di Gonzalo Fernández, Ortiz de Zárate e Juan Hernández Zubizarreta, ricercatori dell’Osservatorio delle multinazionali in America Latina (OMAL) – Pace con dignità, da elsaltodiario.com
“Una crisi come mai prima d’ora, fonte di potenziali disordini socio-economici nel 2023”. È questa la schietta caratterizzazione che David Beasley, direttore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale (PAM), fa delle attuali prospettive globali. L’Organizzazione meteorologica mondiale, da parte sua, segue la stessa linea di argomentazione quando avverte che “il cambiamento climatico si sta intensificando a velocità catastrofica”, la principale conclusione del suo recente rapporto presentato alla COP27 in Egitto. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che ha intitolato il suo ultimo aggiornamento sulle prospettive economiche globali “Prospettive cupe e incerte”, si discosta molto da questa diagnosi. Non lo fanno nemmeno la Banca Mondiale o l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese, che vede un “rischio reale di stagflazione”, ovvero una combinazione complessa e insolita di crescita economica fragile e inflazione.
In Europa, teatro diretto di una guerra di proiezione e portata internazionale, questo clima di incertezza, fragilità e tensioni crescenti è ancora più evidente. Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, osserva – o si vanta – che “la politica della forza è tornata”, mentre Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli affari economici, parla di “acque agitate” come metafora della situazione sociale del vecchio continente. Anche la Banca Centrale Europea (BCE) non nasconde più “la sua crescente preoccupazione per un’imminente recessione”.
Un’analisi condivisa ma non sulle cause
Questi titoli denotano ormai un certo consenso – anche istituzionale – sull’estrema gravità della situazione che stiamo vivendo. Questo consenso, tuttavia, svanisce quando si identificano le cause e i responsabili. Le élite economiche, politiche e mediatiche, determinate a difendere lo status quo da cui dipendono i loro privilegi, ci bombardano con un immaginario che colloca la guerra in Ucraina come la genesi di tutti i mali presenti e futuri, spacciando le conseguenze per cause e gettando le basi per future applicazioni della dottrina dello shock. In questo modo, evitano un’analisi completa delle dinamiche economiche, ambientali e geopolitiche attualmente in palese tensione – una tensione che precede la guerra in atto -, offrendo soluzioni parziali e/o tecnologiche a ciascun problema (digitalizzazione, capitalismo verde, atlantismo) come esca per evitare le profonde trasformazioni sistemiche di cui abbiamo bisogno oggi.
Di fronte a questo esercizio alienante dell’ideologia capitalista, molti organismi sociali e accademici da tempo collocano la radice dell’attuale profonda crisi nella tempesta perfetta in cui il capitalismo ci sta portando. Lo sviluppo del capitalismo si troverebbe così ad affrontare l’azione combinata e simultanea di quattro limiti strutturali (crescita stagnante, ultra-indebitamento, cambiamento climatico inarrestabile ed esaurimento dell’energia fossile, delle materie strategiche e del cibo), un vicolo cieco senza precedenti con conseguenze disastrose per gli ecosistemi, i popoli e la classe operaia, nonché la genesi di crescenti conflitti di ogni tipo, tra cui quello ucraino.
L’Unione europea, lungi dal raccogliere la sfida di affrontare la tempesta perfetta, ha contribuito e continua a contribuire alla sua gestazione, al suo sviluppo e al suo incancrenimento. La crescente tendenza bellicista e la sottomissione agli Stati Uniti nelle questioni geopolitiche, il carattere timoroso e favorevole al potere delle corporation dei suoi progetti economici, nonché il senso antagonista della sua agenda energetica verso una vera transizione eco-sociale, alimentano una pericolosa spirale in cui si intrecciano oscuri sabotaggi, smantellamento dei diritti, precarietà generalizzata, violenza e persino minacce nucleari.
È quindi necessario imporre, attraverso la mobilitazione sociale, un profondo cambiamento di direzione politica nel vecchio continente. Questo articolo mette quindi in guardia, in primo luogo, sul grado di sviluppo e sull’orizzonte futuro di una tempesta perfetta che continua a rafforzarsi. In secondo luogo, analizza criticamente il ruolo geopolitico, economico ed energetico che l’Unione Europea sta assumendo in questo contesto globale, proponendo infine alcune chiavi di lettura da cui, invece di alimentare la tempesta, possiamo cercare di disinnescarla.
