Italia, le elezioni alla sinistra del centrosinistra

di Fabrizio Burattini

Ecco la terza e ultima parte dell’articolo sulla situazione italiana prima del 25 settembre pubblicato integralmente in francese sul sito alencontre.org. Questa come le altre due precedenti parti, al fine di pubblicarle per le/i lettrici/lettori italiane/i, sono state rimaneggiate in alcuni punti.
Qui si trova la prima parte “Italia, verso le elezioni del 25 settembre, il contesto e gli attori”
Qui si trova la seconda parte “Italia, a un mese dal voto”

Nell’analizzare la situazione elettorale alla sinistra del PD e della sua coalizione, è opportuno liberarsi subito degli equivoci che può comportare la sgangherata posizione del “Partito comunista” (PC), diretto dal “padre padrone” Marco Rizzo, passato senza imbarazzo dall’appoggio convinto ai governi di centrosinistra prima di Romano Prodi e poi di D’Alema (1998-99, sì, quello dei bombardamenti sulla ex-Jugoslavia), ad una posizione di “comunismo identitario” per approdare rapidamente ad un approccio dichiaratamente neostalinista e oggi sovranista e apertamente “putinista”. Questo PC ha promosso per le prossime elezioni (assieme all’altrettanto politicamente sgangherato Antonio Ingroia, allo staff della TV Byoblu e a una galassia di gruppuscoli sovranisti e “no-vax” anche di destra) la lista “Italia sovrana e popolare”.

Ma veniamo alle cose serie. In un panorama di smodata frammentazione della sinistra italiana, una frammentazione di cui i gruppi dirigenti delle principali formazioni portano per intero la responsabilità, molti il 9 luglio scorso hanno perciò salutato positivamente la costruzione di un nuovo cartello unitario in previsione della prova elettorale. Si trattava della presentazione di “Unione popolare”, frutto della convergenza di quattro soggetti. Tra questi spicca il Partito della Rifondazione comunista, che oggi non è che l’epigono di quel PRC che nel 2006 raccolse oltre 2.200.000 voti (quasi il 6%), ma che solo due anni dopo, a causa della sua fallimentare esperienza di alleanza governativa con il centrosinistra di Romano Prodi, dimezzò quel patrimonio di voti, nonostante fosse in coalizione con altre formazioni, e sparì, assieme a tutta la “sinistra radicale”, dal panorama istituzionale.

Gli altri soggetti che hanno dato vita ad Unione popolare, com’è noto, sono: Potere al Popolo, le quattro deputate transfughe del Movimento 5 Stelle che hanno costituito al parlamento il gruppo che ha assunto la denominazione “ManifestA” e, infine, l’evanescente organizzazione “Dema” che con questa sigla formalmente rimanda alle due “parole chiave programmatiche” di “DEMocrazia” e “Autonomia”, ma non riesce a nascondere l’implicito richiamo al cognome del suo indiscusso e indiscutibile leader Luigi DE MAgistris, che è arrivato ad assumere il ruolo di frontman di “Unione popolare” forte del 16% conquistato nelle recenti elezioni regionali in Calabria dell’ottobre 2021.

Le ambiguità programmatiche e l’impostazione verticistica di “Unione popolare”, peraltro esaltate dalla repentina precipitazione verso le elezioni anticipate a settembre, erano già evidenti nella sottolineatura programmatica della “difesa e applicazione” della Costituzione del 1948, cioè di quel compromesso di classe che i rapporti di forza nazionali e mondiali avevano imposto alla borghesia italiana ma che, nel nuovo quadro del “capitalismo del XXI secolo”, costituisce una pia illusione utopistica. Il documento di base è privo di riferimenti al lavoro e alla lotta tra le classi: anzi, lavoratrici e lavoratori vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano dei “ceti medi produttivi” (i professionisti, le “partite Iva”, i lavoratori autonomi), alludendo molto evidentemente al mondo delle piccole imprese; e perfino la sua dichiarata inclinazione ambientalista non sottolinea la sua incompatibilità con lo sviluppo capitalistico. Infine si indicano come modello i dieci discutibili anni nei quali De Magistris è stato sindaco di Napoli. 

Le ambiguità sono anche sul terreno dell’analisi della situazione sindacale dove, in Unione popolare, si confrontano due linee (quella “ecumenica” e sostanzialmente sterile del PRC, che si può leggere nella parte conclusiva della tesi 11 – “La classe conta” approvata dall’XI congresso, e quella strettamente legata alla autoreferenzialità dell’Unione sindacale di base), apparentemente contrapposte ma in realtà caratterizzate entrambe dall’assenza di ogni progettualità sul terreno della ricostruzione di un sindacato democratico, unitario, di massa e di lotta.

