Francia. Di fronte all’ostilità popolare, Macron impone la rielezione

di Léon Crémieux, da alencontre.org, 28 aprile 2022

Macron ha vinto la propria scommessa e il 24 aprile ha superato di forza l’ostacolo delle elezioni presidenziali, ed è stato rieletto nonostante la profonda ostilità popolare.

Con il 58,46% dei voti espressi, più del 17% lo separa da Marine Le Pen.

Ma più del 34% dell’elettorato si è astenuto o ha votato a vuoto o in maniera non valida. Macron supera a malapena questa percentuale, dato che viene eletto solo con il 38,52% degli elettori registrati. È quindi il peggiore presidente eletto nelle undici elezioni della Quinta Repubblica (a parte il gollista Georges Pompidou, eletto con il 37% nel 1969. Il PCF, allora la principale forza di opposizione, chiese esplicitamente l’astensione).


Non solo Macron è stato eletto male, ma la metà dei suoi voti al secondo turno non sono in alcun modo un sostegno al suo risultato o al suo programma. Vengono da un voto di rifiuto per impedire l’elezione di Marine Le Pen, un’elezione che i sondaggi la sera del primo turno presentavano come una possibilità da prendere seriamente in considerazione. Macron ha giocato su questo rischio per 15 giorni, diventando il campione della lotta contro l’estrema destra, dichiarando sul programma della Le Pen: “è un programma razzista, che mira a dividere la società ed è molto brutale”. Con un cinismo senza limiti, lui e i suoi ministri si sono dati un’immagine opposta a quella della loro politica degli ultimi cinque anni, diventando improvvisamente oppositori radicali di una gestione violenta e autoritaria della società, offendendosi, per esempio, per le dichiarazioni della Le Pen contro il diritto delle donne musulmane di portare il velo in pubblico.

La maggior parte dei media mainstream ha giocato un ruolo identico nel demoniizzare di nuovo e improvvisamente il Rassemblement National-RN, “dimenticando” che essi stessi avevano banalizzato le idee e il programma dell’estrema destra, e sono stati largamente compiacenti per anni verso le idee di Le Pen o di Zemmour sulla sicurezza, l’Islam e l’immigrazione.

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Anche se il rischio di un’elezione della Le Pen si stava allontanando nei giorni precedenti il secondo turno, il risultato era comunque chiaro. Con 13,3 milioni di voti,il 24 aprile l’estrema destra ha ottenuto il suo miglior risultato in un’elezione presidenziale, con 2,6 milioni di voti in più rispetto al 2017, mentre Macron stesso ha perso quasi 2 milioni. Nel 2002, Jean-Marie Le Pen aveva creato un cataclisma con un punteggio ben inferiore a quello di sua figlia, 5,5 milioni di voti.

Ma “torcendo il braccio” di quella parte dell’elettorato di sinistra che ha votato per lui, Macron è riuscito nel suo obiettivo: assicurarsi uno scarto sufficiente con Marine Le Pen perché la sua vittoria sia indiscutibile e per evitare che il numero delle astensioni sia superiore a quello dei suoi stessi voti. Questo risultato estorto non può nascondere una realtà evidente: il voto per Emmanuel Macron al secondo turno, indipendentemente da coloro che lo hanno votato per bloccare Marine Le Pen, è chiaramente inclinato nella direzione di un voto borghese, di classe e di un voto “di sicurezza” da parte dei pensionati e degli strati più privilegiati della forza lavoro.

D’altra parte, l’ostilità verso Macron è largamente dominante nelle classi lavoratrici e l’estrema destra ha anche beneficiato di un risultato in cui la metà dei voti non viene da un’adesione al suo programma ma dal rifiuto di un secondo quinquennio di Macron. L’estrema destra si è messa in una posizione politica per sfruttare al massimo questo voto, cercando di trasformare il suo nuovo fallimento in un trampolino di lancio per le prossime elezioni, comprese quelle presidenziali del 2027. La mappa dei risultati elettorali mostra una maggioranza di voti Le Pen in 30 dipartimenti su 100, in particolare nelle regioni popolari del nord della Francia e della costa mediterranea. Con questa elezione, il partito di estrema destra è riuscito a fare ulteriori passi decisivi nel suo cammuffamento, grazie alla presenza della candidatura Zemmour, che ha potuto dare a Marine Le Pen l’immagine di un politico rispettabile, grazie all’odio nei confronti di Macron, che ha facilitato l’uso della scheda elettorale della Le Pen per “fare fuori Macron”.

