagación de noticias falsas”, cospirazione finalizzata a minare l’integrità nazionale, provocazione alla ribellione e propagazione di false informazioni). Tutto ciò può comportare fino a 12 anni di carcere, secondo i precedenti.

    L’appello

    Oscar-René Vargas, 77 anni, cittadino del Nicaragua, è un economista, storico e analista dell’attualità centroamericana le cui qualità sono riconosciute negli ambienti accademici, soprattutto da coloro che hanno costantemente difeso i diritti sociali e democratici del popolo nicaraguense di fronte a diversi regimi autoritari.

    Tuttavia, martedì 22 novembre 2022 abbiamo appreso del suo “sequestro” – di fatto il suo arresto e la sua detenzione – da parte della polizia del regime del presidente Daniel Ortega. Questo atto arbitrario ci offende profondamente, soprattutto perché continua una serie di arresti di persone che criticano, da vari punti di vista, l’attuale regime nicaraguense.

    Oscar-René Vargas è noto per le sue numerose opere storiche – più di 35 libri – sul Nicaragua, nonché per il suo impegno, fin dalla metà degli anni Sessanta, contro la dittatura di Somoza, per il suo appoggio al governo iniziale del FSLN e per il suo sostegno al movimento popolare di rivendicazione che si è manifestato nel 2018. Gli impegni qui citati riflettono la rettitudine etica e politica di Oscar-René Vargas, il suo impegno per i diritti democratici e quindi per la libertà di espressione e di organizzazione.

    Chiediamo che le autorità nicaraguensi rispettino pienamente l’integrità fisica di Oscar-René Vargas, tutti i suoi diritti di difesa e la sua immediata liberazione. Ogni possibile procedura futura deve assolutamente rispettare i diritti umani e gli standard legali internazionali.

    Questa richiesta è in linea con l’Estatuto sobre derechos y garantias de los Nicaraguenses, adottato dalla Junta de Gobierno de Reconstrucción Nacional de la República de Nicaragua il 21 agosto 1979, e con la sentenza della Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ, Ginevra) del 1980, che ha accolto “le preoccupazioni umanitarie del [nuovo] governo” (p. 6).

    Il nostro sostegno a questo appello alle attuali autorità nicaraguensi riecheggia quei principi e valori che Oscar-René Vargas difendeva allora e difende tuttora”. (23 novembre)

    Qui l’articolo Nicaragua, la dittatura accusa Oscar René Vargas, senza specificare quale sia il “crimine”

    Le firme raccolte al 7 dicembre alle 18.00

    America centrale e meridionale

    Messico

    • Dra. Elena Lazos Chavero, Profesora-Investigadora Titular C, SNI III, Instituto de Investigaciones Sociales, Cd. Universitaria, Coyoacán, Ciudad de México
    • Manuel Aguilar Mora, scrittore e professore, Universidad Autónoma de la Ciudad de México (UACM)
    • Rodrigo Díaz Cruz, professore investigatore Dipartimento di Antropologia, UAM-I, Messico
    • Carmen de la Peza, profesora-investigatrice Universidad Autónoma Metropolitana, Departamento de Comunicación y Educación, UAM-X, México
    • Ana Lau Jaiven, professoressa investigatrice Universidad Autónoma Metropolitana, Departamento de Política y Cultura UAM-X, México
    • Ma. Eugenia Ruiz Velasco, profesora-investigadora Universidad Autónoma Metropolitana, UAM, México
    • Gisela Espinosa Damián, profesora-investigatrice Universidad Autónoma Metropolitana, Departamento de Relaciones Sociales UAM. Direttore della rivista Veredas, Messico
    • Ángeles Eraña, professoressa investigatrice dell’Instituto de Investigaciones Filosóficas (IIF), Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), México.
    • Luis Bueno Rodríguez, professore investigatore Universidad Autónoma Metropolitana, UAM, CILAS, Messico
    • Gilberto López y Rivas, Profesor-investigador Instituto Nacional de Antropología e Historia, INAH, Morelos, México
    • Alicia Castellanos Guerrero, profesora-investigadora jubilada UAM-I, México
    • Arturo Anguiano, professore investigatore Universidad Autónoma Metropolitana, UAM, Messico
    • Sonia Comboni Salinas, profesora-investigatrice Universidad Autónoma Metropolitana, UAM, México
    • Noemí Luján Ponce, profesora-investigatrice UAM, Messico
    • Fernando Matamoros, professore della Benemérita Universidad Autónoma de Puebla, BUAP, México
    • Araceli Mondragón, profesora-investigadora Universidad Autónoma Metropolitana, UAM, México
    • Marcos Tonatiuh Águila Medina, professore-investigatore Departamento de producción Económica, UAM-X, México
    • Mary Rosaria Goldsmith Connelly, profesora-investigatrice UAM-X, Messico
    • Germán A. De la Reza, Professore investigatore, UAM-X, Messico
    • Telésforo Nava Vázquez, professore investigatore, UAM-I, Messico
    • Adolfo Gilly, professore emerito della Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’UNAM, Messico.
    • Gerardo Ávalos Tenorio, professore-investigatore dell’UAM, Messico
    • Margarita Zires, professore-ricercatore, UAM, Messico
    • Luis Hernández Navarro, Coordinatore editoriale, La Jornada, Messico
    • Mary Rosaria Goldsmith Connelly, Professore di ricerca, UAM-X, Messico
    • Germán A. De la Reza, Profesor-investigador UAM-X, Messico
    • Telésforo Nava Vázquez, Profesor-investigador UAM-I, México
    • Julio Muñoz Rubio, Professore Biologo, Facoltà di Scienze, UNAM, Messico
    • Massimo Modonesi, Professore di Scienze Politiche e Sociali, UNAM, Messico
    • Dr. Gilberto Lopez y Rivas, professore investigatore dell’INAH Morelos, Messico
    • Carmen Aliaga, UAM Xochimilco, Messico
    • Enrique Dussel Peters, professore ordinario, Facoltà di Economia, Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), Messico
    • Alberto Arroyo Picard, Profesor Jubilado, Universidad Autónoma Metropolitana (UAM), México
    • Felipe Echenique March, Ricercatore, Instituto Nacional de Antropología e Historia (Istituto Nazionale di Antropologia e Storia), Messico
    • José Manuel Juárez, professore-ricercatore, Università Autonoma Metropolitana (UAM), Messico
    • Carlos Alberto Ríos. Historiador. Universidad Autónoma Metropolitana, Azcapotzalco. Messico
    • Jérôme Baschet, storico, Universidad Autonoma de Chiapas, México

    Argentina

    • Maristella Svampa, ricercatrice presso il CONICET, Argentina
    • Horacio Tarcus, Direttore del Centro de Documentación e Investigación de la Cultura de Izquierda (CeDinci), Argentina
    • Rubén Lo Vuolo, economista del CIEEP, Argentina
    • Valeria Manzano, Universidad Nacional de San Martín, Argentina
    • Pablo Pozzi, Professore consulente, Università di Buenos Aires, Argentina
    • Pablo Bertinat, professore, Universidad Tecnológica Nacional, Argentina
    • Mario Pecheny, Direttore dell’Area Scienze Sociali e Umanistiche, Consiglio Nazionale per la Ricerca Scientifica e Tecnica (CONICET), Argentina
    • Julián Rebón, professore, Università di Buenos Aires, Argentina
    • Roberto Gargarella, Professore Università di Buenos Aires, Conicet, Argentina
    • Dra Ana Teresa Martinez, Instituto de Estudios para el Desarrollo Social (INDES), Universidad Nacional de Santiago del Estero/Consejo de Investigaciones Científicas y Tecnológicas (UNSE-CONICET), Argentina
    • Gabriel Puricelli, professore, Facoltà di Scienze Sociali, Università di Buenos Aires, Argentina
    • Eduardo Lucita, Economistas de Izquierda (EDI), Argentina
    • Rolando Astarita, economista, Universidad Nacional de Quilmes e Universidad de Buenos Aires, Argentina

    Brasile

    • Valério Arcary, professore titolare presso l’Instituto Federal de Educação, Ciência e Tecnologia di São Paulo, Brasile.
    • Forrest Hylton, professore visitatore di storia, Universidade Federal da Bahia, Brasile
    • Ricardo Antunes, professore titolare, Universidade Estadual de Campinas (UNICAMP), Brasile
    • Breno Bringel, professore all’Università statale di Rio de Janeiro, Brasile
    • José Mauricio Domínguez, professore, Università statale di Rio de Janeiro, Brasile
    • Pablo-Henrique Martins, Università Federale di Pernambuco, Brasile
    • Paulo Nakatani, professore titolare dell’Università Federale di Espírito Santo, Brasile
    • Rosa Maria Marques, Professore, Pontifícia Universidade Católica de São Paulo, Brasile
    • Carlos Zacarias, professore, storico dell’Università Federale di Bahia, Brasile
    • Antonio Antunes da Cunha Neto, insegnante di geografia, Scuola tecnica statale, Rio Grande do Sul, Brasile
    • Maria Mercedes Salgado, dottoranda, Università di San Paolo, Brasile
    • Ana Mercedes Sarria Icaza, dottore in Scienze Sociali, professore presso la Scuola di Amministrazione dell’Università Federale di Rio Grande do Sul, Brasile.
    • Paulo Peixoto de Albuquerque, dottore in Sociologia, professore, Facoltà di Educazione, Università Federale di Rio Grande do Sul, Brasile
    • Manuel Salvador Oviedo, PhD, Università Federale Tecnologica di Paraná, Brasile
    • William Héctor Gómez Soto, PhD, Sociologia, Università Federale di Pelotas, Brasile
    • Maria Tereza Zatti, docente e funzionario pubblico in pensione, Porto Alegre/RS, Brasile
    • José Francisco Danilo de Guadalupe Correa Fletes, Professore presso l’Università Federale di Santa Catarina – Brasile
    • Rosangela Marione Schulz, Dottorato in Scienze Politiche – Profa. Universidade Federal de Pelotas – Brasile
    • Giuseppe Cocco, professore ordinario – Università Federale di Rio de Janeiro – Brasile
    • Rosa Maria Marques, professoressa ordinaria del Dipartimento di Economia e del Programma di studi post-laurea in Economia politica della PUCSP (Pontificia Università Cattolica di São Paulo), Brésil
    • Carlos Zacarias de Sena Júnior, Università Federale di Bahia (UFBA), Brésil
    • Sâmia Bonfim, Deputato federale – Psol/Brasile
    • Fernanda Melchionna, deputata federale – Psol/Brasile
    • Vivi Reis, deputata federale – Psol/Brasile
    • Israel Dutra, Segretario delle Relazioni internazionali – Psol/Brasile
    • Luciana Genro, Deputata dello Stato di Rio Grande do Sul – Psol/Brasile
    • Roberto Robaina, Assessore, Porto Alegre, Rio Grande do Sul – Psol/Brasile
    • Luana Alves, consigliera del comune di San Paolo, San Paolo – Psol/Brasile
    • Professor Josemar, consigliere del comune di São Gonçalo (Rio de Janeiro) – Psol/Brasile
    • Juliana Carvalho Miranda Teixeira, docente presso l’Università Federale del Maranhão, Brasile
    • Robert Leher, ex Rettore dell’Università Federale di Rio Janeiro e Presidente dell’ANDES – Associazione Nazionale dei Professori dell’Istruzione Superiore, Brasile
    • José Carlos Barreto de Santana, ex Rettore dell’Università statale di Bahia, Brasile
    • Humberto Meza, scienziato político, ricercatore dell’Università federale di Rio de Janeiro, UFRJ, Brasile

    Bolivia

    • Mario Rodríguez, Fondazione Wayna Tambo, Bolivia
    • Elizabeth Peredo Beltran, Psicologa e Ricercatrice, Observatorio de Cambio Climático y Desarrollo – OBCCD, Bolivia

    Colombia

    • Muricio Archila, professore, Università Nazionale della Colombia, Colombia
    • Daniel Libreros Caicedo, economista, Università Nazionale della Colombia
    • Alejandro Mantilla, professore dell’Università Nazionale della Colombia
    • Darío González Posso, ingegnere agrario. Del coordinamento e co-fondatore dell’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace (INDEPAZ). Bogotà, Colombia
    • Sonia Castañeda Roncancio, epidemiologa medica. Collaborazione dell’Instituto de Estudios para el Desarrollo y la Paz -INDEPAZ. Bogotà, Colombia

    Costa Rica

    • María Esther Montanaro Mena, cédula 1-0922-0124, Università della Costa Rica
    • Hans Nusselder, consulente-ricercatore in sviluppo rurale, San José, Costa Rica
    • Giovanni Beluche, Università del Costa Rica (UCR), San José, Costa Rica
    • Roberto Ayala, Professore, Università del Costa Rica (UCR), Costa Rica

    Panamá

    • Enoch Adames, professore, Università di Panamá, Panamá
    • Olmedo Beluche, sociologo, professore, Università Interamericana di Panamá, Panamá
    • Rebeca Yanis Orobio, docente presso l’Università di Panama, Istituto di Criminologia, Panamá
    • Dra. Nicolasa Terreros Barrio, Docente regolare titolare, Università Specialistica deleìle Americhe (UDELAS), Panamá

    Ecuador

    • Miriam Lang, Docente, Universidad Andina Simón Bolívar, Ecuador
    • Alberto Acosta, economista, ex presidente dell’Assemblea Costituente, Ecuador
    • Napoleón Saltos Galarza, Professore, Universidad Tecnológica Indoamérica, Ecuador

    Cile

    • Haroldo Dilla Alfonso, professore, direttore dell’Istituto di Studi Internazionali (INTE), Università Arturo Prat, Cile.

