di Andrea Martini
Sono centinaia di migliaia le palestinesi e i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est (circa il 40% della popolazione di tutta la città), una città devastata dalla ultrasettantennale presenza sionista e dalla ultracinquantennale occupazione totale israeliana. Per farsene un’idea anche solo minima può essere utile visionare il video Divided Jerusalem messo in rete da Al Jazeera.
E’ particolarmente interessante conoscere la realtà del quartiere arabo sovraffollato di Silwan, da cui si ammira la cupola della moschea di al-Aqsa. In questo quartiere vivono 60.000 palestinesi, circondati dai coloni israeliani che stanno acquistando le case una per una, in modo legale, assistiti da ricche organizzazioni religiose ed estremiste che si avvalgono di prestanome. E’ in questo quartiere che qualche giorno fa un ragazzino palestinese tredicenne, Muhammad Aliwat, residente in questa parte della città occupata, ha ferito in un’imboscata due israeliani.
E solo un giorno prima, a Neve Yaacov, un insediamento israeliano a Gerusalemme Est, un giovane ventunenne palestinese, Khairy Alqam, aveva sparato contro dei coloni israeliani, uccidendone sette.
Ma il 26 gennaio, l’esercito israeliano aveva ucciso 10 palestinesi e feriti parecchie altre decine in un’operazione militare nel campo profughi di Jenin (dove vivono tra gli stenti, dal 1953, 23.000 palestinesi). Le vittime sono state prontamente definite “terroristi” (compresa una donna anziana di oltre 60 anni che si era affacciata alla finestra per vedere che cosa stesse succedendo). “Si sparava in tutte le direzioni, i soldati sparavano a tutto ciò che si muoveva, è stata una vera e propria macelleria”, ha detto alla France Press un testimone dell’attacco a Jenin.
In un’analoga e contemporanea operazione a Ramallah, è stato ucciso un altro giovane palestinese. Queste vittime palestinesi si sommano agli oltre 200 morti causati nel 2022 dall’esercito israeliano. I morti palestinesi nel primo mese del nuovo anno sono già oltre 30. All’attacco a Jenin ha fatto seguito un nutrito quanto sostanzialmente innocuo lancio di razzi da Gaza verso Israele e ben più micidiali attacchi aerei israeliani di rappresaglia.
La preoccupazione degli ipocriti
La violenza ha sollevato il timore di una nuova spirale di attacchi e dall’estero sono aumentati gli appelli alla “moderazione”. Questi inutili appelli provenienti dai governi occidentali risultano tanto più ipocriti in quanto si accompagnano con ben più sostanziosi impegni di appoggio totale al nuovo governo in carica di Benyamin Netanyahu.
Tutti, dal segretario dell’ONU Guterres, all’amministrazione Biden, alle autorità dell’Unione europea, perfino il capo della diplomazia russa Sergei Lavrov, si sono affrettati a dirsi “profondamente preoccupati per l’escalation di violenza”.
Evidentemente, a differenza di quel che accade in Ucraina, dove si distingue giustamente tra occupati e occupanti, questo criterio elementare non vale per la Palestina. Fa specie l’ipocrisia dell’ONU, che assiste da cinquant’anni impotente e complice alla totale inadempienza israeliana di fronte al diritto internazionale e alle stesse numerose risoluzioni della sua Assemblea generale e del suo stesso Consiglio di sicurezza. Israele è un paese che ne occupa un altro e, come tale, andrebbe condannato. Tanto più che, come ogni occupante, dichiara di voler stroncare sul nascere ogni accenno di resistenza, una resistenza che, come dichiara solennemente la “carta dell’ONU”, è un diritto di tutti i popoli, che, se necessario, legittima anche l’uso delle armi.
I nuovi fatti di violenza (Jenin, Ramallah, Gaza, e poi le azioni dei giovani palestinesi a Gerusalemme Est) non a caso arrivano subito dopo il nuovo insediamento al potere di Netanyahu e della sua alleanza con l’estrema destra. Infatti, gli appelli internazionali sono rimasti totalmente inascoltati da Israele che, anzi, ha ulteriormente inasprito la sua repressione antipalestinese.
