riceviamo e pubblichiamo, del Collettivo Ipazia di Napoli, da Facebook
La morte di Giulia Cecchettin, ultima (fino ad oggi) tra innumerevoli donne uccise da compagni, mariti, ex amanti oppure fratelli e padri, richiede una riflessione sulle radici che sono alla base del fenomeno del femminicidio e della violenza contro le donne, radici storico-culturali e sociali molteplici che hanno, tuttavia, una profonda interconnessione.
Astraendo dal singolo caso e dalle ipocrite affermazioni delle forze politiche e mediatiche dominanti, proviamo ad elencare qualche spunto tematico su cui è necessario sviluppare la nostra discussione:
I rapporti di potere, come carattere fondante della società capitalista, che permeano anche le relazioni affettive, vale a dire quelle che riguardano la sfera più intima e forse più fragile nella vita delle persone, facendone un terreno di esercizio di dominio padronale.
Il senso del possesso, inseparabile dall’esercizio di questo potere, e dall’ideologia che attribuisce valore agli individui solo se possiedono.
Il patriarcato, inteso come sistema di relazioni di dominazione ed oppressione delle donne, che il capitalismo ha assunto da società arcaiche ma che, dato il percorso di emancipazione e liberazione intrapreso dalle donne soprattutto a partire dall’ondata femminista degli anni Settanta, oggi è messo in crisi. Ne deriva uno smarrimento e una evidente fragilità di molti uomini, giovani e meno giovani, di fronte alla loro sensazione di perdita di potere e la loro strenue e vigliacca resistenza per non perderlo e mantenere il controllo proprietario sulle loro compagne, mogli, figlie.
La crisi del rapporto tradizionale uomo- donna, da quando le donne avanzano su tutti i fronti, mostrando di essere più forti, più attrezzate, più solide, anche forse a causa delle durezze dell’esperienza e dell’educazione storicamente diseguale, mentre molti maschi appaiono deboli, fragili, incapaci di tenere il passo, rispondono alla frustrazione con la violenza fisica che spesso sfocia in gesti estremi come l’omicidio di Giulia e di tante altre ma che, in maniera più frequente e meno appariscente, si manifesta come violenza verbale, psicologica, altrettanto dannosa e pericolosa, soprattutto perché spesso non viene percepita come tale.
L’idea che le relazioni tra gli individui debbano passare solo attraverso lo stereotipo eterosessuale, cioè l’idea di coppia maschio-femmina, spesso vissuta come relazione fortemente accentrata sulla coppia stessa e che rappresenta l’estensione a due di quello che è l’accentramento individualistico e isolazionistico in cui siamo spinti dall’atomismo della società in cui viviamo.
Il modo di riproduzione sociale del sistema capitalista, la base materiale su cui tutto questo si erge. Il capitalismo si serve del ruolo subalterno delle donne per conservare gli equilibri sociali, a partire dall’opera di quotidiana cura psico-fisica dei membri della famiglia, che struttura l’identità di uomini e donne facendo leva su una dedizione femminile spacciata per naturale ma in realtà instillata nelle donne fin dalla nascita. Questo meccanismo serve, inoltre, per risparmiare i costi di servizi gratuitamente forniti da un lavoro non riconosciuto come tale, e per la conseguente svalutazione della capacità di lavoro femminile anche sul mercato formale, dove tassi di occupazione e salari meno elevati per le donne sono una costante.
Tutti gli elementi citati costituiscono un mix capace di generare l’oppressione di genere, le diseguaglianze tra uomini e donne, i comportamenti violenti. La domanda che è logico porsi è : che fare?
La paradossale e inefficace risposta del governo in questi giorni, tra altri provvedimenti facciata, è stata quella di rinviare alla scuola il compito di svolgere una artificiosa “educazione ai sentimenti”, in un breve modulo didattico annuale che dovrebbe essere risolutivo per le problematiche di questo tipo! Ma una vera educazione a vivere le proprie relazioni con responsabilità e rispetto dell’altra o dell’altro passa attraverso una coscienza acquisita durante un lungo processo di formazione, in cui sicuramente la scuola è protagonista ma attraverso i mezzi, gli strumenti e i contenuti che le sono propri. Se si svilisce il compito della scuola, come si é fatto con le ultime controriforme, se la si fa oggetto di una trasformazione aziendalistica e autoritaria, come pretendere che metta una toppa su una lacerazione culturale e morale così profonda, che fa esplodere le potenzialità distruttive del sistema del patriarcato capitalista?
Per noi la risposta risiede nella lotta che le donne sono in grado di fare per un cambiamento sociale radicale. Ma per questo bisogna guardare oltre il velo delle ipocrisie e degli stereotipi: lo ha fatto la sorella di Giulia, lo hanno fatto le donne che sono scese in piazza per manifestare a Roma il 25 novembre e in molte altre città nei giorni precedenti e seguenti, dando vita a cortei, flash mob, iniziative diverse.
Un movimento che, tra l’altro, ha saputo cogliere il nesso tra la violenza contro le donne, inarrestabile qui da noi, e la violenza del genocidio in atto contro la popolazione palestinese, scatenata dal governo sionista. Le decine di bandiere per la Palestina chiedevano di smantellare le strutture che dappertutto nel mondo ingabbiano le donne e porre fine ai rapporti di dominio patriarcali e di classe, razzisti e imperialisti.