Questa crescente banalizzazione è stata così forte da far crescere il “voto per Marine” nei quartieri popolari. L’aumento dei voti per Le Pen è derivato nelle ultime settimane anche dalla scottante questione del potere d’acquisto, e il progetto dichiarato da Macron durante la campagna di alzare l’età pensionabile a 65 anni ha ulteriormente esacerbato la rabbia. Marine Le Pen ha cercato durante la campagna del secondo turno di rivolgersi all’elettorato di Mélenchon come una priorità, cancellando il più possibile gli aspetti islamofobici e seuritari, le questioni di sicurezza, mettendo avanti le questioni sociali, in particolare quelle del potere d’acquisto e delle pensioni, cercando di fare del suo voto una sorta di voto di classe mal utilizzato.

Questo non ha avuto conseguenze in molte aree urbane, come nella regione di Parigi dove Mélenchon era arrivato davanti a Macron al primo turno, contando in particolare su dipartimenti popolari come Seine Saint Denis e Val de Marne. L’astensione non è aumentata al secondo turno e l’elettorato di Mélenchon è andato in gran parte a Macron che ha ottenuto il 73% dei voti. È stato lo stesso a Lille e Marsiglia.

Ma l’esempio opposto più spettacolare è nei dipartimenti francesi delle Antille, della Guyana o della Riunione. Lì, anche se l’astensione era nettamente maggioritaria in entrambi i turni, il voto anti-Macron è stato massiccio al primo turno, provocato dalla gestione della crisi sanitaria, dal movimento dei gilet gialli alla Réunion; e nelle Antille, dallo scandalo della distribuzione dell’acqua, dallo scandalo del pesticida clordecone, per non parlare delle diverse settimane di sciopero generale dello scorso autunno. La rabbia sociale è stata sinonimo di un voto di maggioranza per Mélenchon al primo turno. Al secondo turno, lo spostamento è stato quasi automatico verso il voto verso Le Pen.

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Macron inizia dunque il suo secondo mandato sedendosi sulle ceneri del PS e del Centrodestra-LR, ma sotto queste ceneri c’è un letto di brace sociale che lui stesso ha alimentato durante il suo primo mandato quinquennale e si troverà di fronte a due poli politici, uno di estrema destra, l’altro di una sinistra che si afferma come radicale e antiliberista. Ha ottenuto esattamente l’opposto di quello che aveva promesso il 7 maggio 2017, la sera della sua prima elezione: “Farò di tutto perché non ci sia più motivo di votare per gli estremi”. Cinque anni dopo, ha contribuito a smantellare ulteriormente la credibilità politica della socialdemocrazia e della destra gollista, ma soprattutto le sue politiche hanno esacerbato le tensioni sociali e accentuato le divisioni.

Su tutti i fronti, ci sono problemi urgenti e il bilancio del governo Macron è chiaro. La situazione è stata aggravata dalla pandemia nei quartieri popolari e nei comuni, con l’unica risposta delle leggi razziste e della violenza della polizia, l’aumento del costo della vita, i bassi salari, l’aumento della disuguaglianza, la precarizzazione dei contratti di lavoro e gli attacchi ai diritti dei disoccupati. Le uniche promesse di Macron per il suo secondo mandato sono nuovi attacchi alle pensioni, al sistema sanitario pubblico e al sistema educativo nazionale. Per imporre l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni, il ministro uscente dell’Economia, Bruno Le Maire, non esclude il ricorso all’articolo 49-3 della Costituzione (una sorta di voto di fiducia su un decreto presidenziale, ndt), che gli permetterebbe di aggirare il dibattito e il voto parlamentare.

