Questo testo vuole affrontare il tema della necessità ed urgenza di superare l’attuale fase socioeconomica globale nella prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo. Naturalmente il tema è complesso e richiede uno sforzo collettivo da parte delle soggettività politiche, sindacali, di movimento a livello internazionale. In questa sede si vogliono solo gettare delle coordinate utili per sviluppare il dibattito.
C’è sicuramente ampio consenso sulla drammaticità della situazione sociale e politica che stiamo attraversando. Ma, nella “sinistra radicale” manca invece una sufficiente consapevolezza del fallimento storico di tutto ciò che, negli scorsi decenni, si è autodefinito “sinistra”. E, di conseguenza, non c’è affatto la percezione di dover ridefinire i programmi e le strategie.
Invece, noi crediamo che avere coscienza di ciò sia la premessa necessaria (ovviamente non sufficiente) per una “ripartenza” che deve necessariamente innovare metodi, prospettive, forme dell’azione politica, adeguandola ai nuovi scenari che hanno stravolto la storia di questo secolo.
Assistiamo impotenti alla distruzione e all’eliminazione delle conquiste e dei diritti, tutti reinterpretati a favore delle élite e delle grandi imprese.
Potremmo perfino dire che la stessa categoria di “essere umano” viene riconfigurata in base al denaro che ciascuno possiede, al luogo in cui si è nati, al colore della propria pelle.
Cosicché il sistema universale di protezione dei diritti umani si trova in una fase di accelerata decomposizione. Ogni quattro secondi un essere umano muore di fame. Ogni giorno sette persone muoiono nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ogni undici minuti una ragazza o una donna viene uccisa da un familiare. Gli ultimi otto anni hanno registrato le temperature più alte degli ultimi secoli. Il lavoro minorile è potentemente riemerso anche nel “Nord del mondo”. Ovunque, la violenza contro le donne, contro gli attivisti ambientali e contro i difensori dei diritti umani è in aumento: in Colombia, nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati assassinati 55 leader sociali.
Tutto ciò viene presentato come “incidente” collaterale che non avrebbe nulla a che fare con il modello altrimenti trionfante, come errori che l’evoluzione dello sviluppo neoliberale correggerà, quando invece tutte queste tendenze si stanno espandendo in maniera pervasiva perché intrinsecamente necessarie al “modello capitalistico terminale”.
Le crisi interconnesse tra loro
Il pianeta intero sta attraversando una crisi multidimensionale che si intreccia con l’inasprirsi dell’offensiva capitalista.
Generalmente, si analizzano separatamente le diverse “crisi” che attraversano il pianeta: ecologica, economica, demografica, militare, democratica. Sarebbe, invece, più produttivo cogliere la radice di tutte le espressioni della “crisi complessiva”, cioè la sempre più evidente incapacità del modo di produzione capitalistico di continuare a reggere il sistema mondo.
Occorre dire che il capitalismo oggi, proprio per le sue molteplici e sempre più gravi crisi, non appare più agli occhi delle grandi masse un sistema sociale ed economico portatore di uno sviluppo culturale e sociale, per quanto disegualmente distribuito. Ma, paradossalmente, il capitalismo continua a raccogliere un consenso passivo e spesso regressivo proprio perché appare privo di qualunque alternativa.
Questa assenza di alternative è il suo principale strumento di conservazione, imposto sia grazie al collasso del “modello sovietico”, sia grazie al largo fallimento di tutte le principali correnti della sinistra “novecentesca”.
La tradizionale divisione dei paesi del mondo in due sfere di influenza con riferimenti economici sociali e politici diversi è finita con la caduta del muro, ma, invece di un nuovo ordine mondiale, si è prodotto un disordine crescente con l’emergere di potenze sub-regionali e super-regionali in competizione economica, politica e, in prospettiva, militare.
I conflitti si moltiplicano e si cronicizzano ed i protagonisti non sono solo gli stati, ma anche le fabbriche d’armi, le agenzie del capitalismo militare, mentre i “nuovi capitani di ventura” tendono ad assumere funzioni di gestione amministrativa.
La crisi economica non si deve misurare solo in termini di diminuzione complessiva del PIL e di aumento dell’inflazione, ma, più concretamente, in un aumento generalizzato delle disuguaglianze, un impoverimento progressivo delle classi medie e una crescente emarginazione dei diseredati, espulsi dal contesto del vivere civile.
