Intervista a Aldo Bronzo
Nelle giornate tra il 16 e il 22 ottobre si è svolto a Pechino il ventesimo congresso del Partito comunista cinese. L’appuntamento solenne che si è svolto, come di prammatica, puntualmente dopo cinque anni dal precedente (18-24 ottobre 2017) si è tenuto “a porte chiuse” nella “Grande Sala del Popolo” che si affaccia sul lato occidentale di Piazza Tienanmen.
Il congresso si è concluso con l’inedito affidamento al presidente Xi JinPing di uno storico terzo mandato come segretario del Partito, consacrandolo così come il leader più potente del paese dopo Mao Zedong.
A questo avvenimento, il nostro sito ha già dedicato un articolo. Ma su di esso abbiamo voluto interpellare lo storico marxista rivoluzionario Aldo Bronzo, autore di numerose opere sulla Cina e sul comunismo cinese, tra cui segnaliamo la più recente, Le ombre del drago. Storia critica del comunismo in Cina, dalle origini ai giorni nostri, Red Star Press, 2016.
Quali conferme e quali novità sono state segnalate dal recente XX congresso del Partito comunista cinese?
Sostanzialmente, salvo la scontata conferma di Xi, il congresso no ha segnato nessuna decisione di rilievo (almeno tra quelle che si sono potute pubblicamente registrare anche attraverso la stampa specialistica). Dunque, il quadro politico di fondo che caratterizza da tempo la società cinese non ha registrato nessuna novità. In buona sostanza, ieri come oggi 1 miliardo e 450 milioni di persone non hanno accesso ai diritti politici, ma rimangono i destinatari passivi delle decisioni che si prendono ai vertici del regime, dove le varie consorterie regolano i conti dopo aver occupato i centri di potere che contano. Dopodiché il corpo sociale conoscerà la “linea giusta”, in attesa che nelle sedi opportune maturino nuovi equilibri e nuovi orientamenti di cui, manco a dirlo, tutti dovranno farsi carico.
La leadership di Xi Jinping sembra uscire dal congresso ulteriormente consolidata. Sembra che, in misura molto maggiore di quanto è accaduto con i suoi predecessori, Xi voglia persino rinnovare una sorta di “culto della personalità” del tipo di quello che aveva caratterizzato, comunque in un contesto profondamente diverso, la leadership di Mao.
La centralizzazione del potere quasi autocratica sancita al XX Congresso del PCC a favore di Xi Jinping ha probabilmente più valenze. In primo luogo Xi necessita di un potere forte che gli consenta di traghettare la Cina verso uno sviluppo centrato su “l’alta qualità” e “l’alta produttività” in luogo di quello sinora adottato, basato sugli investimenti di stato, lavoro a basso costo ed export. Una svolta di non facile attuazione che comporta un ridimensionamento di quelle frange dell’apparato più legate alle procedure sinora adottate. Quindi un potere “forte” in anticipo, per sgominare eventuali ostacoli alla “svolta” che viene valutata come imprescindibile. Ma c’è di più. Xi sa perfettamente come l’intera esperienza riformatrice avviata da Deng nel 1978 sembra progressivamente registrare una sorta di progressivo affievolimento: i tassi complessivi di crescita si riducono, il mercato immobiliare è crollato, le entrate fiscali dei governi locali continuano a contrarsi; le vendite al dettaglio si affievoliscono; la disoccupazione è in costante aumento. Di fronte all’accentuazione di fenomeni del genere è largamente prevedibile come avrà a determinarsi una contrazione di quel “patto non scritto” di cui ha parlato più di un osservatore occidentale, secondo cui il corpo sociale accettava di non vedersi riconoscere i più elementari diritti politici e rappresentativi in cambio di quel costante miglioramento delle condizioni di vita che la “riforma” aveva sinora in qualche modo assicurato. Ora tutto ciò rischia di andare in malora e allora il potere reagisce in anticipo, dandosi cioè un’ulteriore centralizzazione finalizzata all’occorrenza a fronteggiare eventuali manifestazione di dissensi ove lo sviluppo degli avvenimenti lo portasse a scontri politici e sociali interni per ora solo potenziali.