    Guatemala

    • Ana Silvia Monzón, FLACSO, Guatemala

    Repubblica Dominicana

    • Virtudes de la Rosa, Professore, Università Autonoma di Santo Domingo, Repubblica Dominicana

    Uruguay

    • Ramiro Chimuris, economista e avvocato, Università della Repubblica, Uruguay
    • Isabel Koifmann, sindacalista, Cooperativa Magisterial, Uruguay
    • Daniel Ceriotti, nutrizionista, Universidad de la República, Uruguay
    • Ernesto Herrera, giornalista, Uruguay
    • Maria Pollak, Attrice, ricercatrice di teatro, Montevideo-Uruguay

    Venezuela

    • Edgardo Lander, Università Centrale del Venezuela
    • Luis Bonilla-Molina, Centro Internacional de Investigación Otras Voces en Educación de Venezuela e membro del Comitato Direttivo della CLACSO, Venezuela

    America del Nord e Australia

    Stati Uniti

    • Jeffrey L. Gould, Distinguished Visiting Professor of Modern History, School of Historical Studies, Institute for Advanced Study, Indiana University, Indiana, Stati Uniti.
    • Barbara Weinstein, Professore d’argento di Storia dell’America Latina, Università di New York, Stati Uniti
    • Justin Wolfe, Professore associato di storia, Università di Tulane, Stati Uniti
    • Jocelyn Olcott, professore di storia, Duke University, Stati Uniti d’America
    • Michel Gobat, professore di storia, Università di Pittsburgh, Stati Uniti d’America
    • William I. Robinson Distinguished Professor di Sociologia e Studi Globali e Internazionali, Studi Latinoamericani e Iberici, Università della California-Santa Barbara, Stati Uniti.
      Dan La Botz, membro del comitato di redazione di New Politics, New York, Stati Uniti d’America
    • Steven Volk, Professore emerito di Storia, Oberlin College, Ohio, Stati Uniti
    • Dr. Julie A. Charlip, Professore emerito di Storia dell’America Latina, Whitman College, Stati Uniti d’America
    • Clara E Irazábal Zurita, Funzionario JEDI, Professore ADVANCE, Scuola di Architettura, Pianificazione e Conservazione, Università del Maryland, Stati Uniti.
    • John L. Hammond, professore di sociologia alla City University di New York, ex collaboratore della Casa del Gobierno, Estelí, 1985-86, Stati Uniti.
    • Rosalind Bresnahan, California State University San Bernardino (in pensione), Stati Uniti
    • William Bollinger, Studi latino-americani, Università statale della California, Los Angeles, Stati Uniti
    • Carlos Forment, professore, New School of Social Research, New York, Etats-Unis
    • Greg Grandin, presidente Vann Woodward, professore di storia, Università di Yale, USA
    • Arturo Escobar, Prof. Emerito di Antropologia, U. de Carolina del Norte, Chapel Hill, Stati Uniti.
    • Amy C. Offner, professore associato di storia, Università della Pennsylvania, USA
    • William Aviles, professore di Scienze politiche, Università del Nebraska a Kearney, USA
    • Stephen R. Shalom, Emerito, Università William Paterson, Stati Uniti
    • Paulo Abrão, Visiting Professor, Brown University, Stati Uniti d’America (ex Segretario esecutivo della Commissione interamericana per i diritti umani)
    • Enzo Traverso, Susan and Barton Winokur, Professor in Humanities, Cornell University, Stati Uniti d’America
    • Noam Chomsky, professore emerito del MIT, professore laureato dell’Università dell’Arizona.
    • Bill Fletcher, ex presidente del Forum TransAfrica, Stati Uniti
    • E. Ahmet Tonak, professore di economia, Hampshire College, Stati Uniti
    • Charles Post, professore, City University di New York, USA
    • David McNally, Professore emerito, Università di Houston, Stati Uniti d’America

    Canada

    • Jeffery R. Webber, Professore associato, Dipartimento di Politica, York University, Toronto, Canada

    Australia

    • Viviana Canibilo Ramírez, BA (Hons), Dip. Ed, Investigadora Independiente, insegnante senior di spagnolo ed economia domestica (in pensione), dipartimenti dell’istruzione del NSW e del Queensland (1980-2016), Australia
    • Robert Austin Henry, Associato onorario, Scuola di Scienze Umanistiche, Università di Sydney, Australia
    • Federico Fuentes, direttore di LINKS, rivista internazionale del rinnovamento socialista, Australia

    Europa

    Francia

    • Michael Löwy, direttore di ricerca emerito del CNRS, Francia
    • Eleni Varikas, professore emerito all’Università di Parigi 8, Francia
    • Catherine Samary, economista, Università di Parigi Dauphine
    • Gustave Massiah, ex insegnante della Scuola di Architettura di Parigi La Villette, Francia
    • Claude Serfati, economista, IRES, Parigi
    • Franck Gaudichaud, professore universitario di storia dell’America Latina all’Università di Tolosa Jean Jaurès, Francia
    • Christian Tutin, professore emerito di università, Paris-Est, Francia
    • Pierre Salama, professore emerito di università, economista, Université Paris-Nord, Francia
    • Jean Malifaud, docente, Università di Parigi Didedot, matematico, Francia
    • Alain Bihr, Professore onorario di Sociologia, Università di Bourgogne-Franche-Comté (Besançon), Francia
    • Roland Pfefferkorn, Professore emerito di Sociologia, Università di Strasburgo, Francia
    • Bernard DREANO, economista, presidente del CEDETIM (Centre d’études et d’initiatives de solidarité internationale), Francia
    • Natacha Lillo, docente senior, Université Paris Cité, Francia
    • Thomas Posado, dottore in scienze politiche presso l’Università di Parigi-8, Francia
    • Olivier Compagnon, storico, Università della Sorbonne Nouvelle (Istituto di Studi Avanzati sull’America Latina), Francia
    • Leila Chaibi, europarlamentare (Francia)
    • Hadrien Clouet, sociologo, membro del Parlamento della Haute-Garonne
    • Hubert Krivine, Professore emerito di Fisica, Università Pierre e Marie Curie, Francia
    • Luc Quintin, MD, PhD, anestesista (in pensione), ricercatore senior (in pensione), Francia
    • Claude Calame, Direttore degli Studi, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Francia
    • Evelyne Perrin, sociologa, Stop Précarité e LDH 94 – Ligue française de défense des droits de l’Homme, Francia
    • Pierre Cours-Salies, professore emerito Parigi-8, Francia
    • John Barzman, professore emerito di Storia contemporanea, Università di Le Havre Normandia, Francia
    • Isabelle Garo, filosofa, Francia
    • Christian Mahieux, Union syndicale Solidaires, Rete internazionale di solidarietà sindacale, Francia
    • Carlos Agudelo, Sociologo, ricercatore associato URMIS, IRD – CNRS – Università di Parigi – Università della Costa Azzurra, Francia
    • Bruno Percevois, pediatra in pensione, Francia
    • Laurent Faret, professore di Geografia, Università di Parigi-Diderot, Francia
    • Janette Habel, docente all’Università di Marne-la-Vallée e all’IHEAL, Francia
    • Ludivine Bantigny, storica, classi preparatorie alle Ecoles, Paris, Francia
    • Pierre Khalfa, Economista, Fondazione Copernico, Francia
    • Nicole Abravanel, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Francia
    • Christiane Vollaire, filosofa, ricercatrice associata presso il CNAM, Parigi, Francia
    • Esther Jeffers, Professore di economia, Università di Picardie Jules Verne, Francia
    • Gilles Bataillon, Sociologo, Ecole des hautes études en sciences sociales, Parigi, Francia
    • Pierre ROLLE, sociologo, Università di Parigi-Nanterre, Francia
    • Christian Laval, Professore emerito di Sociologia, Università di Parigi-Nanterre, Parigi, Francia
    • Marc Perelman, professore emerito di Università, Università di Parigi Nanterre, Francia
    • Michel Cahen, direttore di ricerca emerito del CNRS presso Sciences Po Bordeaux, Francia
    • Josette Trat, sociologa, ex insegnante-ricercatrice all’Università di Parigi 8, Francia
    • Robert March, docente senior, Facoltà di Architettura, Parigi, Francia
    • Jacques Généreux, professore associato a Sciences Po. Parigi, Francia
    • Charlotte Guénard, Economista, Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne-IEDES, Parigi, Francia
    • Pierre Rousset, militante della solidarietà internazionale, Francia
    • Henri Saint-Jean, Dottorando presso il Laboratorio CliPSY dell’Università di Angers, Francia
    • Delphine Lacombe, sociologa, incaricata di ricerca CNRS – associata all’Università di Parigi Cité URMIS CEMCA USR 3337, Francia
    • Denis Paillard, Direttore di ricerca scientifica del CNRS, Parigi, Francia
    • Emilie Karami, Centre de recherche sur les arts et le langage (EHESS-Paris), Francia
    • Houshang Sepehr, attivista di Solidarietà socialista con i lavoratori in Iran (SSTI), Francia

    Belgio

    • Bernard Duterme, Direttore CETRI – Centro tricontinentale, Belgio
    • Mateo Alaluf, professore onorario Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Andrea Rea, professore presso l’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Pierre Marage, professore emerito della Libera Università di Bruxelles, Belgio
    • Anne Morelli, Professore emerito dell’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Marcelle Stroobants, Professore emerito dell’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Jean Vogel, docente, Université Libre de Bruxelles, Belgio
    • Éric Toussaint, dottore in scienze politiche presso le università di Parigi 8 e Liegi, Belgio.
    • Hugues Le Paige, giornalista e regista, Belgio
    • Isabelle Stengers, professore emerito Université Libre de Bruxelles, Belgio
    • Francine Bolle, docente presso l’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Esteban Martinez, professore Université Libre de Bruxelles, Belgio
    • Fréderic Louault, Professore Université Libre de Bruxelles, Belgio
    • Margaux De Barros, ricercatrice presso l’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Laurent Vogel, ricercatore associato presso l’Istituto sindacale europeo, Belgio
    • Christine Pagnoulle, professore onorario presso l’Università di Liegi, Belgio
    • Sylvie Carbonnelle, docente assistente presso l’Istituto di Sociologia dell’Università Libera di Bruxelles, Belgio.
    • Jean Vandewattyne, professore, Università di Mons, Belgio
    • Douglas Sepulchre, assistente presso la Libera Università di Bruxelles, Belgio
    • Riccardo Petrella, Professore emerito, Università Cattolica di Lovanio (B), Economista politico, Belgio
    • Perrine Humblet, professore emerito dell’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Corinne Gobin, Professore emerito dell’Università Libera di Bruxelles, Belgio
    • Michel Caraël, professore emerito dell’Université Libre de Bruxelles, Belgio
    • Willy Estersohn, giornalista, Belgio
    • Jean Puissant, professore emerito Université Libre de Bruxelles, Belgio
    • Ralph Coeckelberghs, ex segretario generale di Solidarité Socialiste-NGO attiva in Nicaragua, Belgio
    • Eric Corijn, professore di Studi Urbani, Vrije Universiteit Brussel (VUB), Belgio
    • Pierre Galand, professore emerito di Università, ULB, Belgio
    • Tatiana Roa, professoressa del Centro di ricerca e documentazione latinoamericana Cedla, Università di Amsterdam, Paesi Bassi
    • Alexis Deswaef, avvocato presso il foro di Bruxelles e vicepresidente della Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH), Belgio
    • Patricia Willson, Faculté de philosophie et lettres, Université de Liège, Belgio
    • Sixtine Van Outryve, dottore in diritto, Università Cattolica di Lovanio, Belgio
    • Maria Cecilia Trionfetti, ricercatrice, Facoltà di filosofia e scienze sociali, Università libera di Bruxelles, Belgio
    • Henri B. Eisendrath, professore emerito della Vrije Universiteit Brussel, Belgio

    Gran Bretagna

    • Alex Callinicos, professore emerito di Studi europei, King’s College di Londra
    • Gilbert Achcar, professore, SOAS, Università di Londra
    • Alfredo Saad Filho, Professore, King’s College di Londra
    • Elisa Van Waeyenberge, Professore, SOAS, Università di Londra
    • Chris Wickham, Professore emerito di Storia medievale Chichele, Università di Oxford, Gran Bretagna
    • Ken Loach, regista cinematografico e televisivo, Gran Bretagna
    • Mike Gonzalez, professore emerito, Università di Glasgow, Regno Unito