Il disastro ecologico produce effetti disastrosi, alcuni previsti e prevedibili, altri inattesi: il sistema è definibile fisicamente con una dinamica non lineare, ma “caotica”. Il disastro ecologico non è solo relativo ai cambiamenti climatici, ma include elementi quali il consumo di suolo, l’inquinamento, l’estinzione di numerose specie, i disequilibri microbiotici con periodiche ripetizioni di pandemie delle quali è imprevedibile il tasso di letalità.
L’atteggiamento dei governi e dei centri di potere economico è passato prima dall’incredulità all’allarme per il dilagare di eventi e di fenomeni che stridevano platealmente con l’ideologia del capitalismo trionfante che risolve ogni male. Ora il ceto dominante cerca di adattarsi alla situazione e, ancora una volta, di trarre profitto dalla cosiddetta “riconversione ecologica”, che, in buona sostanza, altro non è che speculazione finanziaria sui presunti “meccanismi di compensazione”.
Parallelamente i trend demografici comportano incrementi insostenibili di alcune popolazioni e invecchiamento e decremento di altre, con i conseguenti, crescenti e inarrestabili fenomeni migratori, che riversano grandi masse da un territorio all’altro.
La drammaticità bruciante di impellenti esigenze primarie (fame, guerre, siccità, inondazioni, povertà, precarietà, mancanza di alloggio, ecc.) spingono le masse alla ricerca di “soluzioni concrete e immediate”, con la conseguenza di eludere ogni ricerca di possibili alternative di sistema e di indirizzare i consensi su personaggi ritenuti salvifici. Si diffondono pulsioni populiste, nazionaliste, integraliste.
La “privatocrazia”
Lo stato, come espressione della tutela degli interessi delle classi dominanti, di mediazione tra le diverse loro fazioni, ma anche di gestione del consenso sociale in forza dei dogmi neoliberali, tende sempre più a ritrarsi.
Nei “Trenta gloriosi” (1945-1975), governare significava spendere e amministrare direttamente. Nell’era neoliberista governare sempre più significa incentivare e coordinare una serie di attori privati (aziende, imprese sociali, istituzioni private) a cui si delegano funzioni un tempo cruciali nella politica pubblica: sanità, scuola, distribuzione dell’energia e dell’acqua, gestione delle comunicazioni, raccolta dei rifiuti, trasporti e sicurezza, asili nido e assistenza agli anziani e ai disabili…
Sappiamo bene che queste “liberalizzazioni” il più delle volte riproducono meccanismi di gestione privata monopolistica molto simile ai “vecchi” monopoli pubblici, con la differenza che ora sono in mano a privati, senza costituire affatto esempi di efficienza né di risparmio né di trasparenza gestionale. Hanno però il pregio di separare in modo visibile lo “stato” dagli strumenti con cui un tempo si gestiva il consenso di massa.
Inoltre la perdita di sovranità fiscale degli stati, dovuta a un movimento globale dei capitali sempre più massiccio ma anche incontrollato, sottrae un’altra importante funzione sociale agli apparati istituzionali, quella di una seppure parziale redistribuzione delle risorse.
Cosicché, la “privatocrazia” si è andata a sovrapporre alla “democrazia”, inducendo parti crescenti di opinione pubblica dal ritenere sempre meno rilevante la scelta della forza politica da cui farsi amministrare, visto che buona parte dei servizi sociali, almeno apparentemente, non dipendono più dalla politica.
Inoltre la spinta alla privatizzazione aiuta a spostare la gestione del consenso dalle clientele dei partiti politici (un tempo di massa) nelle mani dei “leader” (di vario colore) che possono così più agevolmente costruire i propri clan, i gigli magici, le cordate, le reti di relazioni interpersonali fatte di amicizie, scambio di favori, convergenza di interessi non sempre confessabili e spacciati come condivisione di progetti politici.
Il passaggio di tanti servizi ai privati fa sì che i politici di governo (nazionale o locale che sia) si deresponsabilizzano. La qualità, la quantità, la fruibilità di quei servizi non dipende più da loro.
Il disinteresse alla poltica
Tra le tante concause dell’astensionismo elettorale e del disinteresse di parti crescenti dei cittadini riguardo alla politica c’è dunque anche il fatto che i cittadini non vedono più lo stato come il fornitore prioritario dei beni essenziali; così smettono di interessarsi alle sue sorti e di partecipare più o meno attivamente alla politica.
E il rapporto dei leader con l’opinione pubblica e con l’elettorato diventa sempre più legato al loro “carisma” piuttosto che ai risultati concreti per le persone concrete. La politica diventa sempre più “marketing elettorale”, tanto più di fronte al pervasivo utilizzo dei social network.
