di Andrea Martini
“Esserci per cambiare” è stato questo lo slogan centrale e il refrain del dibattito del 19° congresso nazionale della CISL, da qualche tempo diretto da Luigi Sbarra; sì, proprio quel burocrate assurto agli onori della cronaca grazie al servizio di Report che raccontava come circa 20 anni fa fosse stato assunto dall’ANAS, non per lavorare alla gestione del sistema stradale del paese, visto che era impiegato a tempo pieno presso la CISL Calabria, di cui all’epoca era segretario generale, ma solo per incrementare con versamenti figurativi il proprio montante previdenziale (cioè a carico della fiscalità generale).
“Esserci”: certamente la CISL c’è, è il secondo sindacato italiano dopo la CGIL; “per cambiare”: quando si dice di voler cambiare occorrerebbe sempre aggiungere in che direzione. E bisogna dire che Sbarra e la sua CISL sono molto chiari anche su questo:
“La Cisl, tutta, oggi è percepita ad ogni livello come sindacato della responsabilità e della partecipazione. Un fatto che ci consegna un compito storico. Quello di promuovere e conquistare nel Paese una governance dello sviluppo incentrata su una nuova cultura della corresponsabilità sociale. Una cultura che finalmente si sta facendo strada nel dibattito pubblico e politico. … La nostra organizzazione oggi è percepita ad ogni livello come il sindacato vero”.
Noi non sappiamo in che cosa e quanto effettivamente l’opinione delle lavoratrici e dei lavoratori percepisca l’immagine della CISL come quella del “sindacato vero”. Certo, così lo percepiscono i 4.076.033 lavoratrici, lavoratori e pensionate/i che hanno scelto di iscriversi a questa sigla (perlomeno secondo le cifre ufficiali fornite lo scorso anno dall’ufficio organizzativo della confederazione).
Se per tanta parte del mondo del lavoro la risposta al “bisogno di sindacato” è la “corresponsabilità sociale” di cui si fanno alfieri Luigi Sbarra e la CISL (cioè la collaborazione convergente di padroni e lavoratrici/tori nella risoluzione dei problemi sociali del paese) significa che fin troppi lavoratori del nostro paese ritengono neanche troppo metaforicamente che la soluzione dei problemi alimentari della savana andrebbe affrontata attraverso una corresponsabilità tra leoni e gazzelle.
E, purtroppo, questa constatazione non è troppo distante dal vero. L’arretramento della coscienza sociale in fette crescenti e ormai maggioritarie del mondo del lavoro, il ritenere che le drammatiche emergenze sociali che caratterizzano l’Italia e, ahimè tutto il mondo, non dipendano dalla struttura capitalistica ma da un destino cinico, baro e inesorabile, sono fenomeni dilaganti tra le lavoratrici e i lavoratori, certo, alimentati dal “pensiero unico”, dal mito della “centralità dell’impresa”.
E, soprattutto, grandissima parte di questo mondo del lavoro, anche di quello in qualche modo più legato agli apparati sindacali tradizionali, non ha alcuna illusione sul fatto che i sindacati possano svolgere una seppur timida opera di trasformazione progressista. Moltissimi ritengono che il sindacato strutturalmente non possa che aiutare il padronato a governare la struttura capitalistica, cercando al massimo di contenerne gli eccessi di voracità.
Dice Sbarra ai suoi congressisti: “dalla crisi si esce insieme (insieme ai padroni, ovviamente) o non si esce. E per stare insieme bisogna superare una volta per tutte le incrostazioni di un modello sindacale antagonista e massimalista”. Naturalmente, questa critica non è rivolta al sindacalismo di base o agli operai della GKN. No, è esplicitamente rivolta alle altre due confederazioni concertative, la CGIL e la UIL, dalle quali la CISL vorrebbe prendere le distanze.