    Spagna

    • Jaime Pastor, professore di Scienze Politiche presso l’Università Nazionale di Educazione a Distanza (UNED), Madrid, Spagna.
    • Marcos Roitman, professore di Sociologia presso l’Università Complutense di Madrid, Spagna
    • Luisa Martín Rojo, cattedra di linguistica dell’Università Autonoma di Madrid, Spagna.
    • María Trinidad Bretones, docente di Sociologia all’Università di Barcellona, Spagna.
    • Antonio García-Santesmases, cattedratico di Filosofia Politica dell’Università Nazionale di Educazione a Distanza, Spagna.
    • Roberto Montoya, scrittore e periodista, Spagna
    • Carlos Prieto Rodriguez, Professore emerito dell’Università Complutense di Madrid, Spagna
    • Ángeles Ramírez, professoressa titolare di Antropologia sociale presso la Universidad Autónoma de Madrid, Spagna
    • Fernando Álvarez-Uría, cattedratico di Sociologia dell’Università Complutense di Madrid (UCM), Spagna
    • Julia Varela, Catedrática de Sociología de la Universidad Complutense de Madrid (UCM), Spagna
    • Álvaro Pazos Garciandia, professore di antropologia sociale presso l’Universidad Autónoma Madrid (UCM), Spagna
    • Carlos Giménez Romero, Docente di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Juan Carlos Gimeno Martín, professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Marta Cabezas Fernandez, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Virtudes Téllez Delgado, Segretario accademico, Universidad Autónoma, Madrid, Spagna
    • Alba Valenciano i Mañé, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Alessandro Forina, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Fructuoso de Castro, professore di antropologia sociale presso l’Universidad Autónoma di Madrid, Spagna.
    • Pilar Monreal Requena, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Alicia Campos Serrano, docente di antropologia sociale presso l’Universidad Autónoma di Madrid, Spagna.
    • Juan Ignacio Robles Picón, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Paloma Gómez Crespo, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Héctor Grad, professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Virginia Vaqueira, Professore di Antropologia sociale, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Carlos Taibo, professore di Scienze politiche, Universidad Autónoma Madrid, Spagna
    • Alberto Riesco, Professore Università Complutense di Madrid, Spagna
    • Julia Peregrin Caballero, Sociologa, Esperta in Cooperazione Internazionale, Madrid, Spagna
    • Carmen San José Pérez, medico, Stato spagnolo
    • Laura Carmargo, profesora de Lingüística de la Universitat de les Illes Balears (UIB)
    • María Gómez, profesora de Sociología de la Universitat de les Illes Balears (UIB)
    • Cipriana Martín Hernandez-Cano, funzionaria del ministero della Cultura spagnolo
    • Arturo Casielles Cuesta, Catedrático de Enseñanza Secundaria, in pensione, España
    • Koldo Unceta, Professore emerito dell’Università dei Paesi Baschi, Spagna
    • Alberto Martín Álvarez, Ricercatore di spicco, Dipartimento di Diritto Pubblico, Area Scienze Politiche e Pubblica Amministrazione, Universitat de Girona, Catalogne, Etat espagnol
    • Paloma Pierrard Arroyo, Jubilada, Profesora del Instituto El Lago, Madrid Spagna
    • Fernando Cerezal-Sierra, Prof. in pensione U. Alcalá, Spagna
    • Denise Cook Maude (ex coordinatrice di MESENI) Spagna
    • María Elena Ramírez Piqueras, Maestra, Madrid, Spagna
    • Laura Carmargo, professoressa di Linguistica dell’Università delle Illes Balears (UIB), Spagna
    • María Gómez, professoressa di Sociologia dell’Illes Balears (UIB), Spagna
    • Flor María Herrero Alarcón, Professoressa in pensione dell’Università di Cadice, Spagna
    • María Dolores Ferrero Blanco, Catedrática Honoraria de Historia Contemporànea. Università di Huelva, Spagna
    • Dott.ssa Ana Ruiz Fernández, medico di Nefrologia, Ospedale Virgen del Roció, Siviglia, Spagna.
    • Rosa Gómez Torralbo. Psicologa, amministratrice pubblica, Junta de Andalucía, Stato spagnolo
    • Ioanna Nicolaidou, professore di traduzione e interpretariato, Università di Malaga, Spagna

    Grecia

    • Katerina Sergidou, antropologa sociale, ricercatrice presso l’Università Panteion, Grecia
    • Dimitrios Barkas, Dott. in Psicologia sociale e politica, Università Panteion, Grecia
    • Maria Bolari, ex parlamentare, Grecia
    • Ioanna Gaitani, ex parlamentare, Grecia
    • Antonis Karavas, patologo del Centro sanitario comunitario di Ilioupoli, membro dell’Unione dei medici ospedalieri, Grecia.
    • Antonis Ntavanellos, giornalista, Confederazione dei giornalisti greci (POESY), Grecia

    Italia

    • Luigi Ferrajoli, professore emerito di “Filosofia del diritto” presso l’Università degli Studi Roma Tre, dottore honoris causa di numerose università: Buenos Aires (UBA), Universidad Nacional de La Plata, Universidad de la Repubblica del Uruguay, Academia Brasileira de Direito Constitucional (Curitiba, Brasile), ecc.
    • Pietro Basso, Professore associato di Sociologia – Università Ca’ Foscari / Venezia, Italia
    • Riccardo Bellofiore, economista, Italia
    • Michele Fatica, professore emerito di storia moderna e contemporanea presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, Italia
    • Franco Turigliatto, ex senatore
    • Fabrizio Burattini, sindacalista, USB
    • Paolo Barcella, Professore associato, Dipartimento di Lingue, Letterature e culture straniere, Università degli studi di Bergamo, Italia

    Portogallo

    • Alda Sousa, Università di Porto, Scienze Biomediche, Portogallo
    • Jorge Sequeiros, Università di Porto, Medicina, Portogallo
    • Ana Campos, Nuova Università di Lisbona, Medicina, Portogallo
    • Francisco Louçã, Università di Lisbona, Economia, Portogallo
    • Marianne Lacomblez, Professoressa emerita ordinaria, Centro di Psicologia, Università di Porto, Portogallo
    • Liliana Cunha, Professoressa Ausiliaria, Facoltà di Psicologia e di Scienze dell’educazione della Università di Porto, Portogallo

    Svizzera

    • Jean Ziegler, professore emerito di sociologia, Università di Ginevra, vicepresidente del Comitato consultivo del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Svizzera.
    • Sébastien Guex, Professore onorario Università di Losanna, Svizzera
    • Bernard Voutat, Professore ordinario, Università di Losanna, Svizzera
    • Sandra Bott, professore assistente, Facoltà di Lettere, Università di Losanna, Svizzera
    • Silvia Mancini, Professore onorario, Facoltà di Teologia e Scienze Religiose, Università di Losanna, Svizzera
    • Malik Mazbouri, Docente, Facoltà di Lettere, Università di Losanna, Svizzera
    • Jean Batou, Professore onorario, Facoltà di Scienze sociali e politiche, Università di Losanna, Svizzera
    • Joseph Daher, Visiting Professor, Facoltà di Scienze Sociali e Politiche, Università di Losanna, Svizzera
    • Stéfanie Prezioso, Professore associato, Facoltà di Scienze sociali e politiche, Università di Losanna, Svizzera, Membro del Parlamento Federale
    • Janick Marina Schaufelbuehl, Professore associato, Facoltà di Scienze sociali e politiche, Università di Losanna, Svizzera
    • Nils de Dardel, avvocato, ex membro del Parlamento federale, Ginevra, Svizzera
    • Romolo Molo, avvocato, Ginevra, Svizzera
    • Hans Leuenberger, delegato del CICR in pensione, Svizzera
    • Nelly Valsangiacomo, Professore, Facoltà di Lettere, Università di Losanna, Svizzera
    • Charles-André Udry, Economista, Edizioni Page 2, Svizzera
    • Nicolas Bancel, Professore ordinario, Facoltà di Scienze sociali e politiche, Università di Losanna, Svizzera
    • Pierre Eichenberger, docente senior presso la Facoltà di Scienze sociali e politiche dell’Università di Losanna, Svizzera.
    • Pierre Frey, professore onorario, Politecnico federale di Losanna, Svizzera.
    • Caroline RENOLD, Avvocato, Ginevra, Svizzera
    • Pierre STASTNY, avvocato, Ginevra, Svizzera
    • Maurizio LOCCIOLA, avvocato, Ginevra, Svizzera
    • Christian Dandrès, avvocato, membro del Parlamento federale, Ginevra, Svizzera
    • Emmanuel Amoos, deputato al Parlamento federale, Vallese, Svizzera
    • Laurence Fehlmann Rielle, Membro del Parlamento federale, Ginevra, Svizzera
    • Nicolas Walder, membro del Parlamento federale, Ginevra, Svizzera
    • Dott.ssa Martine Rais, medico, Svizzera
    • Cédric Wermuth, Membro del Parlamento federale, Argovia, Svizzera
    • Pierre-Yves Maillard, membro del Parlamento federale, Vaud, Svizzera
    • Sébastien Chauvin, Professore associato, Facoltà di Scienze sociali e politiche, Università di Losanna, Svizzera
    • Michel Ducraux, delegato del CICR in pensione, Svizzera
    • Cécile Péchu, Docente, Università di Losanna, Svizzera
    • Matthieu Leimgruber, Ausserordentlicher Professor Forschungsstelle für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Universität Zürich, Suisse
    • Mounia Bennani-Chraïbi, professoressa ordinaria, Facoltà di Scienze Sociali e Politiche, Università di Losanna, Svizzera.
    • Katharina Prelicz-Huber, membro del Parlamento federale, Zurigo, Suisse
    • Lisa Mazzone,, membro del Parlamento federale, Genève, Suisse
    • Brigitte Crottaz, membro del Parlamento federale, Vaud, Svizzera
    • Léonore Porchet, membro del Parlamento federale, Vaud, Suisse
    • Christophe Clivaz, membro del Parlamento federale, Vallese, Svizzera
    • Delphine Klopfenstein-Broggini, membro del Parlamento federale, Genève, Suisse
    • Natalie Imboden, Consigliera nazionale, BE
    • Hans-Peter Renk, bibliothécaire retraité, Le Locle, Suisse
    • Sergio Rossi, Professore ordinario, Facoltà di Scienze economiche e sociali e di Management, Università di Friburgo, Svizzera
    • Christian Marazzi, Professore, La Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, Lugano-Tessin, Svizzera
    • Spartaco Greppi, Professore, Dipartimento di economia aziendale, sanitaria e sociale, SUPSI, Lugano-Tessin, Svizzera
    • Balthasar Glättli, membro del Parlamento federale, Zurigo, Svizzera
    • Dott.ssa Julie de Dardel, geografa, Università di Ginevra, Suisse
    • Patrick Naef, PhD, ricercatore senior associato, Geografia e Ambiente, Università di Ginevra, Svizzera
    • Sébastien Farré, Maison de l’histoire, Università di Ginevra, Svizzera
    • Dolores Phillipps-Lopez, Docente, Facoltà di Lettere, Università di Ginevra, Svizzera
    • Aline Helg, Professore onorario, Dipartimento di Storia generale, Università di Ginevra, Svizzera
    • Valeria Wagner, Docente, Facoltà di Lettere, Università di Ginevra, Svizzera
    • Cornelia Hummel, Professore di Sociologia, Università di Ginevra, Svizzera
    • Prof.ssa Anne Lavanchy, Centro di Ricerca Sociale (CERES), Scuola di Lavoro Sociale di Ginevra, HES-SO Università di Scienze Applicate e Arti della Svizzera Occidentale

    Austria

    • Dr. Leo Gabriel, Periodista e Antropologo, Austria
    • Christian Zeller, professore di geografia economica presso l’Università di Salisburgo, Austria.

    Germania

    • Dr. Manfred Liebel, Prof. em. Technische Universität Berlin, Germania
    • Dr. Betina Kern, Ambasciatrice della Repubblica Federale di Germania dal 2008 al 2012 in Nicaragua, Allemagne
  • Trotsky (Lev Davidovič Bronštejn)

    Trotsky (Lev Davidovič Bronštejn)

    Lev Davidovič Bronštejn, detto Trotsky (altre traslitterazioni propongono Trotskij o Trockij), fu uno dei rivoluzionari comunisti più importanti del XX secolo, uno dei dirigenti di primo piano della rivoluzione russa e uno dei più brillanti intellettuali marxisti.

    Biografia

    Trotsky guerra civile poster

    Trotsky nacque nel 1879, nel villaggio ukraino di Yanovka, da una famiglia ebrea. A 18 anni aderì ad un gruppo rivoluzionario di orientamento populista, ma rapidamente condivise le tesi marxiste e socialiste. Venne arrestato e deportato in Siberia nel 1898 dove approfondì gli studi sul marxismo, sotto la guida della sua prima moglie, Aleksandra Sokolovskaja, già da tempo socialista.