Di fronte alla miseria del sistema sanitario, la pandemia e gli scandali apparsi negli ultimi mesi nelle EHPAD (le Residenze per anziani e disabili, ndt), dopo anni di carenze e chiusure di posti letto, rendono sempre più evidente la richiesta di apertura di posti letto negli ospedali, di assunzioni, di un sistema pubblico basato sui bisogni sanitari della popolazione. In un altro settore, la “convenzione civica sul clima”, peraltro organizzata da Macron nel 2019, ha visto il 90% delle sue raccomandazioni respinte e la Francia è stata condannata due volte per la sua inerzia nell’azione per la protezione climatica. Nessuna delle questioni sollevate dai Gilets jaunes è stata risolta e sono state addirittura aggravate dalla pandemia e dai recenti aumenti dei prezzi di cibo ed energia. I femminicidi, gli stupri e la violenza contro le donne, lungi dal diminuire, sono aumentati negli ultimi anni e molti nuovi drammi evidenziano la mancanza di risposta alle denunce, la passività di fronte ai criminali sessuali e la mancanza di protezione per le vittime.

Nonostante le forti mobilitazioni nelle Antille, l’unica risposta è stata una piroetta per promettere l’autonomia e nessuna risposta sulle questioni sociali urgenti, i risarcimenti richiesti per il clordecone, le questioni dell’acqua, i danni della crisi sanitaria. In Kanaky (la Nuova Caledonia francese, ndt), lo pseudo-referendum sull’indipendenza lascia aperta la questione del percorso verso la sovranità kanak. Allo stesso modo, in Corsica, ogni dialogo è stato interrotto con la maggioranza nazionalista. Quindi è lunga la lista dei motivi di rabbia prodotti dai governi di Macron. Tutte queste domande, rimaste senza risposta per molti anni, hanno logorato le basi sociali dei partiti tradizionali e ne hanno provocato la crisi. Una crisi accentuata da un sistema politico che concentra tutto il potere politico reale a livello nazionale. Questo sistema aumenta la rabbia contro i partiti che pretendono di gestire lo stato. Macron ha evitato di essere chiamato a rispondere delle proprie politiche liberali e autoritarie, laddove il PS e la LR, per politiche simili, sono stati totalmente schiacciati. Ma questa regua per Macron non durerà a lungo di fronte alla rabbia sociale.

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I prossimi passi politici saranno le elezioni legislative del 12 e 19 giugno, con l’elezione dei 577 deputati che formano l’Assemblea Nazionale, la camera legislativa a cui risponde il governo, nel sistema politico francese.

Anche se, grazie alla durata quinquennale sia del mandato presidenziale che della legislatura parlamentare, c’è un forte premio per il partito del presidente appena eletto, un premio che schiaccia le opposizioni, c’è la speranza che il particolare contesto di queste elezioni presidenziali cambi la situazione. In generale, le elezioni legislative hanno un tasso di astensione più alto delle elezioni presidenziali (più del 51% al primo turno cinque anni fa). L’elezione è un voto maggioritario a due turni, e occorre aver ottenuto al primo turno almeno il 12,5% degli elettori registrati per mantenersi in lizza al secondo turno. In pratica, con un tasso di astensione equivalente a quello del 2017, questo sbarramento al primo turno rappresenterebbe, in media, più del 25% dei voti espressi. Questo sistema porta ovviamente a una scrematura radicale e imporrebbe quindi grandi unioni elettorali per passare il primo turno. La massima probabilità è dunque una nuova maggioranza per il partito presidenziale, pur se respinta dalla stragrande maggioranza degli elettori, che imbavaglia tutto il dibattito politico per cinque anni e spinge in avanti il rullo compressore delle riforme liberali… a meno che le sei settimane che separano dal primo turno delle legislative sconvolgano questo scenario.

Ci sono molte questioni diverse in gioco in queste elezioni e molti chiarimenti avranno luogo solo nei prossimi giorni.