Non a caso l’istituzione del Reddito di cittadinanza da parte del Movimento 5 Stelle è stata spudoratamente etichettata come un’operazione di “scambio elettorale”: per la politica neoliberale non deve più esserci alcuna relazione tra il voto, il consenso e gli interessi sociali.
Ulteriore prova della crescente “irrilevanza del consenso” nella gestione “democratica” della “cosa pubblica” è stata la decisione sfacciatamente antidemocratica di Emmanuel Macron di imporre nottetempo a un paese e persino ad un parlamento riottoso una riforma delle pensioni smaccatamente impopolare.
Nei decenni del dopoguerra la “democrazia” occidentale era esibita come “prova di superiorità” rispetto al “totalitarismo”. Il confronto propagandistico stridente esimeva le classi dominanti dal dover specificare le caratteristiche profonde della “democrazia”.
L’idea di politica, intesa come scelta cosciente tra progettualità alternative, è messa così da parte e l’autoritarismo, la repressione del dissenso, l’individualismo, la violenza, l’irrazionalità, il fascismo acquistano spazi sempre più vasti.
Naturalmente le crisi sconvolgono in maniera differente i singoli stati, ma i lineamenti essenziali si riproducono ovunque.
In questi contesti, la “personalizzazione leaderistica” della politica e l’assottigliamento sempre più visibile dello stato hanno messo in crisi gli strumenti novecenteschi della politica come i partiti, un tempo “organizzatori delle idee”.
E il “trionfo antidemocratico” del leaderismo si verifica anche nella totale mancanza di percorsi democratici dentro i partiti politici, tutti retti da un uomo (o da una donna) al comando.
Non essendoci più i centri di organizzazione territoriali, mancando il confronto e la discussione, l’afferenza politica è ridotta ai minimi termini ed è determinata nella capacità persuasiva del leader, da interessi di categoria, da vincoli clanici spesso malavitosi, dagli spazi di illegalità promessi.
Le conseguenze sulla sinistra
La proclamazione della politica come idealità complessiva e come affermazione di principi di giustizia e di interessi collettivi è dunque largamente messa fuori gioco in questo contesto.
Ma, soprattutto, sono divenute per niente credibili le strategie basate sui “piccoli passi”, riforma dopo riforma, sperando un giorno di “entrare nella cabina di comando”; le elezioni sono basate sull’affidamento al leader e al suo clan. Votare per un partito che è strutturalmente escluso dall’esercizio del potere risulta un esercizio testimoniale, ininfluente per le larghe masse, perché incapace di incidere sulla realtà sociale.
Il lento ma deciso avanzamento (o arretramento) elettorale che un tempo si verificava nei cicli elettorali non ha più senso; e ancor meno senso ha l’idea che dalla opposizione parlamentare si possano ottenere risultati sociali o, almeno, “limitare i danni”.
E non si tratta più solo del più volte richiamato “esaurimento dei margini di riformismo”. La crisi ecologica rende sempre meno plausibile una strategia che si basi su di un approccio espansivo e produttivistico che punti a dare di più ai ceti popolari non modificando le dimensioni delle diverse fette della torta ma auspicando una torta più grande. Non può essere la “crescita del PIL” a soddisfare anche solo in parte i bisogni popolari.
Il XX secolo è stato il secolo dell’affermarsi della politica, Il XXI è il secolo dell’esaurirsi della politica.
La cabina di comando è saldamente in mano al potere economico che indirizza le istituzioni e rende irrilevante l’esistenza dell’opposizione parlamentare, non concede spazi né tregua; se tentenna e sembra in crisi è solo per il permanere di interessi contrastanti all’interno dei diversi settori capitalistici, in concorrenza tra loro, ma uniti nell’aumentare sempre più lo sfruttamento dei lavoratori, nell’incrementare sempre più l’astio dei penultimi nei confronti degli ultimi.
La cosiddetta “sinistra di alternativa”, quella cioè che si schiera a sinistra del PD, critica la pratica compromissoria, sottolinea l’allontanamento dai modelli sociali della fase precedente, e si propone come alternativa istituzionale coerente con gli interessi delle classi subalterne. Ma lo fa con l’assillo della “presenza istituzionale”, una presenza considerata sia rivelatore veritiero del proprio radicamento sociale sia il più efficace strumento di azione a sostegno dei bisogni dei più. Ma si rimuovono le constatazioni che fin qui abbiamo cercato di indicare e, soprattutto, si evita di trarne lezioni e conseguenze.