    Riuscì ad evadere dall’esilio e dopo un lungo viaggio raggiunse Londra, dove conobbe Lenin che lo integrò nel comitato di redazione dell’Iskra, il giornale del Partito Operaio socialdemocratico russo (POSDR) e poi Parigi, dove conobbe Natal’ja Sedova, che divenne la sua nuova compagna. Nel partito, nel quale proprio in quell’epoca si delineava la frattura tra bolscevichi e menscevichi, si avvicina a questa seconda corrente, distaccandosene ben presto però, pur senza aderire all’altra frazione, quella di Lenin, del quale critica il “giacobinismo”.

    Nel 1905, durante la rivoluzione, rientra in Russia e diviene prima vicepresidente e poi presidente del soviet di San Pietroburgo. Alla sconfitta della rivoluzione viene di nuovo arrestato, condannato alla deportazione a vita. Ma riesce di nuovo ad evadere e a raggiungere ancora una volta l’Europa occidentale, dove si dedicherà alla elaborazione della sua teoria della “rivoluzione permanente” cercando, senza successo, di riunificare sulle sue posizioni le due frazioni principali del POSDR.

    Risolutamente contrario al nazional sciovinismo che sconvolge la socialdemocrazia internazionale, partecipò, come Lenin alle conferenze di Zimmerwald (di cui redige il progetto di risuluzione finale) e di Kienthal. Per questa azione internazionalista, viene espulso dalla Francia, perseguitato dagli inglesi e costretto all’esilio negli Stati uniti.

    Nel maggio 1917 riesce a rientrare nella Russia rivoluzionaria, dove si pronuncia immediatamente in accordo con le “Tesi di Aprile” di Lenin. Con il suo raggruppamento Mezhraionsty [“interdistrettuali”] nel luglio aderisce al partito bolscevico, essendo eletto, il mese dopo nel Comitato centrale.

    Assume la presidenza del soviet di Pietrogrado e del Comitato militare rivoluzionario, che dirige l’insurrezione del 26 ottobre (7 novembre).

    Viene nominato Commissario del popolo agli Affari esteri e, come tale, dirige la delegazione sovietica incaricata di negoziare la pace con la Germania e l’Austria-Ungheria a Brest-Litovsk. Nelle trattative, cerca di temporeggiare, sperando nello scoppio della rivoluzione in altri paesi europei stremati dalla guerra. Ma il 4 marzo 1918, la delegazione sovietica, sotto la decisa spinta di Lenin, si decide ad accettare le condizioni draconiane imposte dagli imperi centrali.

    Il partito è diviso. La sinistra del partito, in disaccordo con Lenin, propone di sviluppare una guerra rivoluzionaria contro la Germania, per “esportarvi” la rivoluzione. Trotsky indica una terza via: “né pace, né guerra”. Dopo aver firmato, non convinto, la pace, dà le dimissioni da ministro degli esteri, ma poco dopo assume l’incarico di Commissario del popolo alla Guerra, mantenendolo fino al 1925.

    La fine del conflitto mondiale non dà la pace alla Russia che viene travolta dalla guerra civile, condotta all’interno dalle armate bianche controrivoluzionarie e dall’esterno dagli eserciti di una ventina di paesi, tra i quali quello giapponese, francese, britannico, cecoslovacco. L’Armata rossa, organizzata e diretta dal Commissario Trotsky, dopo anni di sanguinose battaglie riesce a sconfiggere le armate controrivoluzionarie nel 1923.

    Bollettino Opposizione 1932
    Il Bollettino dell’Opposizione del Novembre 1932

    Nel contesto della NEP, della malattia e, poi, della morte di Lenin, Trotsky e la sua “Opposizione di sinistra” entrano in conflitto con la “troika” costituita da Zinoviev, Kamenev e Stalin, che aveva assunto il controllo del partito. La materia del contendere riguarda numerosissimi temi: la critica al regime autoritario nel partito e alle crescenti deformazioni burocratiche nell’apparato statale, la necessità di porre limiti alla nuova borghesia emergente dei Nepman, la richiesta di una forte industrializzazione del paese, una campagna di collettivizzazione volontaria nelle campagne e, soprattutto, il sostegno a nuove rivoluzioni per rompere l’isolamento che favoriva l’involuzione dell’URSS. In poche parole la “rivoluzione permanente” contro la concezione del “socialismo in un paese solo”.

    La troika esige ed ottiene, nel 1925, le dimissioni di Trotsky da Commissario del popolo alla guerra. Nel 1927, nonostante la rottura della troika e l’alleanza (tardiva) di Zinoviev e di Kamenev con Trotsky e la formazione dell’Opposizione unificata, Stalin prevale definitivamente, epellendo Trotsky dal partito. L’anno successivo sarà costretto all’esilio ad Alma-Ata, nel Kazakhstan. L’anno successivo sarà costretto a lasciare per sempre l’URSS e a rifugiarsi, fino al 1933 nell’isola di Prinkipo, in Turchia.

    Molti governi rifiutano a Trotsky l’asilo politico. Sarà in Francia fino al giugno 1935, poi in Norvegia fino al settembre 1936, e infine in Messico. Ma Trotsky, pur nelle difficoltà, continua la sua lotta. Già dal luglio 1929 inizia a pubblicare il Bollettino dell’opposizione. Nell’aprile 1930 crea un primo segretariato internazionale provvisorio dell’Opposizione comunista. Scrive numerosi libri e il 3 settembre 1938, alla presenza di 25 delegati di 11 paesi fonda la Quarta Internazionale.

    Ma gli staliniani lo braccano e lo perseguitano, diffondono pesanti calunnie su di lui accusandolo di essere un agente dei servizi segreti britannici e poi della Gestapo nazista. E’ uno dei principali accusati dei processi di Mosca. Suo figlio, Lev Sedov, viene assassinato nel 1938. I suoi segretari vengono trucidati. Fino all’assassinio di Trotsky stesso dell’agosto 1940, con un colpo di piccone al cranio, sferrato da Ramon Mercader, un agente di Stalin. Trasportato all’ospedale, Trotsky lotta con la morte per 24 ore e spira il 21 agosto.

    Le opere di Trotsky

    I 43 anni di attività politica di Lev Trotsky, con la sua posizione particolare assunta di fronte alla divaricazione della socialdemocrazia russa tra bolscevichi e menscevichi, con la sua precoce elaborazione della teoria dello sviluppo ineguale e combinato e della rivoluzione permanente, per la sua partecipazione al dibattito russo sulla pace, sui sindacati, sulla burocratizzazione dello stato e del partito, per il suo impegno nell’approfondire l’evoluzione della lotta di classe nel mondo, per i numerosi e variegati fronti teorici, politici e polemici sui quali fu chiamato ad impegnarsi prima all’interno della leadership sovietica, poi nella lotta contro la burocrazia al potere, nel dibattito della variegata galassia della sinistra comunista internazionale antistalinista e nella guida della corrente politica che si aggregò attorno alla sua figura, è estremamente difficile definire un breve elenco delle sue opere “principali”. Cerchiamo in ogni caso di farlo, scontando già in partenza lacune e scelte discutibili.

    I libri che raccomandiamo

    • Rapporto della delegazione siberiana (1904)
    • I nostri compiti politici (1904)
    • Bilancio e prospettive (1906)
    • 1905 (1909)
    • Terrorismo e comunismo (1920)
    • Nuovo corso (1923)
    • Le lezioni dell’ottobre (1924)
    • Letteratura e rivoluzione (1924)
    • La rivoluzione permanente (1928)
    • La Terza internazionale dopo Lenin (1928)
    • Storia della Rivoluzione russa (1930)
    • La mia vita (1930)
    • Diario d’esilio (1935)
    • La rivoluzione tradita (1936)
    • La loro morale e la nostra (1938)
    • Il programma di transizione (1938)
    • In difesa del marxismo (1939)
    • Bolscevismo contro stalinismo (1939)
    • Stalin (1940)
  • Stalinismo e bolscevismo

    Stalinismo e bolscevismo

    di Leon Trotsky

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    Epoche reazionarie come la nostra non solo disintegrano e indeboliscono la classe operaia ed isolano la sua avanguardia, ma inoltre abbassano il generale livello ideologico del movimento e gettano il pensiero politico indietro di molti stadi. In queste condizioni il compito dell’avanguardia è, soprattutto, quello di non lasciarsi trasportare da questa corrente: essa deve nuotare controcorrente. Se uno sfavorevole rapporto di forze le impedisce di mantenere le posizioni politiche che aveva vinto, essa deve almeno conservare la propria posizione ideologica, perché in essa trova espressione l’esperienza passata pagata a caro prezzo. Gli stolti considereranno questa politica come “settaria”. In realtà è l’unico modo per prepararsi alla tremenda ondata in avanti della prossima marea storica.

    La reazione contro il marxismo ed il bolscevismo

    Le grandi confitte politiche provocano una riconsiderazione dei valori, generalmente in due diverse direzioni. Da una parte la vera avanguardia, arricchita dall’esperienza della sconfitta, difende a denti stretti l’eredità del pensiero rivoluzionario, e su questa base si sforza d’educare nuovi quadri per la lotta di classe a venire. Dall’altra parte gli abitudinari, i centristi e i dilettanti, spaventati dalla sconfitta, fanno del loro meglio per distruggere l’autorità della tradizione rivoluzionaria e tornano indietro alla ricerca di un “mondo nuovo”.

    Si potrebbero indicare molti grandi esempi di reazione ideologica, che spesso prendono la forma di prostrazione. Tutta la letteratura della Seconda e della Terza Internazionale, tanto quanto quella dei loro satelliti quale l’Ufficio di Londra, consistono essenzialmente in tali esempi. Non un pizzico di analisi marxista. Non un singolo e serio tentativo di spiegare le cause della sconfitta. Neppure una fresca parola riguardo al futuro. Nient’altro che cliché, conformismo, menzogne e, soprattutto, premura per la propria autoconservazione burocratica. È sufficiente sentir l’odore di 10 parole di un qualche Hilferding o Otto Bauer per avvertire questo marciume. I teorici del Comintern non son neppure degni d’esser menzionati. Il famoso Dimitrov è tanto ignorante e banale quanto un bottegaio con un bicchiere di birra. Le menti di queste persone sono troppo pigre per rinunciare al marxismo: così lo prostituiscono. Ma non sono loro che ci interessano in questo momento. Torniamo piuttosto agli “innovatori”.

    L’ex comunista austriaco, Willi Schlamm, ha dedicato un volumetto ai processi di Mosca, sotto l’affascinante titolo La dittatura della menzogna. Schlamm è un giornalista di talento, principalmente interessato alle questioni correnti. Le sue critiche del teatrino moscovita e la sua esposizione dei meccanismi psicologici delle “confessioni volontarie” sono eccellenti. Però egli non si limita a questo: egli vuole creare una nuova teoria del socialismo che ci assicurerebbe dalle sconfitte e dai teatranti futuri. Ma, siccome Schlamm non è affatto un teorico ed è apparentemente non ben informato sulla storia dello sviluppo del socialismo, egli torna completamente al socialismo pre-marxiano, e specialmente nella sua versione tedesca, che è la varietà più arretrata, sentimentale e sdolcinata. Schlamm biasima la dialettica e la lotta di classe, per non parlare della dittatura del proletariato. Il problema della trasformazione della società si riduce in lui nella realizzazione di alcune “eterne” verità morali con le quali egli vorrebbe abbeverare l’umanità, persino sotto il capitalismo. Gli sforzi di Willi Schlamm di salvare il socialismo fornendolo di ghiandole morali è salutato con gioia ed orgoglio dalla rivista di Kerensky, Novaya Rossia (una vecchia rivista provinciale russa pubblicata a Parigi); come l’editore giustamente conclude, Schlamm è giunto ai principi del vero socialismo russo, che molto tempo addietro aveva opposto i suoi santi precetti di fede, speranza e carità all’austerità e alla durezza della lotta di classe. La “originale” dottrina dei socialrivoluzionari russi rappresenta, nelle sue premesse “teoriche”, solo un ritorno alla Germania che precedette il marzo (1848!). Sarebbe però ingiusto pretendere una più intima conoscenza della storia delle idee da parte di Kerensky piuttosto che da Schlamm. Molto più importante è il fatto che Kerensky, che è solidale a Schlamm, fu, quand’era capo del governo, l’istigatore delle persecuzioni contro i bolscevichi come agenti dello stato maggiore tedesco: organizzava, cioè, il medesimo teatrino contro il quale oggi Schlamm scaglia i suoi fuori moda assoluti metafisici.

    Il meccanismo psicologico della reazione ideologica di Schlamm e dei suoi simili non è affatto complesso. Per un certo periodo queste persone hanno preso parte al movimento politico che giurava sulla lotta di classe e, nelle parole se non nei pensieri, nel materialismo dialettico. Sia in Austria che in Germania la cosa è terminata in una catastrofe. Schlamm ne trae le conclusioni complessive: questo è il risultato della dialettica e della lotta di classe! E siccome le scelte sono limitate dall’esperienza teorica e dalle conoscenze personali, il nostro riformatore, nella ricerca delle parole giuste, cade su un mucchio di vecchi stracci che egli coraggiosamente oppone non solo al bolscevismo ma anche al marxismo.