Ovviamente per Macron, la posta in gioco nelle elezioni legislative è quella di stabilire una maggioranza assoluta (oggi ha solo 267 deputati, anche se altri 79 deputati centristi partecipano alla maggioranza presidenziale), l’obiettivo è quello di raschiare il più possibile sui suoi margini, sulla destra gollista così come sul lato PS, per cercare di allargare la propria base con alleanze individuali. Anche se le elezioni legislative sono una continuazione delle elezioni presidenziali, il peso residuo a livello locale e regionale per il PS e la LR è un contrappeso rispetto ai risultati ottenuti nelle presidenziali dai dei loro candidati. Il PS, i repubblicani e i loro relativi rappresentanti eletti sono molto più presenti nelle istituzioni dipartimentali e regionali di quanto non lo sia En Marche (il movimento diretto da Mélenchon che si era presentato alle legislative di cinque anni fa, ndt): 685 consiglieri dipartimentali per il PS e 838 per LR, (e un numero equivalente per i consigli regionali), ben più dei 400 consiglieri dipartimentali e 118 consiglieri regionali di En Marche. Allo stesso modo, nelle città con più di 30.000 abitanti, ci sono 50 sindaci PS e affini, 99 LR e affini, e solo 3 di En Marche e affini.

La rete politica istituzionale è ancora appannaggio dei due vecchi partiti tradizionali, anche se il loro peso è crollato su scala nazionale. En Marche deve quindi fare uno sforzo, non avendo un’alleanza nazionale con il PS o la LR, ma cercando di basare il suo peso su personalità locali, poiché i deputati di En Marche hanno spesso l’immagine di eletti senza una rete locale. Macron vuole evitare una possibile mancanza di maggioranza assoluta.

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All’estrema destra, la linea è semplice. Non ci sarà nessuna alleanza tra il RN di Le Pen e Reconquest, il partito di Zemmour e Marion Maréchal. L’obiettivo di Marine Le Pen è addirittura quello di soffocare Zemmour imponendo, come nelle elezioni presidenziali, un voto utile al primo turno per garantire la presenza dell’estrema destra al secondo turno. Marine Le Pen è arrivata prima in 260 circoscrizioni legislative nelle elezioni presidenziali, e i primi sondaggi le danno un range da 75 a 100 deputati. Ma le elezioni non sono una stretta proiezione di voti nazionali. Presentando candidati ovunque, il RN non si illude di avere una maggioranza nell’Assemblea, ma d’altra punta a moltiplicare forse per dieci il suo numero di deputati, che sono solo otto nell’assemblea uscente. Inoltre, il finanziamento pubblico dei partiti politici (66 milioni di euro all’anno) è calcolato per metà sul numero di voti ricevuti nelle elezioni legislative, per metà sul numero di deputati eletti.

Per Zemmour come per Le Pen, la posta in gioco è anche finanziaria, dato che il 55% delle risorse dichiarate del RN provengono da finanziamenti pubblici (cioè 5 milioni di euro). Il RN intende trasformare la propria sconfitta presidenziale in un trampolino per le elezioni legislative e consolidarsi, nonostante la sua recente crisi. Anche il RN, come En Marche, ha una debole base istituzionale locale e conta sulle prossime elezioni per costruirsi, avendo come obiettivo le presidenziali del 2027 (forse con una quarta candidatura di Marine Le Pen). In ogni caso, chiudere la parentesi Zemmour è il suo obiettivo immediato. Quest’ultimo non ha prospettive per il momento, e ancor meno per le prossime elezioni.

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Per i repubblicani, la situazione è drammatica. La pressione non viene più dalla RN ma dalla maggioranza presidenziale. Nicolas Sarkozy, l’ultimo presidente LR eletto, vera “statue du commandeur” (una sorta di autorità suprema, basata su di un personaggio del “Dom Juan” di Molière, ndt) del partito gollista, ha chiaramente dimostrato la propria sfiducia nella campagna e nel candidato LR offrendo il suo appoggio esplicito a Macron. Non nasconde, come molti altri leader LR, il desiderio che i gollisti si integrino in un modo o nell’altro nella maggioranza presidenziale. I dirigenti del partito, divisi, vorrebbero cercare di salvare i loro scranni e l’esistenza del partito come partito indipendente, come hanno fatto nel 2017 quando avevano mantenuto poco più di cento deputati. Ma quest’anno questo numero sarà probabilmente dimezzato. Il risultato è quindi incerto. Così, il presidente del gruppo parlamentare, Damien Abad, sembra essere favorevole a far saltare la nave per unirsi a Macron oggi.