Come se non bastasse, le ambiguità della lista, sul terreno politico, si sono amplificate in maniera incontrollata quando tre delle quattro organizzazioni “fondatrici” di UP (Potere al Popolo ha espresso un parere fortemente critico a questo proposito) hanno auspicato la formazione di una coalizione con il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, riaccreditandone esplicitamente la natura ambientalista, di sinistra e di opposizione.

Poco importa che il M5S abbia ignorato l’invito proseguendo il suo percorso verso la riconquista di quella autonomia politica che le disinvolte alleanze elettorali avevano pesantemente offuscato. Il PRC e gli altri di UP ora criticano il M5S anche perché non ha accettato le profferte di intesa elettorale.

Il modello a cui “Unione popolare” vorrebbe ispirarsi è, ça va sans dire, quello francese della NUPES di Jean-Luc Mélenchon, sperando che Luigi De Magistris possa essere il “clone” italiano del politico d’Oltralpe. C’è una profonda diversità tra i due personaggi quanto a cultura politica e soprattutto a capacità di organizzazione. Si può più o meno concordare con l’impostazione politica e con quella metodologica con le quali Mélenchon è arrivato ai risultati di questi ultimi tempi, ma non si può negare che essi premiano una tenacia e una capacità progettuale in grado di incidere significativamente sulla situazione francese.

Ma, soprattutto, resta l’estrema differenza politico sociale tra la situazione francese e quella italiana, quest’ultima caratterizzata da una larga paralisi sociale (basti ricordare a questo proposito che i sindacati confederali hanno convocato negli ultimi 10 cruciali anni solo due giornate di sciopero generale, nel 2014 e nel 2021, entrambe testimoniali e simboliche perché proclamate dopo che i provvedimenti contro i quali si protestava erano già stati definitivamente approvati dal parlamento).

La sinistra italiana, nella sua larga maggioranza, soffre ormai da oltre un decennio di una formidabile sconnessione dalla realtà dei conflitti sociali, generalmente affidati alle diverse organizzazioni sindacali, a seconda delle preferenze politiche, a quelle confederali o a quelle “di base” o “conflittuali”. E si trova invischiata in un declino che appare sempre meno rovesciabile (nel 2006 le varie liste di sinistra raccolsero complessivamente 3.900.000 voti, nel 2008 scesero a 1.600.000, nel 2013 a 1.900.000, nel 2018 a 400.000, tanto più con un’impostazione esasperatamente elettoralista).

Ancora più a sinistra, il Partito comunista dei lavoratori, immediatamente dopo l’indizione delle elezioni, ha avanzato alla “sinistra di classe, anticapitalista e internazionalista” (identificata nel “Fronte Comunista”, in “Sinistra Anticapitalista”, in “Sinistra Classe Rivoluzione” e nella “Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria”) la proposta di formare un cartello elettorale. Ma tale proposta, tardiva (e dunque anch’essa elettoralistica) e inconfondibilmente segnata dall’impostazione di sfida settaria, non ha avuto alcuna risposta dagli ipotetici interlocutori.

Perciò, anche stavolta nelle ormai prossime elezioni, stante la configurazione “rosso bruna” di “Italia sovrana e popolare” di Marco Rizzo & Co., vista l’alleanza di Sinistra italiana e dei Verdi con il PD e con *Europa, e soprattutto vista l’impostazione non molto più che democratico radicale di Unione popolare, sarà assente una proposta anche minimamente coerente di alternativa di classe e radicalmente ambientalista e anticapitalista.

Non è ovviamente possibile prevedere quanto la lista UP potrà ottenere nelle elezioni del 25 settembre, né se sarà in grado di eleggere qualche parlamentare superando lo sbarramento del 3% previsto dalla legge elettorale. Ma è certo che UP non esprime nessun progetto ricompositivo per la sinistra italiana e che, soprattutto se il risultato non fosse soddisfacente, la coalizione tra il PRC e Potere al Popolo esploderà di nuovo per riproporre in tutta la sua autoreferenzialità la competizione tra i due gruppi dirigenti. 

Resta comunque che la lista di UP, per il piccolo ma significativo patrimonio di energie militanti che mobilita è l’unica proposta che si possa appoggiare, seppure in maniera considerevolmente critica, come peraltro deliberato anche da Sinistra Anticapitalista.