La “democrazia istituzionale” è stata oggi praticamente annullata, via via con il maggioritario, con le soglie di sbarramento, con la diminuzione del numero degli eletti, con leggi elettorali diverse tra elezioni nazionali e locali, tra regione a regione, con l’uninominale, con una sempre più difficile raccolta di firme per presentare le liste. Questo processo di devastazione antidemocratica è tuttora in atto con i progetti di presidenzialismo e di autonomia differenziata. Tutto ciò ha potentemente contribuito all’allontanamento dal voto e dalle istituzioni.
La difesa degli spazi di agibilità politica è stata una battaglia mancata ed ora si spaccia per democrazia l’occupazione delle istituzioni da parte di una esigua minoranza degli elettori, peraltro sempre più trincerati nelle zone benestanti delle città. Dunque, inseguire le elezioni, inventandosi liste mediaticamente “accattivanti”, non può essere una strategia pagante per chi vuole tentare di opporsi al sistema. È necessario trovare una strategia alternativa.
Sicuramente non ci si può aggrappare alla ripetizione di vecchi schemi che al massimo può mettere insieme i militanti di classe dispersi nelle frantumazioni dei “movimenti”. Una strategia di trasformazione ha senso se riesce a parlare alle masse, a tutte le vittime del capitalismo, cioè alla grande maggioranza delle persone: lanciare messaggi semplici, apparentemente limitati, ma con un’intrinseca valenza anticapitalista; messaggi che accolgono le speranze, le aspettative, anche quelle inconsce, della gente.
Non si può rivendicare un inverosimile ampliamento del “benessere occidentale”, dei modelli di vita degli ultraricchi, ma il “buen vivir”, cioè la sicurezza e la tranquillità della vita, il riposo, lo svago: tutte parole d’ordine apparentemente minimali, ma incompatibili con l’attuale capitalismo e, al contrario, compatibili con l’ecosistema. Non i privilegi, non la scalata sociale, ma l’uguaglianza dei diritti, la sicurezza di non essere sopraffatti e di non sopraffare.
L’égalité della Rivoluzione francese è ancora attuale, come lo è la fraternité, cioè il vivere bene con gli altri, praticare interessi condivisi. La specie sapiens è una specie cooperativa e la lotta, lo sfruttamento, l’oppressione, lo scontro, la violenza non gli appartengono, ma sono strumenti delle classi dominanti e del capitale. Oggi fraternité significa antimilitarismo, antirazzismo, antiomofobia.
Quali possono essere gli strumenti per rivendicare e per conquistare questi obiettivi? Certamente non una lista elettorale, bensì le mobilitazioni di massa, l’intersezione dei movimenti sui vari obiettivi: il movimento dei lavoratori, i movimenti femministi, quelli per l’ambiente.
La tela da tessere è quella convergenza che deve tendere all’obiettivo della rivolta, obiettivo per ora lontano, che certamente al momento va solo prospettato, ma che non si costruisce senza dare una soluzione di fase.
Attualmente non esiste nessuno spazio di vera affermazione istituzionale. Non vogliamo qui negare la possibilità di presenza elettorale in assoluto, ma occorre essere consapevoli del fatto che questa presenza è uno strumento largamente impraticabile e che dunque il suo perseguimento, perlomeno nell’Italia di questa fase, è del tutto subordinato all’azione sui terreni sociali.
E tantomeno è possibile rivendicare come programma “la difesa e l’applicazione della Costituzione”, una Costituzione che, certo, nel 1948, risultava “la più bella del mondo”, una seppur illusoria “promessa di rivoluzione”, ma che oggi risulta ai più un feticcio residuale. La sinistra “costituzionalista” si aggrappa ad un testo che rappresenta senza alcun dubbio la cristallizzazione di rapporti di forza che oggi non esistono più.
Gli elettori sono perfettamente consapevoli del fatto che se l’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”) non è stato applicato negli anni 60 e 70, quando i rapporti di forza ne avrebbero aiutato la concretizzazione, risulta del tutto proclamatorio rivendicarne oggi l’applicazione.
E così gli elettori hanno anche massicciamente abbandonato (e non solo dal 25 settembre 2022) la “discriminante antifascista”, dopo che l’ “antifascismo di palazzo” aveva completamente scollegato il rifiuto del fascismo da ogni legame con il sociale.
Questo non significa affatto abbandonare le trincee della difesa di una costituzione, peraltro già ampiamente stravolta nella lettera e nella sostanza e che oggi si vuole ulteriormente e definitivamente storpiare con il presidenzialismo e con l’autonomia differenziata; né abbandonare le trincee dell’antifascismo, tanto più di fronte alla crescita planetaria dell’estrema destra. Ma significa che quei valori debbono essere sostenuti con parole d’ordine nuove, con collegamenti più evidenti agli interessi sociali e di classe in gioco.