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Infine, la grande novità potrebbe venire dalla sinistra e dalla sinistra radicale. Tra i due turni delle elezioni presidenziali, la France Insoumise-LFI (l’organizzazione di Mélenchon) ha proposto un fronte comune per le elezioni legislative al PCF, al NPA e l’EELV (il partito dei verdi) per una presentazione unitaria intorno alle linee principali del programma “L’Avenir en commun”, il programma presentato da Jean-Luc Mélenchon, con l’obiettivo di una maggioranza dell’Unione Popolare all’Assemblea Nazionale che imponga Mélenchon come primo ministro.

Il PCF ha risposto positivamente, senza esprimere alcuna differenza con il quadro proposto dalla France insoumise. Per quanto riguarda EELV, la questione è più complessa. Il partito verde è fortemente indebitato, avendo ricevuto meno del 5% dei voti. Il partito sarà rimborsato per le spese di campagna sulla base di 800.000 euro e non per gli 8 milioni su cui ha costruito il proprio bilancio. La direzione ha deciso di “mettere in sicurezza la casa”, di aprire discussioni con la France insoumise (LFI), mentre il loro candidato Yannick Jadot ha evidenziato i suoi disaccordi con Mélenchon durante tutta la campagna sulla questione del rispetto del quadro istituzionale dell’Unione europea o sulla pensione a 60 anni. Inoltre, si sentono molte voci discordanti, lo stesso Yannick Jadot rifiuta la leadership di Mélenchon in questa unione. Nel merito, EELV si divide tra una linea chiaramente compatibile con il liberalismo sociale e una linea più radicale vicina alla France insoumise, rappresentata durante le primarie del partito da Sandrine Rousseau. Anche qui, le cose non sono chiuse, tutt’altro.

Una sorpresa è arrivata qualche giorno fa dal PS, che non era prevista nell’equazione proposta dalla France insoumise. Il 19 aprile, un Consiglio nazionale del partito, facendo il punto sul disastro finanziario e politico della candidatura di Anne Hidalgo (che ha ottenuto alle presidenziali solo l’1,75%), ha deciso a maggioranza di chiedere alla France insoumise di partecipare alla discussione per le elezioni legislative, nonostante il notevole disaccordo di Anne Hidalgo e di diversi dirigenti storici del partito. Mentre l’LFI aveva detto fino ad allora che l’accordo non poteva essere esteso ai social-liberali, Jean-Luc Mélenchon, due giorni dopo, si è dichiarato a favore di un’ampia alleanza, da Lutte ouvrière al PS. Manuel Bompard, portavoce della France insoumise (LFI) per questo negoziato ha tenuto a precisare, da questo sviluppo, che l’accordo implicherebbe per il PS di pronunciarsi per l’abrogazione della legge sul lavoro El Khomri (un cocktail di attacchi sociali ai diritti collettivi in azienda), imposta dal governo di François Hollande, il ritorno alla pensione a 60 anni e la cancellazione della riforma di Marisol Touraine sulle pensioni che, sempre sotto Hollande, ha introdotto la pensione a 62 anni e una riduzione delle prestazioni pensionistiche, e l’accettazione da parte del PS del progetto della Sesta Repubblica avanzato dal LFI, sfidando la Costituzione del 1958.