La tempesta perfetta che non cessa
Iniziamo la nostra analisi dell’evoluzione della tempesta perfetta dai due vertici che definiscono la base fisica dell’azione del capitalismo: il cambiamento climatico, da un lato, e l’esaurimento dell’energia fossile, dei materiali strategici e del cibo, dall’altro.
Per quanto riguarda il cambiamento climatico, nonostante i richiami alla decarbonizzazione, continuiamo a raggiungere nuovi livelli record di emissioni di gas serra nell’atmosfera, anno dopo anno. Entro il 2022, la temperatura media globale sarà già di 1,15°C al di sopra della temperatura preindustriale, quando l’Accordo di Parigi aveva fissato l’1,5 come limite di riferimento prima che si innescassero cicli di retroazione dalle conseguenze terribili e imprevedibili. Secondo i recenti rapporti del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) e del Climate Action Tracker (CAT), se gli attuali modelli di sviluppo dovessero continuare, raggiungeremmo i 2,8°C entro la fine del secolo. Il fatto allarmante che l’Amazzonia, un tempo “polmone verde del pianeta”, sia ora in gran parte un emettitore netto di carbonio, è solo un segno della strada a senso unico che sembra stiamo percorrendo.
Nonostante ciò, la volontà politica della comunità internazionale di ridurre le emissioni in modo esplicito e vincolante, influenzando così la logica capitalistica di accumulazione e crescita su scala globale, continua a essere nulla. La COP27 tenutasi in Egitto ne è solo l’ultima conferma: qualsiasi impegno a ridurre le emissioni viene evitato a tutti i costi, mentre la creazione di un vago fondo – ancora privo di risorse finanziarie o di un quadro d’azione – per aiutare i paesi più vulnerabili ad affrontare il cambiamento climatico viene venduta come un successo.
Di conseguenza, si profilano all’orizzonte impatti significativi in termini di acidificazione degli oceani, degrado del territorio, proliferazione di disastri, spostamenti ambientali, scioglimento accelerato dei ghiacci e rilascio di metano negli oceani e così via. Gli impatti che sono già evidenti nel 2022: l’estate più calda mai registrata in Europa, le inondazioni in Pakistan e in India, la siccità in Kenya, Somalia, Etiopia e negli Stati Uniti occidentali, o l’aumento di 10 millimetri del livello del mare rispetto allo scenario di riferimento del 2020, sono solo alcuni esempi.
Combustibili fossili e materiali strategici
Il secondo limite fisico del sistema attuale è l’esaurimento dell’energia fossile, dei materiali strategici e del cibo. Se la crescita capitalistica e l’aumento del consumo di questi elementi sono storicamente inestricabili, oggi il capitalismo deve affrontare la sfida di crescere con una base energetica e materiale esplicitamente più ridotta.
Per quanto riguarda il petrolio – il grande egemone dell’attuale matrice energetica – dopo aver superato il suo picco, sta subendo un graduale processo di disinvestimento. Uno studio della compagnia transnazionale saudita Aramco va in questa direzione, prevedendo una riduzione del 30% della produzione globale nei prossimi otto anni. Sebbene lo scioglimento dei ghiacci artici e le condizioni favorevoli che potrebbero crearsi in presenza di prezzi fluttuanti che assumono la forma di “denti di sega” potrebbero attenuare questo processo, esso sembra essere irreversibile. Il gas, da parte sua, seguirà la stessa evoluzione, anche se un po’ più lentamente, raggiungendo il suo picco nel decennio in corso. Nel frattempo, il carbone potrebbe avere un orizzonte temporale più lungo ed è tornato alla ribalta, soprattutto in Germania e in Cina che, di fronte all’impennata dei prezzi del gas, ne stanno facendo nuovamente un uso massiccio, nonostante il suo impatto esponenziale in termini di cambiamento climatico.
Questo orizzonte di breve e medio termine per i combustibili fossili è tutt’altro che banale, se si considera che queste tre fonti energetiche, insieme al nucleare – anche l’uranio è in declino, la sua estrazione è diminuita del 20% dal 2016 – rappresentano il 90% dell’energia primaria su scala globale. Se combiniamo questo dato con un altro che indica che solo circa il 20% del consumo finale di energia è sotto forma di elettricità, possiamo concludere che per quanto si possa progredire in termini di elettrificazione, anche attraverso le fonti rinnovabili, sarà impossibile colmare il vuoto lasciato da petrolio e gas senza ridurre i consumi. Un vero e proprio missile contro la linea di galleggiamento dell’accumulazione capitalista.
