di Andrea Martini
Le condizioni del mondo del lavoro in Italia sono ben illustrate dalle cifre dell’Istat, dell’Eurostat, dell’INPS e di altri istituti di ricerca.
La crisi economico-sociale italiana è particolarmente drammatica: l’Italia è l’unico paese europeo a registrare salari più poveri di quanto non fossero 30 anni fa, le lavoratrici e i lavoratori al nero sono 3.200.000 e producono l’11,3% del PIL, la spaventosa inadeguatezza dei servizi sociali impedisce a milioni di persone, donne in particolare, di lavorare autonomamente, con il conseguente impoverimento delle famiglie. Non a caso le persone in condizione di “povertà assoluta”, cioè che non possono permettersi una vita accettabile, sono 6 milioni (dunque il 10% della popolazione). In Italia è in crescita inesorabile il fenomeno dei working poor, cioè delle lavoratrici e dei lavoratori in condizione di povertà nonostante abbiano un regolare lavoro, che è passato dal 9,7% del 2010 all’attuale 11,7%.
Il lavoro precario è in aumento esponenziale: il 54,7% dei lavoratori occupati ha un contratto a tempo determinato (con dati ancora più alti tra le donne e i giovani). Il tasso di disoccupazione è sceso di qualche decimo di punto solo perché l’11,8% delle persone in condizione di lavorare ha rinunciato a cercare un impiego e dunque non risulta più tra le/i “disoccupate/i”. E questo perché, nonostante le ridicole denunce dei padroni che dicono di non trovare lavoratori (a causa del reddito di cittadinanza), le cifre ci dicono che invece sono le domande di lavoro a restare insoddisfatte, nella misura del 22,8% (la seconda cifra più grande nella UE).
Le politiche di tutti i governi che si sono succeduti al potere negli ultimi decenni hanno penalizzato e umiliato ancora di più il mondo del lavoro, con leggi che lo hanno precarizzato (dal “pacchetto Treu” del 1997, alla “legge Biagi” del 2003), colpito nei diritti previdenziali (le innumerevoli “riforme” delle pensioni che hanno introdotto in Italia la più alta età di pensionamento a livello internazionale), in quelli salariali (con accordi contrattuali al ribasso e con la cancellazione, proprio 30 anni fa, di qualunque indicizzazione rispetto al costo della vita), in quelli normativi (legge a favore degli appalti, contro le tutele sul posto di lavoro e, prima fra tutti, con la cancellazione dell’articolo 18, con la legge Fornero e il Jobs Act).
Risultano perciò rivoltanti le lamentazioni e i propositi dei vari partiti che hanno governato nel corso degli anni quando denunciano (citiamo, uno fra tutti, il programma del Partito democratico di Enrico Letta) “gli incidenti sul lavoro, il lavoro precario, quello sommerso, le retribuzioni più basse d’Europa, le disuguaglianze” e vergognosamente ipocrita la sua rivendicazione di dare “centralità e dignità al lavoro” e di “istituire il salario minimo”.
Naturalmente, nessuna credibilità hanno le promesse del centrodestra che cita la “difesa del lavoro” in un capitolo del programma prevalentemente dedicato alle “imprese”: welfare aziendale, voucher, tutela del potere di acquisto delle famiglie (e le lavoratrici e i lavoratori single?) basata sulla riduzione del cuneo fiscale, sulle defiscalizzazioni e sulle decontribuzioni. Non va però dimenticata la proposta leghista di “quota 41” per l’uscita anticipata verso la pensione. Si tratta di una proposta politicamente insidiosa perché Cgil, Cisl e Uil, nella loro ricerca di un’alternativa concertativa alla Legge Fornero del 2011, hanno da tempo avanzato una proposta analoga, tanto che la Cisl (Cgil e Uil sono state più prudenti) ha salutato come positivo il progetto del partito di Salvini. Gli oppositori di quella proposta, tra i quali il PD, ferrei guardiani della politica di tagli a danno dei lavoratori, hanno obiettato che la norma riguarderebbe 800.000 lavoratori che potrebbero pensionarsi 1 o 2 anni prima, e che costerebbe allo stato almeno 18 miliardi in tre anni.
Il Movimento 5 Stelle, in queste elezioni, dopo l’ubriacatura grillina del “né di destra né di sinistra”, cerca di erodere consenso in particolare al PD e alla sinistra presentandosi come “progressista”. Perciò non sorprende, nel capitolo “Dalla parte dei lavoratori e del welfare, per una vita degna e senza precarietà” del suo programma, se in primo luogo rivendica le misure “sociali” a suo tempo adottate dai governi Conte 1 e 2: il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, il superbonus, l’opzione donna previdenziale, tutti da “perfezionare e rafforzare” e naturalmente rimuove le significative azioni “antisociali” e razziste di quegli stessi governi. Nel programma il M5S avanza parole d’ordine che prese a sé hanno una forte valenza di sinistra: il “salario minimo” (a 9 euro l’ora), il “divieto di stage e tirocini non pagati o sottopagati”, e la “sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”.