    Ad una prima occhiata il tipo di reazione ideologica di Schlamm sembra troppo rudimentale (da Marx… a Kerensky!) per fermarcisi sopra. Ma in realtà è molto istruttivo farlo: proprio nella sua rudimentalità esso rappresenta il comune denominatore di tutte le altre forme di reazione, particolarmente di quelle che esprimono una completa denuncia del bolscevismo.

    “Ritorno al marxismo”?

    Il marxismo ha trovato nel bolscevismo la sua più alta espressione storica. Sotto la bandiera del bolscevismo il proletariato ha raggiunto la sua prima vittoria ed è stato fondato il primo stato proletario. Nulla può ormai cancellare questi fatti dalla storia. Ma, siccome la Rivoluzione d’Ottobre ha portato al presente stadio di trionfo della burocrazia, col suo sistema di repressione, saccheggio e falsificazione – la “dittatura della menzogna”, per usare la felice espressione di Schlamm – molte menti formalistiche e superficiali saltano a conclusioni sommarie: non si può lottare lo stalinismo senza rinunciare al bolscevismo. Schlamm, come già sappiamo, va oltre: il bolscevismo, che è degenerato in stalinismo, nasce dal marxismo; conseguentemente non si può lottare lo stalinismo rimanendo su fondamenta marxiste. Ci sono altri, meno coerenti ma più numerosi, che dicono al contrario: “Dobbiamo cambiare il bolscevismo in marxismo”. Come? In quale marxismo? Prima che il marxismo divenisse “fallimentare” nella forma del bolscevismo, esso era già stato abbattuto nella forma di socialdemocrazia. Significa allora lo slogan del “ritorno al marxismo” un salto oltre i periodi della Seconda e Terza Internazionale… a quello della Prima Internazionale? Ma anch’esso è fallito a suo tempo. così in ultima analisi occorre ritornare ai lavori di Marx ed Engels. Una persona può compiere questo salto storico senza abbandonare il proprio studio ed anche senza togliersi le proprie pantofole. Ma come facciamo a partire dai nostri classici (Marx è morto nel 1883, Engels nel 1895) per arrivare ai compiti di una nuova epoca, omettendo molte decadi di lotte teoriche e politiche, e tra esse il bolscevismo e la rivoluzione d’ottobre? Nessuno di coloro i quali hanno proposto di rinunciare al bolscevismo, in quanto tendenza storicamente fallimentare, è stato capace d’indicare nessun’altra via. Così la questione si risolve nel semplice consiglio di studiare il Capitale. Noi possiamo a mala pena obiettare: ma anche i bolscevichi studiavano il Capitale, e neppure male. Questo non ha però impedito la degenerazione dello stato sovietico e l’allestimento dei processi di Mosca. Allora, che fare?

    Il bolscevismo è responsabile per lo stalinismo?

    È vero che lo stalinismo rappresenta un legittimo prodotto del bolscevismo, come lo stesso Stalin dichiara e come i menscevichi, gli anarchici e certi dottrinari che si considerano marxisti credono? “Noi l’abbiamo predetto da sempre” dicono “Essendo partiti con la proibizione degli altri partiti socialisti, la repressione degli anarchici e l’instaurazione della dittatura bolscevica nei Soviet, la Rivoluzione d’Ottobre poteva concludessi solo nella dittatura della burocrazia. Stalin è la continuazione ed anche la bancarotta del leninismo”.

    La pecca di questo ragionamento comincia con la tacita identificazione di bolscevismo, Rivoluzione d’Ottobre e Unione Sovietica. Il processo storico di lotta tra forze ostili è così rimpiazzato dall’evoluzione del bolscevismo all’interno di un vuoto. Il bolscevismo, però, è solo una tendenza politica strettamente unita alla classe operaia, ma non identica ad essa. Ed oltre alla classe operaia esistono in Unione Sovietica cento milioni di contadini, diverse nazionalità ed un’eredità di oppressione, miseria ed ignoranza. Lo stato costruito dai bolscevichi riflette non solo il pensiero e le volontà del bolscevismo, ma anche il livello culturale del paese, la composizione sociale della popolazione, le pressioni di un passato barbarico e di un non meno barbarico imperialismo mondiale. Presentare il processo di degenerazione dello stato sovietico come evoluzione del bolscevismo puro vuol dire ignorare la realtà sociale nel nome di uno solo dei suoi elementi, isolato per mezzo della logica pura. È sufficiente chiamare quest’errore elementare col suo nome per sbarazzarsene.

    Il bolscevismo, in ogni caso, non si è mai identificato con la Rivoluzione d’Ottobre o con lo stato sovietico da questa generato. Il bolscevismo considera se stesso come uno dei fattori della storia, il suo fattore “cosciente” – uno molto importante ma non decisivo. Noi non abbiamo mai peccato di soggettivismo storico. Noi vedevamo il fattore decisivo – sulle basi reali delle forze produttive – nella lotta di classe, non solo su scala nazionale ma anche internazionale.

    Quando i bolscevichi hanno fatto concessioni alle tendenze contadine, alla proprietà privata, quando hanno realizzato rigide regole per l’appartenenza al partito, purgato il partito da elementi alieni, proibito altri partiti, introdotto la NEP, fatto concessioni o concluso accordi diplomatici con governi imperialisti, essi stavano traendo conclusioni parziali dai fatti basilari che erano stati teoricamente chiari per loro sin dall’inizio; perché la conquista del potere, per quanto importante possa essere in se stessa, non trasforma affatto il partito in sovrano del processo storico. Avendo assunto la direzione dello stato, il partito può, certamente, influenzare lo sviluppo della società con un potere che prima gli era inaccessibile; ma in cambio esso sottomette se stesso ad un’influenza 10 volte maggiore da parte degli altri elementi della società. Esso può, a causa del diretto attacco delle forze a lui ostili, essere scacciato dal potere. Dato un più lungo tempo di sviluppo, esso può degenerare al suo interno pur continuando a restare al potere. È precisamente questa dialettica del processo storico che non viene compresa da quei logici settari che cercano di trovare nell’imputridimento della burocrazia stalinista argomenti schiaccianti contro il bolscevismo.

    In sostanza questi gentiluomini dicono: il partito rivoluzionario che non contiene in se stesso garanzie contro la sua propria degenerazione è mal fatto. Secondo questo criterio il bolscevismo è ovviamente condannato: esso non possiede talismani. Ma è il criterio stesso ad essere errato. Il pensiero scientifico richiede un’analisi concreta: come e perché il partito è degenerato? Nessuno, tranne gli stessi bolscevichi, ha, finora, portato avanti tale analisi. Nel far ciò essi non hanno avuto bisogno di rompere col bolscevismo. Al contrario, essi hanno trovato nel suo arsenale tutto ciò di cui abbisognavano per la spiegazione del suo destino. Essi hanno tratto la seguente conclusione: senza dubbio lo stalinismo è “scaturito” dal bolscevismo, non logicamente però, ma bensì dialetticamente; non come affermazione rivoluzionaria, ma come rinnegazione termidoriana. Non è affatto la stessa cosa.

    La previsione principale del bolscevismo

    I bolscevichi, comunque, non hanno aspettato i processi di Mosca per spiegare la disintegrazione del partito dominante dell’URSS. Tempo addietro essi previdero e parlarono della possibilità teorica di tale sviluppo. Permetteteci di richiamare alla memoria le prognosi che i bolscevichi fecero non solo alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, ma anni prima. Lo specifico allineamento di forze nel campo nazionale e internazionale può aprire al proletariato la possibilità di prendere il potere dapprima nella Russia arretrata. Ma il medesimo allineamento di forze mostra anticipatamente che, senza una più o meno rapida vittoria del proletariato dei paesi avanzati, il governo operaio russo non sopravviverà. Lasciato a se stesso, il regime sovietico è destinato a cadere o a degenerare. Più precisamente: esso inizialmente degenererà, dopodiché cadrà. Io stesso ho scritto in tal proposito più d’una volta, a partire dal 1905. Nella mia Storia della rivoluzione russa sono collezionate tutte le affermazioni sull’argomento fatte dai leader bolscevichi dal 1917 al 1923. Tutte queste affermazioni giungono medesima alla conclusione: senza rivoluzione in occidente, il bolscevismo sarà liquidato o dalla controrivoluzione interna o dall’intervento esterno, oppure da una combinazione d’entrambi. Lenin poneva di continuo l’accento sul fatto che la burocratizzazione del regime sovietico non era una questione tecnica, ma piuttosto l’inizio potenziale della degenerazione dello stato operaio.

    All’undicesimo congresso del partito, nel marzo 1922, Lenin parlò dell’appoggio offerto alla Russia sovietica al tempo della NEP da parte di alcuni politici borghesi, particolarmente dal professore liberale Ustrialov. “Io sono per il sostegno del potere sovietico in Russia” disse Ustrialov – per quanto egli fosse un Cadetto, un borghese, un sostenitore dell’intervento – “perché esso ha imboccato la strada che lo riporterà ad essere un ordinario stato borghese”. Lenin preferiva la cinica voce del nemico ai “mielosi nonsense comunistici”. Sobriamente e con severità egli avvertì il partito del pericolo in cui si stava incorrendo: “Dobbiamo dire francamente che le cose di cui Ustrialov parla sono possibili. La storia conosce ogni sorta di metamorfosi. L’appoggiarsi alla fermezza delle convinzioni, alla lealtà e ad altre splendide qualità morali, in politica non è nient’altro che un serio atteggiamento. Sono poche le persone dotate di tali qualità morali, ma le grandi questioni politiche sono decise dalle grandi masse, e queste, se i pochi non soddisfano le loro esigenze, possono ad un certo momento trattarli in modo non troppo educato”. In una parola, il partito non è l’unico fattore dello sviluppo e, in una larga prospettiva storica, non è quello decisivo.

    “Una nazione conquista l’altra” continuò Lenin allo stesso congresso, l’ultimo al quale prese parte, “questo è chiaro e comprensibile a tutti. Ma cosa succede alla cultura di queste nazioni? Qui le cose non son così semplici. Se la nazione conquistatrice è più acculturata di quella sconfitta, la prima impone la propria cultura alla seconda; ma se il caso è l’opposto, la nazione sconfitta impone la propria cultura a quella vincitrice. Non è qualcosa di simile ciò che è accaduto alla capitale della RSFSR? Non son forse caduti i 4700 comunisti (quasi un’intera divisione di militari, e dei migliori) sotto l’influenza di una cultura aliena?”. Questo è ciò che venne detto nel 1922, e non per la prima volta. La storia non è fatta da poche persone, anche se queste sono “le migliori”; e non solo: questi “migliori” possono degenerare in uno spirito alieno, cioè, nella cultura borghese. Non solo lo stato sovietico può abbandonare la via del socialismo, ma il partito bolscevico può, in sfavorevoli condizioni storiche, perdere il proprio bolscevismo.

    L’Opposizione di Sinistra, formatasi definitivamente nel 1923, è nata proprio da una chiara comprensione di tale pericolo. Registrando giorno per giorno i sintomi della degenerazione, essa ha cercato d’opporre al crescente Termidoro la volontà cosciente dell’avanguardia proletaria. Però questo fattore soggettivo s’è dimostrato insufficiente. Le “masse gigantesche” che, secondo Lenin, decidono il risultato della battaglia, si son stancate di sopportare privazioni interne in attesa della rivoluzione mondiale. Il morale delle masse è declinato. La burocrazia ha avuto il sopravvento, intimidito l’avanguardia rivoluzionaria, calpestato il marxismo, prostituito il partito bolscevico. Lo stalinismo ha vinto. Nelle vesti dell’Opposizione di Sinistra il bolscevismo ha rotto con la burocrazia sovietica e con il suo Comintern. Questo è stato il corso reale degli eventi.

    È vero, in senso formale lo stalinismo è scaturito dal bolscevismo. Ancora oggi la burocrazia moscovita continua ad autodefinirsi partito bolscevico. Essa sta semplicemente usando la vecchia etichetta bolscevica per ingannar più facilmente le masse. Ancor più pietosi sono quei teorici che scambiano la conchiglia per il mollusco, l’apparenza per la realtà. Nell’identificare lo stalinismo come bolscevismo essi rendono il miglior servizio possibile ai termidoriani, e proprio per questo giocano un ruolo chiaramente reazionario.