In ogni caso, questo paradossale rapporto tra esigenze capitalistiche e limiti fisici non si limita all’energia fossile, ma estende il suo raggio d’azione all’estrazione dei metalli, come giustamente sottolinea l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). Il capitalismo verde e digitale, che oggi è diventato un falso immaginario di disputa con la tempesta perfetta, sta sviluppando una pratica predatoria di materiali molto diversi (litio, cobalto, rame, nichel, zirconio, wolframio, terre rare, ecc.), che hanno già raggiunto il loro zenit o sono vicini ad esso. Accanto al canto delle sirene della decarbonizzazione, anche quello della dematerializzazione dell’economia attraverso la digitalizzazione cade sotto il suo stesso peso. Per fare un esempio, l’AIE ha sottolineato che il litio, elemento chiave per la produzione di batterie elettriche di ogni tipo, potrebbe scarseggiare già nel 2025, se l’attuale tasso di crescita della domanda dovesse continuare.
Ma anche la produzione alimentare sta mostrando segni di esaurimento, a causa degli effetti combinati del cambiamento climatico, del modello agroindustriale e della carenza di fertilizzanti. Tutto questo, ovviamente, è aggravato dalla guerra tra Ucraina e Russia, che sono i “granai del mondo” e i principali produttori di questi fertilizzanti chimici. Se a questo progressivo impoverimento si aggiunge l’aumento dei prezzi causato dalla natura speculativa dei mercati alimentari, si ottiene un quadro davvero critico, che è sostenuto non solo dal direttore del PAM con la frase che ha aperto questo articolo, ma anche dalla Banca Mondiale, quando afferma che questo aumento avrà un “effetto devastante sulle famiglie più povere”. L’Associazione Internazionale dei Fertilizzanti, nel frattempo, sostiene che già nel 2022 ci sarà una “chiara probabilità di carenza di alcuni fertilizzanti”.
Sempre meno opzioni a disposizione del capitalismo
In breve, la tempesta perfetta sta limitando sempre più il “quadro del possibile” per il sistema capitalista, portandolo in un vicolo cieco: crescere di più con meno risorse – cosa che non si è mai verificata nella sua storia – in un contesto di crescente vulnerabilità climatica. Se è vero che si tratta di tendenze ecologiche che si proiettano nel medio e lungo periodo, è anche vero che stanno già avendo un impatto diretto nel breve periodo in termini di degrado, scarsità e aumento dei prezzi.
Uno dei principali fattori che incidono sull’attuale inflazione galoppante, come analizzeremo più avanti, è direttamente collegato all’esaurimento di energia, materiali e alimenti, con un effetto integrale sull’economia e sulla società nel suo complesso. Se Jason W. Moore aveva già messo in guardia sull’incapacità del capitalismo di riprodursi senza un quadro di abbondanza e di prezzi bassi per la manodopera, l’energia, le materie prime e il cibo (“i quattro economici”), oggi si trova chiaramente di fronte a un momento più che critico.
Completiamo la nostra analisi della tempesta perfetta affrontando i suoi due capisaldi economici: la crescita stagnante e l’ultraindebitamento. Oltre al fatto che il quadro ecologico rende la crescita una chimera come tendenza, le dinamiche stesse dell’accumulazione capitalistica – il principale segno distintivo del sistema, ricordiamolo – hanno da tempo lanciato un campanello d’allarme. Non hanno mai più raggiunto i tassi di crescita dei gloriosi anni Trenta del secolo scorso, mentre la Banca Mondiale sostiene che “nel quinquennio 2020-2024, la crescita tendenziale del periodo 2010-2019 si è ridotta del 20%”. Ora, in un contesto di guerra, ci sono, come abbiamo già sottolineato, segnali di recessione.