Ma, anche qui, l’avventatezza menzognera di questi slogan si rivela se ci ricordiamo quanto poco sia stato fatto quando il M5S godeva del 33% di consenso popolare e di rappresentanza parlamentare, conquistati anche promettendo la “cancellazione” del Jobs Act e della “Buona scuola”, salvo dimenticare tutti questi impegni non appena il movimento è arrivato nella “stanza dei bottoni”. Né va rimosso che comunque in questo stesso capitolo del programma il M5S avanza parole d’ordine che lo accomunano a tutti gli altri partiti liberali: “taglio del cuneo fiscale” e “cancellazione definitiva dell’IRAP”, “rottamazione e rateizzazione delle cartelle esattoriali”.
L’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana, com’era scontato, dedica alla questione del lavoro (e anche a quella ambientale, di cui ci occuperemo in altro articolo) un ampio capitolo nel quale propone la “riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”, il “salario minimo” (di 10 euro l’ora), la “reintroduzione delle causali per i contratti a termine”, la “clausola sociale” nei cambi di appalto, la “pensione a 62 anni o con 41 anni di contributi”, un automatismo di “riallineamento semestrale delle retribuzioni al costo della vita”, il “ripristino del divieto di licenziamento senza giusta causa”, reddito degno per “retribuire il lavoro di cura”, una “legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro”. Il capitolo si apre con la constatazione: “Da troppi anni in Italia il lavoro è offeso e maltrattato”. Ma la coalizione nella quale Fratoianni e Bonelli si sono collocati, rimuove totalmente che le “offese” e i “maltrattamenti” sono arrivati non solo da destra, ma anche, e per certi versi in particolare, dal centrosinistra, cioè dal PD. Cosa che basta da sola a dimostrare il carattere demagogico e fittizio di quel programma.
E veniamo al programma elettorale di Unione popolare, la coalizione capeggiata da Luigi De Magistris che riunisce le/i candidate/i di Rifondazione comunista, Potere al popolo, ManifestA e Dema. Anche il programma di UP dedica un capitolo al tema e lo intitola “Ricompensare e rispettare il lavoro”. Anche questo programma elenca una serie di obiettivi positivi, alcuni simili a quelli di altre forze politiche: “salario minimo legale di almeno 10 euro lordi l’ora da rivalutare annualmente”, “riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”. Sulle pensioni è il più coraggioso, indicando l’intento di riportare l’uscita dal lavoro ai 60 anni di età e ai 35 di contributi.
Si prefigge di rivedere le norme con le quali il 1° governo Prodi (1996-98) e i ministri Treu e Bassanini privatizzarono il servizio di collocamento affidandolo alle agenzie private. Si tratta qui di una proposta particolarmente audace e politicamente significativa, visto che quel governo era sorretto, seppure dall’esterno, anche dal Partito della rifondazione comunista.
Il programma di UP prevede inoltre di assumere 1 milione di persone nel pubblico impiego, “in particolare nella scuola e nella sanità, negli ispettorati del lavoro” e il “ripristino della responsabilità in solido del committente” per tutti gli appalti.
Solo un punto su cui obiettiamo. Sul mercato del lavoro, UP vuole rendere di nuovo “il contratto a tempo indeterminato la forma contrattuale standard”, abolendo “il Jobs Act e tutte le leggi che hanno incentivato la precarietà”. Ottimo intento. Ma a questo proposito indica come modello la legge spagnola sul diritto del lavoro proposta dalla vicepresidente del consiglio dei ministri PSOE-Podemos Yolanda Diaz (di Izquierda unida-PCE). Quella legge è stata adottata a dicembre dello scorso anno ed è basata sull’accordo concertativo e di “dialogo sociale” tra il governo, la Confindustria spagnola (CEOE) e i principali sindacati (Comisiones Obreras e UGT).
Nel paese c’erano state importanti mobilitazioni contro la “ley laboral” imposta dal precedente governo del Partido Popular (PP) e l’abrogazione della legge del governo di destra era divenuto un impegno elettorale sia del PSOE che di Unidas Podemos. La legge presentata da Yolanda Diaz si differenzia sicuramente da quella precedente perché si basa sul metodo “concertativo”, ma mantiene gli aspetti più odiosi delle norme del 2012. Non recupera i tagli salariali imposti dalla destra, né modifica significativamente le norme sui licenziamenti totalmente favorevoli alle imprese che possono continuare a effettuare licenziamenti collettivi unilateralmente con un’ampia gamma di pretesti da utilizzare. Non modifica in nulla le norme precedenti per quanto riguarda l’orario di lavoro, la flessibilità, il compenso per gli straordinari, il subappalto.
Naturalmente, i sindacati concertativi hanno sostenuto la legge che avevano contribuito a scrivere (assieme alla CEOE). Non altrettanto per le organizzazioni sindacali di classe che hanno descritto l’accordo come “imposto dai datori di lavoro per continuare con i licenziamenti di massa e gli accordi statali di miseria”, e “non rispondente alle rivendicazioni e alle richieste della classe operaia”.
L’organizzazione di sinistra Anticapitalistas ha dichiarato che “siamo di fronte all’accettazione del quadro neoliberale e della riforma del PP da parte dei partiti e degli agenti sociali che hanno annunciato di volerla abrogare” e chiede di “creare strutture di coordinamento e mobilitazione in tutto lo stato per respingere questo nuovo imbroglio contro la classe operaia”.
Ci spiace che il riferimento alla “reforma laboral Diaz”, fatta con l’intento di dare credibilità ad uno dei partiti europei che sono in relazione con i partiti italiani di Unione popolare, costituisca un neo in un programma che invece, come abbiamo cercato di illustrare, si distingue per positiva radicalità sociale.