Questa esplicita disponibilità collaborativa è stata subito colta da Mario Draghi, con il suo trionfale intervento al congresso, che ha detto che lo slogan “esserci per cambiare” vale anche per il suo governo, che c’è (ce ne siamo accorti), e che vuole cambiare, evidentemente imprimendo al paese un’ulteriore involuzione sociale, come ci indicano tutte le sue “riforme” (da quelle sulla “giustizia”, a quelle sul fisco, al decreto sulla “concorrenza” in discussione in queste settimane) e come ci dimostrano tutti gli indicatori che rivelano il crescere implacabile delle diseguaglianze, della povertà, della precarietà (lavorativa, abitativa, di vita, ecc.).
E la disponibilità della CISL è stata premiata anche dal presidente Carlo Bonomi, che l’altroieri all’assemblea della sua Confindustria ha fustigato CGIL e UIL, risparmiando diplomaticamente dalle sue critiche la confederazione di Luigi Sbarra.
I giornali di questi giorni hanno dato un certo spazio allo sgarbo fatto alla CISL da CGIL e UIL, le quali, per protestare per il non previsto intervento dei loro leader Landini e Bombardieri durante l’assemblea congressuale, hanno mandato a partecipare alla tavola rotonda di giovedì 26 due dirigenti di secondo piano.
E Sbarra rilancia: è dal dopo guerra, dalla scissione del 1948, che la CISL “ha sempre avuto ragione” e la CGIL torto (negli anni 50 quando ha collaborato con l’aggressione vallettiana e padronale, nel 1984 quando si è opposta al referendum in difesa dei punti della scala mobile, nei primi anni 2000 quando ha accettato le riforme di precarizzazione dei rapporti di lavoro, nel 2010 quando ha siglato con Marchionne il patto che ha messo la Fiom-CGIL fuori degli stabilimenti FIAT, ecc.). E ha ricordato che poi, sempre, seppure con anni di ritardo, la CGIL si è dovuta spostare sulle posizioni della CISL.
Effettivamente, anche qui Sbarra coglie maledettamente nel segno. La CGIL nei decenni ha sempre subito una pressione dal basso che le ha impedito di adottare esplicitamente e prontamente le stesse posizioni della CISL. Salvo adeguarsi progressivamente e inesorabilmente ad esse quando l’inazione della sua leadership ha deluso e disperso quella pressione di base.
Sbarra ha un bel denunciare il “massimalismo” di Landini e di Bombardieri. Ma sa bene di che pasta sia quel “massimalismo”. L’ha visto all’opera nell’inutile sciopero generale del 16 dicembre 2021. E soprattutto aveva potuto constatare la totale convergenza triconfederale del giugno 2021, quando tutta la triplice aveva accettato senza battere ciglio lo sblocco dei licenziamenti decretato da Draghi sotto la dettatura di Bonomi.
D’altra parte, le direzioni sindacali in una cosa sono certamente unite (come peraltro si fa spesso anche in politica), nel voler evitare con puntiglio ogni bilancio critico della propria azione.
Lavoratrici e lavoratori in Italia hanno conosciuto la più perversa dinamica delle proprie retribuzioni rispetto a tutti gli altri colleghi europei? L’Italia è in vetta alle classifiche quanto a infortuni gravi e mortali sul lavoro? La legge pensionistica italiana prevede l’età di pensionamento più alta d’Europa?
A seguire i dibattiti sindacali e ancor più i congressi e i consessi delle confederazioni, sembrerebbe che i sindacati non abbiano alcun ruolo e soprattutto alcuna responsabilità al proposito e che la loro azione abbia portato al mondo del lavoro italiano solo straordinari e strabilianti successi.
Questo perché, sempre più e in misura ormai largamente irrecuperabile, i sindacati confederali svolgono un’opera strutturalmente diversa da quella per la quale sarebbero teoricamente tenuti ad attenersi, e perfino il loro funzionamento è sempre più indipendente dal livello di consenso conquistato nei luoghi di lavoro.
La CISL ha solo il coraggio di dirlo più esplicitamente, mentre le altre due (CGIL e UIL) ancora combinano il comportarsi come lei ma, nello stesso tempo, raccontare e raccontarsi di essere diverse.