Altro che moderazione
Il “gabinetto di sicurezza israeliano” ha revocato i diritti di sicurezza sociale delle “famiglie dei terroristi”, ai cui familiari sarà sottratta anche la carta di identità. Cosa che, in un territorio nel quale i posti di blocco per i palestinesi sono ad ogni angolo, equivale a rendere la vita letteralmente impossibile, cioè, “andatevene finché potete”. E’ stato preannunciato che agli israeliani verrà reso più facile l’ottenimento del porto d’armi. E chi lo possiede già è stato invitato a portare le armi sempre con sé, un vero e proprio invito a sparare sui palestinesi, soprattutto se giovani e visti fuori dei loro quartieri. Le famiglie dei due attentatori palestinesi, perfino quella del ragazzino che non ha ucciso nessuno, sono state sloggiate dalle loro case che sono state sigillate e che verranno immediatamente demolite. Fino ad ora la legislazione dell’occupante prevedeva la demolizione solo delle case di chi provocava la morte di israeliani e comunque dopo due gradi di processo. Questo tipo di punizione collettiva (colpire i familiari) costituisce una vera e propria azione di rappresaglia in violazione di tutte le convenzioni internazionali.
Le cause vere della violenza
Come porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est, da sempre capitale palestinese? Non si può denunciare una “spirale terribile” senza analizzarne le cause e senza la volontà di affrontarle. Perché è proprio l’occupazione israeliana che porta in sé questa violenza.
A partire dalla scorsa primavera Israele stava reprimendo un’incipiente insurrezione. L’esercito ha lanciato una vasta operazione per “eliminare” una nuova forma di resistenza armata: quella più giovane, che si colloca al di fuori dei partiti tradizionali e che si concentra in particolare nel nord della Cisgiordania, nella città vecchia di Nablus, nel campo profughi di Jenin e nei villaggi circostanti. Ogni volta che i soldati si presentano vengono accolti accolto dagli spari di giovani palestinesi armati. Allo stesso tempo, la mancanza di prospettive politiche in queste parti del territorio palestinese non aiuta: Già il 2022 (secondo i dati delle Nazioni unite) era stato l’anno più letale per i palestinesi in Cisgiordania dalla fine della seconda Intifada (2000-2005) e il 2023 sembra voler andare oltre. Secondo le Nazioni Unite, il 2022 e il 2023 non sembra destinato a invertire la tendenza, con circa trenta morti in un mese.
Nuove generazioni di palestinesi cercano la libertà da un’occupazione da sempre particolarmente feroce e che con il nuovo ennesimo governo ancor più di destra di Benyamin Netanyahu sta diventando ancor più spietata. Tutte le presunte soluzioni politiche finora prospettate dagli accordi di Oslo del 1995 in poi sono clamorosamente fallite e sempre per responsabilità di Israele, che, sempre più, non nasconde il suo fine vero, quello della espulsione dalla “grande Israele” di tutti i palestinesi.
Le vecchie organizzazioni, dalla storica Al Fatah, all’OLP,, ad Hamas, agli stessi partiti della sinistra palestinese legati a diversi regimi arabi del Medioriente, non convincono più, soprattutto tra i giovani. L’Autorità Palestinese di Abu Mazen, corrotta, indebolita e completamente screditata, ha perso il controllo da anni e sembra sopraffatta dalla situazione. Nuovi gruppi armati stanno emergendo, al di fuori di qualsiasi organizzazione esistente. E questi raggruppamenti sono sottoposti ad una duplice e convergente repressione israeliana e palestinese, ma sembrano ricevere un sostegno crescente da parte della popolazione.
Come ha dichiarato Mustafa Sheta, direttore del Teatro della Libertà di Jenin: “Si tratta di gruppi nuovi. Non sono legati ai partiti palestinesi, sono gruppi indipendenti. Sono il prodotto della loro misera condizione, sono senza speranza. Queste persone non credono più ai discorsi politici o alle promesse dei leader palestinesi. Molti di loro sono stati arrestati negli ultimi due anni. Ci sono stati molti feriti e assassinati, giovani! Così la nuova generazione, cresciuta con la rabbia contro Israele e l’occupazione, cerca di uscirne unendosi a nuovi gruppi militari. Sono pronti a combattere contro Israele e contro l’occupazione”.
I palestinesi di Gerusalemme Est (ma anche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) hanno festeggiato il “successo” dell’attacco a Neve Yaacov e la morte dei sette coloni israeliani con un concerto di clacson, petardi e fuochi d’artificio. La corrispondente dell’Agenzia France Press che ha intervistato alcuni palestinesi riporta la dichiarazione di una donna: “Mi deprime vedere che la nostra società è così ferita e spezzata che possiamo celebrare la morte in questo modo. Ma cosa ci si aspetta da un adolescente che ha vissuto tutta la sua vita sotto occupazione? Che porti dei fiori?”
Ognuno degli attentatori aveva una storia. Quello di Neve Yaacov aveva avuto il nonno trucidato da un israeliano, il tredicenne di Silwan è cresciuto in un quartiere sotto un regime coloniale ostile. O riemergerà un’ipotesi politica nuova e praticabile (ma ad oggi del tutto impensabile), oppure questa ondata si risolverà in un’esplosione di pura violenza.