    Vista l’eliminazione di tutti gli altri partiti dal campo politico, gli interessi antagonistici e le tendenze contrastanti dei vari strati della popolazione hanno dovuto trovare, in un grado maggiore o minore, espressione nel partito al potere. Al medesimo grado in cui il centro politico di gravità si è spostato dall’avanguardia proletaria alla burocrazia, il partito ha mutato la propria struttura sociale tanto quanto la sua ideologia. A causa del burrascoso sviluppo degli eventi, esso ha patito negli ultimi 15 anni una degenerazione assai più radicale di quella sofferta dalla socialdemocrazia in mezzo secolo. Le purghe attuali tracciano tra bolscevismo e stalinismo non una semplice linea insanguinata, ma un intero fiume di sangue. L’annientamento di tutte le più anziane generazioni di bolscevichi, di una parte importante della generazione di mezzo che ha partecipato alla guerra civile e di quella parte di gioventù che ha ripreso con maggior serietà la tradizione bolscevica, mostra una completa incompatibilità non solo politica, ma addirittura fisica tra bolscevismo e stalinismo. Come si può non vedere questo fatto?

    Stalinismo e “socialismo di stato”

    Gli anarchici, da parte loro, tentano di vedere lo stalinismo come prodotto organico non solo di bolscevismo e marxismo, ma anche del ‘socialismo di stato’ in generale. Essi vogliono rimpiazzare la patriarcale ‘federazione di liberi comuni’ di Bakunin con una moderna federazione di liberi Soviet. Ma, come prima, essi sono contro il potere statale centralizzato. Una stessa branca del marxismo ‘statale’ invece, la socialdemocrazia, dopo esser giunta al potere è divenuta un aperto agente del capitalismo. Gli altri hanno dato vita ad una nuova classe privilegiata. È ovvio che la fonte del male risiede nello stato. Da un’ampia prospettiva storica, c’è una certa verità in tal modo di ragionare. Lo stato come apparato di coercizione è un’indubitabile fonte di corruzione morale e politica. Ciò si applica anche, come mostrato dall’esperienza, in relazione allo stato operaio. Conseguentemente si può dire che lo stalinismo è il prodotto di una condizione sociale nella quale la società è ancora incapace di strapparsi di dosso la camicia di forza rappresentata dallo stato. Ma questa posizione, che non contribuisce in niente all’elevazione del bolscevismo e del marxismo, caratterizza solo il livello generale dell’umanità e – soprattutto – i rapporti di forza tra il proletariato e la borghesia. Essendo convenuti con gli anarchici che lo stato, persino lo stato operaio, è il prodotto della barbarie classista e che la vera storia dell’umanità avrà inizio con l’abolizione dello stato, abbiamo ancora ritta innanzi a noi la questione: quali vie e metodi porteranno, infine, all’abolizione dello stato? L’esperienza recente testimonia che essi non sono comunque i metodi dell’anarchismo.

    I leader della Federazione Spagnola del Lavoro (CNT), l’unica importante organizzazione anarchica in tutto il mondo, sono diventati, nelle ore più critiche, ministri borghesi. Essi hanno spiegato il loro aperto tradimento dell’anarchia con la pressione delle “circostanze eccezionali”. Ma non è la stessa giustificazione usata, a loro tempo, dai leader della socialdemocrazia tedesca? Una guerra civile non è, naturalmente, né pacifica né ordinaria, ma piuttosto è una “circostanza eccezionale”. Ogni seria organizzazione rivoluzionaria si prepara, però, precisamente per “circostanze eccezionali”. L’esperienza spagnola ha mostrato ancora una volta che lo stato può essere “rifiutato” in opuscoli pubblicati in “circostanze normali” con il permesso dello stato borghese, ma le condizioni rivoluzionarie non lasciano spazio per il rifiuto dello stato: esse richiedono, al contrario, la conquista dello stato. Noi non abbiamo la ben minima intenzione di rimproverare gli anarchici per non aver liquidato lo stato con un semplice tratto di penna. Un partito rivoluzionario, pur essendosi impadronito del potere (cosa che non seppero fare i leader anarchici, nonostante l’eroismo degli operai anarchici), non è affatto ancora il governatore sovrano della società. Ma ancor più severamente dobbiamo rimproverare la teoria anarchica, che è parsa essere completamente appropriata per periodi di pace, ma che è stato opportuno gettar via il più rapidamente possibile non appena le “circostanze eccezionali” della… rivoluzione erano cominciate. Ai vecchi tempi c’erano certi generali – e probabilmente ci sono ancora – che ritenevano che la cosa più nociva per un esercito fosse la guerra. Poco migliori sono quei rivoluzionari che si lamentano del fatto che la rivoluzione distrugge la loro dottrina.

    I marxisti sono pienamente d’accordo con gli anarchici riguardo il loro obiettivo finale: l’eliminazione dello stato. I marxisti sono “pro-stato” solo nel grado in cui non si può raggiungere l’eliminazione dello stato ignorando semplicemente quest’ultimo. L’esperienza dello stalinismo non confuta gli insegnamenti di Marx ma anzi li conferma per contrario. La dottrina rivoluzionaria che insegna al proletariato ad orientarsi correttamente nelle varie situazioni e di approfittare attivamente di esse, non contiene, ovviamente, alcuna garanzia automatica di vittoria. Ma la vittoria è possibile solo attraverso l’applicazione di tale dottrina. Inoltre, la vittoria non va immaginata come un singolo evento. Essa va considerata nella prospettiva di un’epoca storica. Lo stato operaio – ad un più basso livello economico e circondato dall’imperialismo – è stato trasformato nella gendarmeria dello stalinismo. Ma il genuino bolscevismo ha lanciato una battaglia mortale contro la gendarmeria. Lo stalinismo, per potersi mantenere in vita, è ora costretto a condurre una diretta guerra civile contro il bolscevismo, sotto il nome di “trotskysmo”, non solo in URSS, ma anche in Spagna. Il vecchio partito bolscevico e morto, ma il bolscevismo sta alzando la sua testa ovunque.

    Dedurre lo stalinismo dal bolscevismo o dal marxismo è la stessa identica cosa che dedurre, in senso più largo, la controrivoluzione dalla rivoluzione. Il modo di pensare liberal-conservatore e dell’ultimo riformismo è stato sempre caratterizzato da tale cliché. A causa della struttura di classe della società, le rivoluzioni hanno sempre prodotto controrivoluzioni. Non indica questo, chiede il logico, che esiste qualche difetto interno nel metodo rivoluzionario? Però, né i liberali né i riformisti sono riusciti, sinora, ad inventare un metodo più “economico”. Ma se non è cosa facile il razionalizzare il processo storico vivente, non è affatto difficile dare un’interpretazione razionale dell’avvicendamento delle sue ondate, è così, per pura logica, dedurre lo stalinismo dal “socialismo di stato”, il fascismo dal marxismo, la reazione dalla rivoluzione o, in una parola, l’antitesi dalla tesi. In questo campo, come in molti altri, il pensiero anarchico è prigioniero del razionalismo liberale. Un pensiero autenticamente rivoluzionario non è possibile senza dialettica.

    I “peccati” politici del bolscevismo come fonte dello stalinismo

    Le argomentazioni dei razionalisti assumono certe volte, quantomeno nella loro forma esteriore, un carattere più concreto. Essi non deducono lo stalinismo dal bolscevismo nella sua interezza, ma dai suoi peccati politici. I bolscevichi – secondo Gorter, Pannekoek, certi “spartachisti” tedeschi ed altri – rimpiazzano la dittatura del proletariato con la dittatura del partito; Stalin ha poi rimpiazzato la dittatura del partito con la dittatura della burocrazia. I bolscevichi hanno distrutto tutti i partiti ad eccezione del loro; Stalin ha strangolato il partito bolscevico nell’interesse della cricca bonapartista. I bolscevichi son giunti a compromessi con la borghesia; Stalin né è divenuto il suo alleato ed il suo sostegno. I bolscevichi hanno riconosciuto la necessità di partecipare nei vecchi sindacati e nei parlamenti borghesi; Stalin è divenuto amico della burocrazia sindacale e della democrazia borghese. Tali paragoni possono esser fatti all’infinito. Malgrado la loro apparente efficacia essi sono completamente vuoti.

    Il proletariato può giungere al potere solo attraverso la sua avanguardia. In se stessa la necessità di ottenere il potere statale scaturisce dall’insufficiente livello culturale delle masse e dalla loro eterogeneità. Nell’avanguardia rivoluzionaria, organizzata in partito, è cristallizzata l’aspirazione delle masse di ottenere la libertà. Senza la fiducia della classe nell’avanguardia, senza l’appoggio dell’avanguardia da parte della classe, non si può neppure parlare di conquista del potere. In tal senso la rivoluzione e la dittatura proletaria sono il prodotto dell’intera classe, ma solo sotto la leadership dell’avanguardia. I Soviet sono la sola forma organizzata del legame tra l’avanguardia e la classe. Solo il partito può dare contenuto rivoluzionario a tale forma. Questo è comprovato dall’esperienza positiva della Rivoluzione d’Ottobre e dall’esperienza negativa di altri paesi (Germania, Austria e, infine, Spagna). Nessuno ha mostrato praticamente o tentato di spiegare in modo articolato sulla carta come il proletariato possa prendere il potere senza la leadership politica di un partito che sa quel che vuole. Il fatto che tale partito subordina politicamente il Soviet ai suoi leader ha, di per sé, abolito il sistema sovietico non più quanto il dominio della maggioranza conservatrice abbia abolito il sistema parlamentare britannico.

    Per quel che riguarda la proibizione di altri partiti sovietici, essa non scaturì da alcuna “teoria” bolscevica, ma fu una misura per difendere la dittatura in un paese arretrato e devastato, circondato da tutti i lati da nemici. Per i bolscevichi era chiaro sin dall’inizio che tale misura, successivamente completata dalla proibizione di fazioni all’interno dello stesso partito al potere, costituiva un tremendo pericolo. Comunque la radice di tale pericolo non sta nella dottrina o nella tattica, ma nella debolezza materiale della dittatura, nella difficoltà della situazione interna ed internazionale. Se la rivoluzione avesse trionfato persino nella sola Germania, la necessità di proibire gli altri partiti sovietici sarebbe immediatamente scomparsa. È assolutamente indiscutibile il fatto che il dominio di un singolo partito è servito come punto di partenza giuridico per il regime totalitario staliniano. Ma la ragione di tale sviluppo non sta né nel bolscevismo, né nella proibizione di altri partiti attuata come misura temporanea di guerra, ma nel numero delle sconfitte del proletariato in Europa ed Asia.

    Lo stesso vale per la battaglia contro l’anarchismo. Nell’eroica epoca della rivoluzione, i bolscevichi cooperarono mano nella mano con i genuini anarchici rivoluzionari. Molti di loro furono attirati nelle file del partito. L’autore di queste righe discusse più di una volta con Lenin della possibilità di assegnare agli anarchici alcuni territori nei quali, col consenso della popolazione locale, essi avrebbero potuto sperimentare la loro società senza stato. Ma la guerra civile, lo stato d’assedio e la fame non lasciarono spazio per tali propositi. L’insurrezione di Kronstadt? Ma il governo rivoluzionario naturalmente non poteva “regalare” ai marinai insorti la fortezza che proteggeva la capitale solo perché la ribellione dei contadini-soldati reazionari era appoggiata da alcuni, peraltro dubbi, anarchici. La concreta analisi storica non lascia il minimo spazio per leggende, costruite con l’ignoranza ed il sentimentalismo, riguardo Kronstadt, Makhno ed altri episodi della rivoluzione.

    Resta solo il fatto che i bolscevichi utilizzarono, sin dall’inizio, non solo metodi convincitivi, ma anche la costrizione, spesso sino al grado più severo. È anche innegabile che, in seguito, la burocrazia nata dalla rivoluzione ha monopolizzato nelle sue mani il sistema coercitivo. Ogni fase dello sviluppo, anche fasi così catastrofiche come la rivoluzione e la controrivoluzione, scaturisce dalla fase precedente, è radicata in essa e si porta dietro alcune delle sue caratteristiche. I liberali, inclusi i Webbs, hanno sempre sostenuto che la dittatura bolscevica rappresentativa solo una nuova edizione dello zarismo. Essi hanno chiuso i loro occhi innanzi a “dettagli” come l’abolizione della monarchia e della nobiltà, la consegna delle terre ai contadini, l’espropriazione del capitale, l’introduzione dell’economia pianificata, l’educazione atea, e così via. Esattamente allo stesso modo il pensiero liberal-anarchico chiude i suoi occhi innanzi al fatto che la rivoluzione bolscevica, con tutte le sue repressioni, rappresentava un sovvertimento delle precedenti relazioni sociali nell’interesse delle masse, laddove il termidoriano sovvertimento stalinista accompagna la ricostruzione della società sovietica nell’interesse di una minoranza privilegiata. È chiaro che nell’identificazione dello stalinismo col bolscevismo non vi è alcuna traccia di criterio d’analisi socialista.

    Questioni teoriche

    Una delle più eccezionali caratteristiche del bolscevismo è stata la sua severa, esigente, persino litigiosa attitudine verso le questioni di dottrina. I 26 volumi degli scritti di Lenin rimarranno per sempre un modello della più alta coscienza teorica. Senza questa qualità fondamentale, il bolscevismo non avrebbe mai adempiuto al suo ruolo storico. A questo proposito lo stalinismo, grossolano, ignorante e completamente empirico, è il suo esatto contrario.