La prospettiva

Il contesto che si andrà a realizzare dopo il 25 settembre, purtroppo, con grande probabilità sarà quello di Silvio Berlusconi presidente del Senato (se non della Repubblica), Giorgia Meloni presidente del consiglio dei ministri e Matteo Salvini ministro dell’Interno, collocato lì per rilanciare la sua campagna razzista contro le/gli immigrate/i e contro le navi delle ONG che li salvano in mare. E questo si verificherà in un quadro di ulteriore divaricazione sociale, di revisione profonda se non di cancellazione del Reddito di cittadinanza, di tolleranza se non di incoraggiamento all’evasione fiscale, di maggiore impoverimento di ampi strati popolari e di pesante clima di rilegittimazione del razzismo e dell’egoismo sociale, con misure securitarie e repressive verso ogni lotta che sfugga al controllo delle classi dominanti, di cancellazione reazionaria di ogni inziativa sui diritti civili (LGBTQ+, eutanasia, ecc.) e, forse perfino, con il rischio di una rimessa in discussione della stessa legislazione sull’aborto.

La situazione dunque sarà ancora più difficile di quanto non lo sia già ora: si intreccerà la spinta ad un’indistinta alleanza “antidestra” attorno al PD, un po’ sul modello della grande mobilitazione “antiberlusconiana” che caratterizzò gli anni tra il 1994 e il 2011, con la contemporanea crescita delle sofferenze sociali e, forse e sperabilmente, anche dei conflitti. Tutte le forze antiliberiste prevedevano una radicalizzazione della situazione nel prossimo autunno, ma non si metteva ancora nel conto la precipitazione elettorale.

La  crisi economico-sociale italiana è particolarmente drammatica: l’Italia è l’unico paese europeo a registrare salari più poveri di quanto non fossero 30 anni fa, le lavoratrici e i lavoratori al nero sono 3.200.000 e producono l’11,3% del PIL, la spaventosa inadeguatezza dei servizi sociali impedisce a milioni di persone, donne in particolare, di lavorare autonomamente, con il conseguente impoverimento delle famiglie. Non a caso le persone in condizione di “povertà assoluta”, cioè che non possono permettersi una vita accettabile, sono 6 milioni (dunque il 10% della popolazione).

Risalta tra tutti i nodi quello della ulteriore perdita di potere d’acquisto provocata dalla nuova accelerazione dell’inflazione e dalla moderazione salariale che ha caratterizzato in modo crescente la politica dei sindacati maggioritari negli ultimi trent’anni (non a caso proprio in questi giorni ricorre l’infausto trentesimo anniversario della cancellazione della scala mobile dei salari decretata dopo l’accordo sindacale del 31 luglio 1992).

Ma sono diffuse nel paese le crisi industriali, tra le quali spicca l’ancora non risolta vertenza della GKN di Firenze, attorno alla quale si sono aggregate altre lotte contro la disoccupazione, le delocalizzazioni, le dismissioni, le ristrutturazioni. Proprio nelle settimane scorse in una vicenda di questo tipo è stata coinvolta anche la sede triestina della mumltinazionale finlandese Wartsila.

Ovviamente ricordando anche che il mese di ottobre è il mese della predisposizione della legge di bilancio per l’anno successivo e, dunque, il momento in cui il governo (un governo Meloni?) definirà la destinazione delle risorse.

La Cgil ha già indetto per l’8 e il 9 ottobre due giornate di mobilitazione per “sostenere le nostre proposte di fronte a qualsiasi governo sia chiamato ad insediarsi dopo il voto”, anche se le proposte, almeno per il momento, sono estremamente generiche e complessivamente moderate. Nel frattempo, l’offensiva antisindacale che aveva colpito il SiCobas e l’USB a Piacenza con una serie di arresti per “associazione a delinquere” per aver “cercato con azioni ricattatorie (il blocco dei cancelli) di acquisire per i propri aderenti (i lavoratori della logistica) condizioni salariali e normative migliorative” ha subito nel tribunale del riesame una positiva battuta d’arresto. Questo ha, forse, riaperto tra i sindacati confluttuali una nuova possibilità di interlocuzione e di azione unitaria.

Ma ci sono anche le emergenze climatiche e ecologiche, ampiamente testimoniate dalla torrida estate, dai diffusi incendi e dai fenomeni meteorologici estremi di cui il paese ha sofferto e sta soffrendo e su cui il movimento ambientalista giovanile “Friday For Future” ha già indetto una giornata di azione per il 23 settembre.

Sarà importante battersi, tanto più di fronte ad un governo esplicitamente reazionario, perché tutte queste ipotesi di iniziative si ricompongano in un unico filo e non risentano, come da tradizione, della impostazione minoritaria e frammentaria che ha colpevolmente contrassegnato le azioni di classe nel paese.