Un contesto di previsioni pessimistiche
In questo senso, tutte le prospettive elaborate dalle organizzazioni multilaterali (FMI, BM, OCSE, BCE, ECLAC) sono notevolmente pessimistiche. In misura crescente, come si può vedere, man mano che i dati vengono aggiornati. A corollario di tutto ciò, segnaliamo la conclusione del FMI, secondo cui “un terzo dell’economia mondiale entrerà presto in recessione”, in un quadro di crescita praticamente nulla per tutte le regioni del pianeta nel 2023 (con l’eccezione della Cina, anche se a un ritmo più lento rispetto ai decenni precedenti).
La digitalizzazione, la grande speranza capitalista, non ha mostrato alcuna capacità di generare una nuova ondata espansiva che, basata su solidi e generalizzati aumenti di produttività, desse luogo a incrementi dei tassi di profitto, investimento, consumo e occupazione. Al contrario, come sottolinea Michael Roberts (economista marxista britannico, ndt), “la crescita della produttività sta decelerando verso lo zero nelle principali economie da più di due decenni, e in particolare nella lunga depressione dal 2010“.
Un’inflazione innescata dall’offerta
Inoltre, questi magri risultati economici si scontrano con un’inflazione elevata, dando origine al fenomeno della stagflazione. Stiamo parlando di un’inflazione fondamentalmente dal lato dell’offerta – tranne in parte nel caso degli Stati Uniti – causata da diversi fattori intrecciati tra loro: il già citato esaurimento delle risorse come logica tendenziale, il mantenimento generalizzato dei margini di profitto delle imprese, la natura speculativa, autoregolata ed erratica di una parte fondamentale dei mercati a termine in cui si decidono i prezzi dell’energia, delle materie prime e dei prodotti alimentari, nonché l’impatto della guerra. Il risultato è un aumento dei prezzi sostenuto nel tempo, che raggiunge il 10,6% nell’Eurozona e non scende sotto l’8% negli Stati Uniti e in America Latina, mentre il 9% è la media stimata per i paesi membri dell’OCSE. Si tratta quindi di un fenomeno molto consistente, che incide ancora di più sull’incertezza nell’effettuare gli investimenti – nonostante l’evidente precarietà dei salari, che non vengono aggiornati al ritmo dell’inflazione – e, di conseguenza, sulla dinamica dell’accumulazione di capitale.
Proprio per questo motivo, e nonostante non sia generalmente il prodotto di un eccesso di domanda, le principali autorità monetarie hanno iniziato una spirale di aumenti dei tassi di interesse come arma per combattere l’inflazione, aumentando ulteriormente la possibilità di recessione attraverso il “raffreddamento dell’economia”. La Federal Reserve (Fed) statunitense ha alzato i tassi al 3,75-4%, mentre la BCE ha finora aumentato i tassi al 2%, spingendo l’Euribor verso il 3%. Il dogma neoliberista prevale ancora una volta: “C’è sempre il rischio di andare troppo lontano o di non fare abbastanza, ma soprattutto c’è la paura di non rispettare il giuramento di tenere i prezzi sotto controllo”, afferma Jerome Powell, presidente della Fed.
Il tornado dell’indebitamento
Il risultato di questo processo, al di là di un effetto diretto in termini di precarietà del lavoro, è un’ulteriore torsione dell’orizzonte della recessione e, soprattutto, un colpo al quarto vertice della tempesta perfetta: l’ultraindebitamento di famiglie, imprese e stati. Se finora il languido futuro del capitalismo è stato sostenuto dalla respirazione assistita del debito a basso costo, la spirale ancora incompiuta dell’aumento del costo del debito minaccia seriamente la fragile stabilità finanziaria globale.
Si tenga presente: che il debito globale sfiora i 300 mila miliardi di dollari (3 volte e mezzo il PIL mondiale); che il debito pubblico è aumentato del 7,8% nel 2022 rispetto al 2021, come risultato dei programmi di ripresa, raggiungendo i 65 mila miliardi; che, secondo Roberts, “la nuova recessione sarà causata dal crollo dell’enorme debito delle imprese”; e che una parte significativa dei consumi della già precaria classe operaia è sostenuta dal debito. L’instabilità, quindi, è una conclusione scontata.