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Tutto sommato, queste discussioni intorno a un’Unione Popolare allargata, spinte da un reale slancio popolare intorno alla campagna di Mélenchon, mescolano dinamiche militanti con calcoli finanziari per salvare l’apparato e mantenere i gruppi parlamentari. La questione è sapere quale delle due dinamiche prevarrà sull’altra

Il NPA, fin dall’inizio, era a favore di un accordo che, basato sul programma de “l’Avenir en Commun”, poteva essere fatto solo con la rottura delle basi social-liberali del PS, e anche con una chiarificazione dell’EELV su questi assi. Ha anche detto che ogni partito dovrebbe mantenere la propria identità e che non dovrebbe esserci l’obbligo di partecipare e di essere solidali con un governo che potrebbe emergere da una maggioranza.

L’obiettivo elettorale di una maggioranza “dell’Unione Popolare” nell’assemblea impone sulla carta, in un mese, una mobilitazione militante locale eccezionale contro l’atonia abituale nelle elezioni legislative, tanto più che Mélenchon si è imposto solo in 105 circoscrizioni legislative su 577. In ogni caso, la posta in gioco politica è molto reale. Per la prima volta a sinistra, da molto tempo, appare la possibilità di costruire un fronte politico e sociale, un fronte di azione comune intorno ad assi politici e sociali di rottura con il liberalismo sociale, anche se il quadro è circoscritto alle elezioni legislative e quindi con una finalità puramente istituzionale. Il programma di Mélenchon e la costruzione della France Insoumise sono stati realizzati in esplicita rottura con il quinquennio 2012/2017 di François Hollande e la deriva social-liberale del PS.

Anche se il programma de “L’Avenir en commun” è prima di tutto un programma elettorale che l’Unione Popolare prevede di attuare ottenendo una maggioranza parlamentare, la polarizzazione politica delle ultime settimane solleva questioni che vanno oltre la scadenza di giugno, sulla scia delle lotte sociali degli ultimi anni. Perché la sfida potrebbe essere, su una scala più ampia, e andando oltre ciò che è stato fatto da France Insoumise con il “parlamento” dell’Unione Popolare (una sorta di “parlamento ombra” che durante la campagna presidenziale ha affiancato la France Insoumise, ndt), di creare un crogiolo politico e sociale che permetta la presenza e l’attività di un fronte d’azione militante nelle città e nei quartieri popolari. La sfida sarebbe quella di cambiare la situazione, in particolare di fronte all’estrema destra e alle derive reazionarie, permettendo agli assi della giustizia sociale, dei diritti sociali e democratici, della lotta contro l’esclusione e la discriminazione di imporsi nel dibattito pubblico intorno alle lotte sociali e nelle mobilitazioni che riuniscono correnti militanti attualmente frammentate. Un fronte comune per le elezioni legislative potrebbe quindi essere un trampolino di lancio per un tale progetto, a condizione naturalmente che la presenza del Partito Socialista non offuschi l’immagine di questo incontro e lo trasformi in un “minestrone elettorale” senza principi che è l’antitesi delle lotte sociali degli ultimi anni.

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Molti dei temi proposti dalla campagna France insoumise riecheggiano le posizioni e le richieste avanzate dall’NPA e da Philippe Poutou durante la sua campagna. Su altri punti, l’NPA sviluppa un programma anticapitalista che, ovviamente, va oltre e, soprattutto, lega questo programma alla necessità di mobilitazioni sociali, anche per raggiungere i più elementari obiettivi di giustizia sociale, così come la necessità di confrontarsi con il potere e le leve politiche a disposizione dei capitalisti.

Questa non è solo una questione di maggioranza parlamentare ed è in linea con l’esperienza storica di Syriza e di Podemos. Tuttavia, anche un accordo elettorale su alcuni punti chiave sarebbe un passo avanti concreto. Inoltre, se all’indomani del 19 giugno, un gruppo di fronte ampio intorno all’Unione Popolare raccogliesse anche solo 100, 50 o anche 30 deputati, la prospettiva che si porrebbe a tutti sarebbe quella della costruzione di questo fronte politico e sociale militante.

Molte cose saranno chiarite nei prossimi giorni, fino al 7 maggio come scadenza con una convenzione per lanciare la campagna. Molte correnti militanti sperano in un esito positivo di questo processo.