    L’Opposizione ha dichiarato, più di dieci anni fa, nel suo programma: “Sin dalla morte di Lenin è stata creata un’intera serie di nuove teorie, teorie il cui unico scopo è stato quello di giustificare lo spostamento del gruppo di Stalin fuori dall’orbita della rivoluzione proletaria internazionale”. Solo pochi giorni fa uno scrittore americano, Liston M. Oak, che ha partecipato alla rivoluzione spagnola, ha scritto: “Gli stalinisti sono oggi, di fatto, i principali revisionisti di Marx e Lenin – Bernstein non ha osato andare oltre la metà in confronto a Stalin nel suo revisionismo di Marx”. Ciò è assolutamente vero. Bisognerebbe aggiungere che Bernstein sentiva realmente certi bisogni teorici: egli tentò coscientemente di stabilire una corrispondenza tra la pratica riformista della socialdemocrazia ed il suo programma. La burocrazia stalinista, però, non solo non aveva nulla in comune col marxismo, ma è in generale estranea a qualsiasi dottrina o sistema. La sua ideologia è completamente permeata di soggettivismo poliziesco, la sua pratica è l’empirismo della pura violenza. Nel difendere i suoi interessi essenziali, la casta degli usurpatori è ostile a qualsiasi teoria: non può dar conto del proprio ruolo sociale né a se stessa né a nessun altro. Stalin ha revisionato Marx e Lenin non con la penna del teorico, ma con lo sperone del GPU.

    Questioni morali

    Lamentele per la “immoralità” del bolscevismo provengono particolarmente da quei vanagloriosi millantatori le cui maschere a buon mercato son state strappate via dal bolscevismo stesso. Nei circoli piccolo-borghesi, intellettualistici, “socialisti”, letterari, parlamentari e d’altro genere, prevalgono i valori convenzionali, o un linguaggio convenzionale atto a coprire la loro assenza di valori. Questa vasta ed eterogenea società del mutuo soccorso – “vivi e lascia vivere” – non può sopportare il tocco della lancetta marxista sulla propria delicata pelle. I teorici, gli scrittori e i moralisti, esitanti tra diversi campi, pensavano e continuano a pensare che i bolscevichi esagerino maliziosamente le differenze, che siano incapaci di collaborazione “leale” e che i loro “intrighi” distruggano l’unità del movimento operaio. Inoltre, il sensibile e suscettibile centrista ha sempre pensato che i bolscevichi lo stessero “calunniando” – semplicemente per il fatto che essi portavano, al posto suo, fino alla fine i pensieri da lui mezzo sviluppati: cosa che lui non è mai stato capace di fare. Ma resta il fatto che solo quella preziosa qualità, un’inflessibile attitudine contro il cavillare e l’evasività, può educare un partito rivoluzionario che non voglia esser preso alla sprovvista da “circostanze eccezionali”.

    Le qualità morali di ogni partito scaturiscono, in ultima analisi, dagli interessi storici che esso rappresenta. Le qualità morali del bolscevismo (l’auto-rinuncia, il disinteresse, l’audacia ed il disprezzo per ogni tipo di fronzoli e falsità – le più alte qualità della natura umana!) derivano dall’intransigenza rivoluzionaria al servizio degli oppressi. Anche la burocrazia staliniana imita in questo campo le parole e i gesti del bolscevismo. Ma quando “intransigenza” e “inflessibilità” sono applicate da un apparato poliziesco al servizio di una minoranza privilegiata, essi divengono una forza di demoralizzazione e gangsterismo. Si può provare solo disprezzo per questi gentiluomini che identificano l’eroismo rivoluzionario dei bolscevichi con il cinismo burocratico dei termidoriani.

    Persino ora, malgrado i drammatici eventi del recente periodo, il filisteo medio preferisce credere che la battaglia tra bolscevismo (“trotskysmo”) e stalinismo riguarda uno scontro tra ambizioni personali, o, al meglio, un conflitto tra due “tonalità” di bolscevismo. La più cruda espressione di tale opinione è fornita da Norman Thomas, leader del Partito socialista americano: “C’è poca ragione di credere”, scrive (Socialist review, settembre 1937, p. 6), “che se Trotsky avesse vinto (!) invece di Stalin, sarebbero finiti in Russia gli intrighi, i complotti ed il regno della paura”. E quest’uomo si considera… un marxista. Si avrebbe lo stesso diritto di dire: “C’è poca ragione di credere che, se invece che da Pio XI la Santa Sede fosse stata occupata da Norman I, la Chiesa Cattolica si sarebbe trasformata in un bastione del socialismo”. Thomas non riesce a comprendere che non si tratta qui di un conflitto tra Stalin e Trotsky, ma di un antagonismo tra la burocrazia ed il proletariato. Certamente, lo strato governante dell’URSS è costretto persino ora ad adattare se stesso alla non ancora completamente liquidata eredità della rivoluzione, mentre sta preparando nel contempo, attraverso una guerra civile (“purghe” sanguinose – annientamento di massa degli scontenti), un cambiamento nel regime sociale. Ma in Spagna la cricca staliniana sta già agendo apertamente come bastione della burocrazia contro il socialismo. La battaglia contro la burocrazia bonapartista si sta trasformando sotto i nostri occhi in lotta di classe: due mondi, due programmi, due moralità. Se Thomas crede che la vittoria del proletariato socialista sull’infame casta di oppressori non rigenererebbe politicamente e moralmente il regime sovietico, egli prova soltanto che, nonostante tutte le sue riserve, spostamenti e pii sospiri, egli è molto più vicino alla burocrazia stalinista che agli operai. Come altri espositori della “immoralità” bolscevica, Thomas semplicemente non è cresciuto al livello della moralità rivoluzionaria.

    La tradizione bolscevica e la Quarta Internazionale

    I “sinistri”, che nel loro ritorno al marxismo hanno tentato di saltare oltre il bolscevismo, si sono confinati in una panacea isolata: boicottaggio parlamentare, creazione di Soviet “genuini”. Tutto ciò poteva sembrare estremamente profondo nel fervore dei primi giorni che seguirono la guerra. Ma ora, alla luce dell’esperienza più recente, tali “malattie infantili” non destano più neppure l’interesse della curiosità. Il tedesco Gorter e Pannekoek, gli “spartachisti” tedeschi e i bordighisti italiani, hanno tutti mostrato la loro indipendenza dal bolscevismo solo gonfiando artificialmente una delle sue caratteristiche e opponendo questa a tutte le altre. Ma nulla è rimasto, né nella pratica né in teoria, di queste tendenze di “sinistra”: questa è un’indiretta ma importante prova che il bolscevismo è l’unica forma possibile di marxismo nella nostra epoca.

    Il partito bolscevico ha mostrato in azione una combinazione della più alta audacia rivoluzionaria e di realismo politico. Ha stabilito per la prima volta la sola corrispondenza tra avanguardia e classe capace d’assicurare la vittoria. Ha provato con l’esperienza che l’alleanza tra il proletariato e le masse oppresse della piccola borghesia rurale e urbana è possibile solo attraverso l’abbattimento politico dei tradizionali partiti piccolo borghesi. Il partito bolscevico ha mostrato al mondo intero come realizzare un’insurrezione armata e la presa del potere. Coloro che propongono l’astrazione dei Soviet dalla dittatura del partito dovrebbero comprendere che solo grazie a questa dittatura del partito i Soviet hanno potuto tirarsi fuori dal fango del riformismo e giungere alla formazione dello stato proletario. Il partito bolscevico ha realizzato durante la guerra civile la corretta combinazione tra arte militare e politica marxista. Persino se la burocrazia staliniana dovesse riuscire a distruggere le fondamenta economiche della nuova società, l’esperienza dell’economia pianificata sotto la leadership del partito bolscevico entrerà nella storia come uno dei più grandi insegnamenti dell’umanità. Ciò può essere ignorato solo dai settari che, offesi dalle ferita che hanno subito, voltano le spalle al processo storico.

    Ma non è tutto. Il partito bolscevico è stato capace di compiere un immenso lavoro “pratico” solo grazie al fatto che esso ha illuminato ogni suo passo attraverso la teoria. Il bolscevismo non ha creato questa teoria: questa gli è stata fornita dal marxismo. Ma il marxismo è una teoria del movimento, non della stagnazione. Solo eventi di una tremenda scala storica possono arricchire la teoria stessa. Il bolscevismo ha dato al marxismo un contributo inestimabile nella sua analisi dell’epoca imperialista come epoca di guerre e di rivoluzioni; della democrazia borghese nell’era del capitalismo decadente; della correlazione tra sciopero generale e insurrezione; del ruolo del partito, dei Soviet e dei sindacati nel periodo della rivoluzione proletaria; nella sua teoria dello stato sovietico, dell’economia in transizione, del fascismo e del bonapartismo nell’epoca del declino capitalista; e finalmente nella sua analisi della degenerazione dello stesso partito bolscevico e dello stato sovietico. Quale altra tendenza ha aggiunto tante cose essenziali alle conclusioni e generalizzazioni del bolscevismo? Teoricamente e politicamente Vandervelde, De Brouckere, Hilferding, Otto Bauer, Leon Blum, Zyromski, per non citare il maggiore Attlee e Norman Thomas, vivono sui brandelli rimanenti del passato. La degenerazione del Komintern è espressa nel modo più crudo nel fatto che esso è caduto al livello teorico della Seconda Internazionale. Tutte le varietà di gruppi intermedi (Independent Labour Party inglese, POUM e simili) adattano settimanalmente frammenti accidentali di Marx e Lenin ai loro bisogni immediati. Gli operai non hanno nulla da imparare da queste persone.

    Solo i fondatori della Quarta Internazionale, che hanno fatto propria l’intera tradizione di Marx e di Lenin, mostrano un atteggiamento serio verso la teoria. I filistei possono deridere il fatto che 20 anni dopo la vittoria dell’Ottobre i rivoluzionari sono ancora rigettati nella modesta preparazione propagandista. I grandi capitalisti sono, in tale questione come in molte altre, assai più penetranti dei piccolo borghesi che si immaginano “socialisti” o “comunisti”. Non è un caso che il tema della Quarta Internazionale non lascia le colonne della stampa mondiale. Il bruciante bisogno storico per una leadership rivoluzionaria, promette alla Quarta Internazionale un ritmo eccezionalmente rapido di crescita. La più grande garanzia dei suoi prossimi successi risiede nel fatto che essa non ha abbandonato la strada maestra, ma è scaturita organicamente dal bolscevismo.

  • Serge Victor (Viktor L’vovič Kibal’čič)

    Serge Victor (Viktor L’vovič Kibal’čič)

    Viktor L’vovič Kibal’čič naque a Bruxelles il 30 dicembre 1890, figlio di rifugiati politici russi, dai quali eredita la passione sociale, e l’antimilitarismo. Lascia molto precocemente la famiglia e si collega a circoli anarchici radicali, in particolare quelli che poi daranno vita alla Banda Bonnot, il gruppo armato che operò negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale in Francia e in Belgio. Individuato dalla polizia francese (nel frattempo si era trasferito a Parigi), si rifiutò di collaborare e venne condannato nel 1912 a cinque anni di prigione.

    In quegli anni, pur conservando ideali fortemente libertari, comincia a maturare una critica di fondo verso l’anarchismo e, in particolare, verso la sua ispirazione individualista. Scrive:

    «Gli anarchici puntano ancora ad una purezza rivoluzionaria sempre più alta, vogliono reagire contro il burocratismo sindacale ma, occorre dirlo, arrivano solo, seppure con le migliori intenzioni del mondo, con grande impegno personale, perfino con eroismo, a moltiplicare le sette, le sotto-sette, le deviazioni ridicole o tragiche (l’esperantismo, il vegetarianesimo, il naturismo, l’amoreliberismo ovunque; il banditismo in Francia; il terrorismo in Spagna)».

    Ma rifiuta anche l’anarcosindacalismo.

    Al termine della pena, viene espulso dalla Francia e si rifugia in Spagna, dove collabora (e stampa, come tipografo) il giornale Tierra y Libertad, nel quale adotta lo pseudonimo che poi manterrà per tutta la vita: Victor Serge.

    Quando viene a conoscenza della rivoluzione del febbraio 1917, decide immediatamente di trasferirsi in Russia, ma viene arrestato lungo il percorso in Francia, che lo libererà solo nel 1919, grazie ad uno scambio di prigionieri tra la Russia sovietica e la Francia. Arrivato finalmente nella città di Pietrogrado, assediata dalle armate controrivoluzionarie bianche, aderisce immediatamente al Partito bolscevico, mettendosi al servizio del giornale del soviet della città.

    Partecipò ai primi congressi dell’Internazionale comunista (IC), collaborando, in particolare vista la sua perfetta conoscenza dello spagnolo e del francese, con l’Esecutivo diretto da Zinoviev, occupandosi della edizione francese del giornale della IC e scrivendo numerosi articoli per i giornali delle sue varie sezioni nazionali.