Rivolta è imporre nuovi assetti istituzionali, ottenere una nuova assemblea costituente che riscriva le regole del gioco. Eventi simili si sono recentemente prodotti in alcuni paesi: paesi arabi, Africa, America latina; essi non hanno prodotto risultati stabili perché per vari motivi si sono arenati, non si sono collegati tra loro, hanno subito repressioni da forze militari che non erano state esautorate, e, soprattutto, non avevano prodotto avanzamenti della vita reale della gente.
Il “problema del partito” nel XXI secolo
È chiaro che accanto alle mobilitazioni sociali bisogna costruire l’organizzatore politico, senza il quale le rivolte si spengono o vengono spente. Questo è il compito che ci riguarda da vicino; compito estremamente difficile su cui dobbiamo sforzarci di elaborare; per il momento si possono delineare solo alcuni elementi.
Non c’è una ricetta universale sul partito rivoluzionario da applicare in ogni tempo ed ogni contesto; non è una fusione fredda da fare in un teatro romano in mezza giornata; non è l’unificazione di gruppi dirigenti residuali ai quali manca una base, ma che cercano una poltrona istituzionale; non è nucleo omogeneo per orientamento ideologico che decide di autodefinirsi partito.
Non può essere avulso dallo scontro sociale, ma si deve rapportare costantemente ad esso; deve darsi prioritariamente una proiezione esterna larga; deve avere il coraggio e la capacità di includere compagne e compagni con differenti disponibilità di tempo, con differenti capacità, differente grado di cultura, età e provenienza geografica; deve dare a tutti lo stesso spazio di discussione e di critica, deve chiedere ad ognuno non più di quanto ciascuno può e vuole dare; deve organizzarsi dal basso; deve avere coordinatori e non capi che devono essere sostituibili e sostituiti; deve usare preferenzialmente il metodo del consenso; deve riverificare costantemente le scelte; deve promuovere lo studio e l’approfondimento teorico; deve saper usare un approccio scientifico alle analisi.
Il partito a cui si deve pensare deve essere adeguato al contesto in cui viviamo, in cui è crollato ogni “modello” di società anticapitalista, si stanno progressivamente esaurendo le generazioni che hanno vissuto le lotte del XX secolo, le classi sociali sono segnate dalla globalizzazione e dalle migrazioni, ecc.
Occorre un partito che sappia anche avanzare un progetto di radicamento nelle classi popolari attraverso una strumentazione sindacale che non può essere quella che ha raccolto gli allori delle fasi storiche passate e che poi è riuscita a sperperarli. Dunque un partito che avanzi anche un progetto di ricostruzione sindacale paziente ma coraggioso al contempo.
Dal punto di vista organizzativo, nel definire il funzionamento del partito e la sua relazione con gli attivisti e i movimenti, occorre adottare una concezione materialista dell’organizzazione, dunque sapere che il lavoro in rete è all’ordine del giorno.
Questo era già in atto negli anni Novanta, quando gli zapatisti hanno adottato questo tipo di organizzazione.
Invece, la “sinistra radicale”, pur nelle sue variegate espressioni, continua a scimmiottare il modello del “partito di massa” di togliattiana memoria, pur se spacciato per “modello leninista”, con il “segretario generale”, la struttura piramidale degli organismi dirigenti, le sezioni (o i circoli) locali, totalmente svincolate da ogni radicamento nelle lotte sociali.
Ovviamente per il “partito”, cioè un’organizzazione politica di persone che la pensano sostanzialmente allo stesso modo, di persone che, come i comunisti del Manifesto, condividono determinate idee e vogliono promuoverle, una qualche forma di centralizzazione sarà necessaria, ma il grado qualitativamente più elevato di democrazia organizzativa reso possibile dalla tecnologia moderna deve applicarsi anche al partito.
Identificati gli assi portanti nella rivolta e lo strumento nel partito rivoluzionario, occorre indicare la prospettiva: la rivoluzione anticapitalista.
Questo, per il momento – e ancor più per questo testo – è, e resta solo, un titolo, tutto da definire, ma è comunque importante ribadire l’assoluta necessità di un processo di trasformazione del modo di produzione, di trasformazione delle istituzioni dello stato, del rapporto tra gli individui e dello stesso rapporto tra i popoli.
Ma per noi progettare il “mondo che verrà” non è affatto un compito prematuro, perché non si tratta di immaginare il mondo dei desideri di un’ipotetica umanità riscattata, ma il mondo della necessità di preservare dal disastro sociale ed ecologico la nostra casa, cioè il pianeta Terra.
La redazione di Rosa Rossa