Anche alla luce degli ultimi avvenimenti e, ovviamente della guerra in Ucraina, quale ti sembra sia la collocazione che la Cina intende assumere nell’attuale panorama geopolitico?
La Cina deve effettivamente far fronte ad un’accentuata pressione americana, tanto sotto il profilo economico-commerciale – con il divieto del governo statunitense di esportare microchips più avanzati per impedire alla dirigenza cinese di portare avanti il suo salto tecnologico industriale e militare – , quanto da un punto di vista strettamente militare, per cui sono state consolidate alleanze non proprio amichevoli con tutta una serie di stati asiatici con una proiezione chiaramente anticinese. Per di più recentemente l’ammiraglio Davidson, nella sua qualità di comandante in capo del Comando Indo-Pacifico (che comprende la Cina e altri 35 paesi) non si è fatto pregare più di tanto per chiedere al Congresso degli Stati Uniti il finanziamento di oltre 35 miliardi di dollari in 5 anni per dare luogo alla costruzione attorno alla Cina di una cortina di missili e di sistemi satellitari di supporto. Il che ha indotto la leadership cinese a procedere ad un aumento delle spese militari, con conseguente contrazione di quelle destinate ai servizi.
Tuttavia, al tempo stesso, Xi e i suoi sanno perfettamente come la posizione di rilievo conquistata sui mercati internazionali per via del dinamismo messo a punto nei decenni precedenti richiede una sorta di stabilizzazione che non si concilia con l’andamento della guerra in Ucraina. Ne sortisce una sorta di ambivalenza per cui non ci si dissocia esplicitamente dalle sortite imperiali di Putin, mentre non si disdegna il tentativo di “normalizzare” lo stato dei rapporti con Biden e magari con altri paesi capitalisti avanzati.
La tensione con Taiwan, anche a causa di alcune iniziative di esponenti statunitensi, si è certamente acuita negli ultimi mesi. Quali pensi possano essere le iniziative cinesi nel periodo prossimo sul terreno? Ritieni che la soluzione “Una Cina, due sistemi” possa concretizzarsi anche alla luce di quanto è accaduto negli scorsi anni ad Hong Kong? E quanto consensopensi riscuota il progetto della riconquista di Taiwan all’interno dell’immenso corpo sociale della popolazione cinese?
La questione di Taiwan presenta aspetti estremamente contraddittori. In primo luogo non si può non riconoscere come la dirigenza pechinese abbia le sue ragioni, se è vero che la nascita del supposto stato taiwanese sia il prodotto di un’ingerenza americana che al termine del 2° conflitto mondiale portò l’establishment statunitense prima a sostenere l’offensiva del Kuomintang contro le zone controllate dai comunisti e poi, di fronte alla disfatta dei nazionalisti, a collocare le proprie portaerei in modo da evitare che i partigiani di Mao occupassero anche Taiwan. Un’ingerenza inaccettabile, anche se va riconosciuto come nell’isola taiwanese non si sia mai prodotta alcuna spinta politica da parte del corpo sociale intesa ad ottenere la “riunificazione della con la madrepatria”. E questo pure conta qualcosa.
Tuttavia la vicenda di Taiwan e le insistite sollecitazioni della dirigenza pechinese in favore del ritorno alla madrepatria della “provincia ribelle” deve rispondere, con ogni probabilità, a motivazioni più complesse. Infatti poiché, come si diceva innanzi, il processo riformatore mostra chiari sintomi di deterioramento e poiché tutto ciò rischia di dare luogo ad un peggioramento dei rapporti tra vertici del regime e grandi masse, è ampiamente probabile che Xi e i suoi suonino la grancassa dei valori dell’unità nazionale e agitino tematiche di tipo patriottico per cercare di ricompattare almeno in parte un corpo sociale dove il malessere e la delusione crescono di giorno in giorno, anche se per ora tutto rimane sotto traccia.