    Si impegnò per cercare di criticare, con l’efficacia di chi ne ha conosciuto dall’interno le pulsioni ideali, le correnti anarchiche e il loro settarismo contro il bolscevismo, ma fu anche attivo nel cercare di indurre il partito a non usare metodi repressivi verso gli ambienti libertari e, più in generale, nel criticare gli eccessi violenti della CeKa.

    Al momento della sollevazione di Kronstadt (marzo 1921), si impegnò attivamente per cercare una mediazione tra il governo bolscevico e i marinai insorti. Dopo la repressione del movimento, peraltro, si salvò dall’arresto solo grazie alla intercessione di Zinoniev, che garantì per lui.

    Nel 1923, si impegna immediatamente nella opposizione di sinistra, appena fondata da Trotsky, denunciando con nettezza la burocratizzazione dello stato e dell’Internazionale. Le critiche che sviluppò sulle conseguenze nefaste che quella burocratizzazione ebbe sugli esiti della rivoluzione cinese del 1927, gli costò l’espulsione dal partito con l’accusa di «attività frazionistiche».

    Nel 1933, venne condannato alla deportazione negli Urali, e riesce a salvarsi dalla stagione dei processi di Mosca nel 1936, grazie ad una campagna internazionale che vide impegnati numerosi e importanti intellettuali democratici, tra i quali l’italiano Gaetano Salvemini.

    Privato della nazionalità russa ed espulso dall’URSS, raggiunge il Belgio e poi la Francia, dove si impegna a fondo contro la feroce repressione che nel paese dei soviet stava colpendo l’intera generazione dei vecchi bolscevichi. Nella guerra di Spagna, sostiene la tesi della necessità della convergenza stretta tra anarchici e marxisti. Comincia ad allontanarsi da Trotsky, criticandolo per il suo settarismo nei confronti del POUM, il partito comunista antistalinista di Andrés Nin. Le critiche politiche che rivolse a Trotsky su questo e su tanti altri temi (in primo luogo sul suo orientamento al momento di Kronstadt) non scalfirono però la stima profonda tra i due, tanto che V. Serge scelse, dopo l’assassinio di Trotsky ad opera di un sicario stalinista, di scriverne la biografia, in collaborazione con la vedova del grande rivoluzionario russo.

    Nel frattempo, senza più possibilità di risiedere in un qualunque paese europeo, riuscì a rifugiarsi in Messico, dove nel novembre 1947, morì nella più totale povertà.

  • Iran, per le donne, la vita, la libertà

    Iran, per le donne, la vita, la libertà

    Manifesto femminista internazionale in solidarietà con le donne iraniane in lotta

    Qui il testo in portoghese, inglese, castigliano, francese

    Noi, attiviste femministe, personalità pubbliche, parlamentari e organizzazioni sottoscritte di diversi paesi del mondo, siamo solidali con le donne iraniane che, dal settembre 2022, lottano contro la Repubblica iraniana e chiedono giustizia per Jina Mahsa Amini. Mahsa era una donna di 22 anni di origine curda, arrestata e picchiata a morte dalla “polizia morale” della Repubblica iraniana per aver indossato l’hijab contro le leggi teocratiche del paese.

    Dopo questo inaccettabile omicidio misogino, le donne di tutto il paese sono scese in piazza in Iran in una rivolta femminista e antidittatoriale per la caduta della Repubblica islamica e per la parità di genere. Le strade dell’Iran sono state teatro di massicce proteste per quasi due mesi. In prima linea ci sono state le giovani donne che, nell’affrontare la sanguinaria dittatura iraniana e la moralità che impone, si sono tolte l’hijab in pubblico e lo hanno bruciato, in un gesto di rivendicazione della propria libertà e della fine del regime teocratico. Ancora una volta, le donne sono in prima linea nella lotta contro i governi autoritari.

    • Ci uniamo a una catena internazionale e femminista di solidarietà con la rivolta delle donne dell’Iran contro la dittatura religiosa della Repubblica iraniana.
    • Siamo solidali con tutte le donne e gli uomini che lottano contro il regime oppressivo, per le libertà e i diritti sociali.
    • Difendiamo la libertà religiosa di tutte le donne di scegliere come e quando professare la propria fede.
    • Siamo a favore della parità di genere per le donne iraniane nello stato, nel sistema giudiziario e nel mercato del lavoro.
    • Difendiamo la libertà di organizzazione delle donne e del popolo iraniano contro l’autoritarismo.
    • Ripudiamo tutte le repressioni del governo iraniano e dei suoi agenti di rappresaglia, che hanno già ucciso centinaia di manifestanti e oppositori.
    • Per le donne, per la vita, per la libertà.

    Abbasso la Repubblica Islamica!

    Nessun Mullah o Scià!

    Libertà per i prigionieri politici!

    Per sottoscrivere l’appello, riempire questo formulario (in portoghese, inglese e castigliano)

    Prime Firmatarie

    Organizzazioni

    • Juntas! do Brasil
    • Nuevo Perú de Perú
    • Coordinadora Socialista Revolucionaria (CSR) de México
    • Union syndicale Solidaires, dalla Francia
    • Emancipa Mulher do Brasil
    • Rete europea di solidarietà con l’Ucraina (ENSU) – Femminista
    • Movimento Pretas do Brasil
    • Resistência Feminista do Brasil
    • Ukraina-Solidaritet dalla Svezia
    • Insubmissas de Portugal
    • Donne della Corrente Socialista de Trabalhadoras e Trabalhadores (CST) di PSOL/Brasil
    • Unidade Internacional de Trabalhadoras e Trabalhadores | Quarta Internacional (UIT-QI)

    Indivuali

    • Vivi Reis, deputada federal do PSOL/Brasil
    • Stéfanie Prezioso MP Ensemble à Gauche, dalla Svizzera
    • Sâmia Bomfim, deputata federale del PSOL/Brasile
    • Fernanda Melchionna, deputada federal do PSOL/Brasil
    • Luana Alves, responsabile di São Paulo, di PSOL/Brasil
    • Riki Van Boeschoten, professore emerito di antropologia sociale, Università della Tessaglia, Grecia
    • Evelyn Capchi, Segretaria nazionale dell’organizzazione Nuevo Perú
    • Helena Hirata, Diretora de Pesquisa Emérita do Centre National de Recherche Scientifique (CNRS) dalla Francia
    • Catherine Samary, economista, membro del Consiglio scientifico dell’Attac francese
    • Luciana Genro, deputada estadual do Rio Grande do Sul, do PSOL/Brasil
    • Monica Seixas
    • Najara Costa
    • Leticia Chagas
    • Ana Laura
    • Karina Corrêa
    • Poliana Nascimento e Rose Soares, co-deputate estaduais de São Paulo, do PSOL/Brasil
    • Daniela Mussi, professoressa di Scienza politica dell’Università Federale di Rio de Janeiro, in Brasile
    • Brid Smith TD per la gente prima del profitto dall’Irlanda
    • Juliana Gomes Curvelo, direttrice di Osasco com a AtivOz, presso PSOL/Brasile
    • Mariana Conti, responsabile di Campinas per PSOL/Brasile
    • Sonia Mitralia, illustratrice greca
    • Joan McKiernan, attivista statunitense
    • Elsa Galerand, Professoressa di Sociologia, UQÀM, Canada
    • Meghan Keane. attivista dagli Stati Uniti
    • Karen Yamanaka, attivista giapponese
    • Jess Spear, RISE e Persone prima del profitto
    • Aude Spang, Unione sindacale Unia dalla Svizzera
    • Renata Cambra, del Movimento Alternativa Socialista del Portogallo
    • Béatrice Brérot, poetessa francese
  • Kollontaj, Aleksandra Michajlovna

    Kollontaj, Aleksandra Michajlovna

    Aleksandra Kollontaj, nacque a San Pietroburgo, il 31 marzo 1872, figlia di un generale zarista e di una rampolla di un’importante famiglia borghese finlandese.

    Affascinata dalle lotte operaie, in particolare quelle delle operaie tessili, comincia ad interessarsi alle questioni sociali. Per sottrarla a queste influenze, la famiglia la invia nel 1896 in Svizzera a studiare, dove però conosce il marxismo e aderisce con convinzione al movimento socialdemocratico. Non condivide la scissione tra menscevichi e bolscevichi, anche se, per non restare isolata, finisce per aderire alla frazione menscevica, polemizzando con la scelta bolscevica di boicottare nel 1906 le elezioni della Duma.

    Nel frattempo era tornata in Russia nel 1903, dove si era separata dal cugino Vladimir Kollontaj, che aveva sposato e dal quale aveva avuto un figlio, Michail.

    Per anni si dedicò attivamente, usando le sue capacità oratorie e di scrittrice, all’opera di agitazione e di propaganda tra i lavoratori e soprattutto le lavoratrici sia in Russia, sia nell’esilio. Ebbe un importante ruolo nella discussione della socialdemocrazia internazionale sulla questione femminile, sostenendo un’impostazione classista, in contrapposizione al suffragismo allora dominante nel movimento femminile.

    Costretta alla clandestinità e poi, nel 1908, di nuovo all’esilio, riesce a rientrare in Russia solo nel marzo 1917.

    Nel 1914, avendo ritenuto molto grave la scelta della maggioranza dei partiti socialdemocratici di aderire alla guerra imperialista dei propri paesi, aveva abbandona i menscevichi e aderito alla frazione bolscevica, nel cui comitato centrale venne eletta nell’agosto 1917.

    Nel dibattito interno ai bolscevichi, dopo la rivoluzione di febbraio, sostiene con convinzione, fin dal primo momento, le tesi di Lenin e poi la sua proposta di insurrezione, in polemica con Zinov’ev et Kamenev.

    All’indomani della conquista del potere, viene nominata Commissaria del popolo all’Assistenza e alla sanità pubblica, carica che lascerà quasi subito, nel marzo 1918, assieme al posto nel Comitato centrale, a causa della sua posizione apertamente critica nei confronti della pace di Brest-Litovsk e per la sua adesione alla corrente dei “comunisti di sinistra”. E’ stata, comunque, la prima donna nella storia del mondo moderno ad assumere un incarico equiparabile a quello di ministro.

    In quei pochi mesi, sovraintese alla distribuzione ai contadini delle terre dei monasteri, e poi alla creazione di asili nido statali per i figli delle lavoratrici e all’introduzione della tutela delle donne lavoratrici durante la gestazione e il puerperio e partecipò alla redazione di tutta la legislazione sociale della nascente Russia sovietica. Nei suoi articoli, difese il “libero amore”, convinta c’era che il matrimonio fosse un’istituzione repressiva, fondata sull’ineguaglianza tra i sessi e sullo sfruttamento della donna, di ostacolo alla realizzazione di una società effettivamente libera.

    Fondò lo Żenotdel (“Reparto delle donne”), un’organizzazione finalizzata al miglioramento della vita delle donne, per la lotta all’analfabetismo e per la tutela del reale diritto di voto attivo e passivo, per la parità salariale con gli uomini, per il diritto di divorzio. Lo Żenotdel ottenne anche nel 1920 l’introduzione del diritto di aborto.

    Nel 1919, fondò con Aleksandr Šljapnikov e altri dirigenti bolscevichi, la frazione dell’Opposizione Operaia (Rabočaja opposicija), in difesa dell’indipendenza dei sindacati dal partito e dallo stato, per il rilancio della gestione dal basso dell’economia, contro la crescente burocratizzazione del partito e degli apparati statali. Successivamente, l’Opposizione operaia assunse una posizione critica anche nei confronti della NEP.

    Dopo la sconfitta della sua frazione e la morte di Lenin, sostanzialmente capitolò di fronte al prevalere della frazione di Stalin. Marcel Body, un comunista francese antistalinista che la conobbe, riferisce di una sua confidenza: “Non si può andare contro l’apparato” disse Aleksandra  “da parte mia, ho messo in un angolo della mia coscienza i miei principi e faccio, nel modo migliore possibile, quel che mi viene detto di fare”.

    Il nuovo leader, per liberarsi di una presenza comunque scomoda e, utilizzando la conoscenza della Kollontaj di numerose lingue, decise di inviarla all’estero come ambasciatrice, anche qui la prima donna al mondo ad esserlo. Fu in Messico, in Svezia e come rappresentante nella Società delle Nazioni. In questa attività ottenne il riconoscimento dell’URSS da parte della Norvegia, la restituzione dell’oro messo al sicuro da Kerensky nelle banche svedesi, e, nel 1944, l’armistizio con la Finlandia.

    Nel frattempo, la legislazione culturale e sociale ideata dalla Commissaria del popolo Kollontaj in patria veniva ignorata, stravolta o addirittura abrogata (come avvenne con il diritto di aborto, abolito da Stalin nel 1936). Ma Aleksandra Kollontaj fu una dei pochissimi bolscevichi a non essere liquidata fisicamente da Stalin e dal suo apparato.

    Morì, ottantenne, a Mosca il 9 marzo 1952.