Su questa linea, si stanno già verificando i primi casi di default (Sri Lanka, Libano, Suriname, Zambia), mentre altri paesi stanno chiedendo “aiuti” al FMI (Pakistan e Bangladesh) e molti altri stanno affrontando gravi problemi finanziari (Cile, Polonia, India, Filippine, Thailandia, Egitto, Ghana, Tunisia). Le trombe dell’austerità, quindi, cominciano a squillare, e i paesi citati sono solo l’inizio. A sua volta, la proliferazione di “società zombie” (quelle in grado di pagare solo gli interessi sul proprio debito) minaccia seriamente l’economia globale, date le loro dimensioni e l’interdipendenza dell’economia. Infine, i rischi di scoppio di bolle, come quella generata nel 2008 dai mutui subprime negli Stati Uniti, aumentano esponenzialmente nel quadro di un sistema finanziario sproporzionato e deregolamentato.
Una tempesta senza via d’uscita
In breve, il capitalismo ci sta portando in una tempesta perfetta di disoccupazione, deindustrializzazione, recessione, insostenibilità, instabilità finanziaria e precarietà diffusa. La sua versione attuale, più fredda, più verde e più digitale, non fa che alimentare questa tempesta. Non c’è via d’uscita, quindi, all’interno di un sistema che favorisce il cambiamento climatico, esaurisce le scarse risorse strategiche senza controllo democratico, amplia il quadro della disoccupazione – molto rilevanti i licenziamenti già programmati nelle aziende tecnologiche -, impoverisce la classe operaia e aumenta il numero degli affamati a 828 milioni.
Il tentativo di affrontare uno dei vertici della tempesta perfetta dai segni di identità del capitalismo aggrava la situazione degli altri vertici, ponendo così le basi che impediscono qualsiasi progresso in questo tentativo parziale. Una vera e propria aporia, un problema senza soluzione.
Ciononostante, la determinazione a mantenere l’accumulazione del capitale come premessa indiscutibile, i mercati globali come scenario prioritario, le imprese transnazionali come protagoniste e i megaprogetti come strumento fondamentale di azione, approfondisce la logica del rafforzamento dell’impunità delle imprese e dello smantellamento dei diritti collettivi. La tempesta perfetta e il crescente autoritarismo, quindi, vanno immancabilmente di pari passo.
Così, da un lato, la protezione degli interessi aziendali continua ad approfondirsi attraverso la proliferazione di trattati commerciali e di investimento, lo sviluppo di nuove figure giuridiche “di emergenza” che limitano il controllo pubblico e l’analisi dell’impatto ambientale, nonché lo sviluppo di formule come la “dovuta diligenza” (vedi qui la relativa risoluzione del parlamento europeo), che cercano di impedire la regolamentazione democratica delle azioni delle grandi imprese.
In modo complementare, i diritti umani stanno subendo un quintuplice processo di decomposizione:
- deregolamentazione di massa, con la precarietà che diventa parte costitutiva dei loro nuclei centrali;
- espropriazione delle maggioranze sociali e dei popoli attraverso l’offensiva delle corporation sopra descritta;
- reinterpretazione di essi a partire dagli interessi delle élite politico-economiche, ponendo la proprietà privata e la speculazione all’apice dell’ordine normativo;
- zonizzazione, con la divisione in zone, che significa che i popoli e gli individui sono imprigionati, chiusi e isolati, nel contesto di un confinamento strutturale di parte della popolazione;
- e infine la distruzione, attraverso la guerra, la militarizzazione, il razzismo, il patriarcato e la xenofobia legale.
Insomma, una corazza politico-giuridica autoritaria, che accompagna un’offensiva economica senza via d’uscita. Questo è l’orizzonte che ci offre un capitalismo nel labirinto della sua tempesta perfetta.
L’UE, un agente attivo nella tempesta perfetta
Il ruolo dell’Unione Europea nella gestazione e nello sviluppo della tempesta perfetta è stato e continua ad essere fondamentale. È innegabile la sua partecipazione alla promozione dell’agenda neoliberista per oltre tre decenni, nonché al consolidamento di uno scacchiere internazionale sempre più infuocato (anche in Ucraina).
Partendo da questa responsabilità storica, passiamo ora ad analizzare le sue politiche degli ultimi tre anni, concentrandoci in particolare su tre aree complementari di particolare rilevanza: geopolitica, macroeconomia ed energia.
La sottomissione ai dettami degli Stati Uniti – quindi della NATO – e la crescente tendenza guerrafondaia sono le caratteristiche principali della sua azione geopolitica. Invece di usare il suo potere economico (il più grande mercato del mondo) e geostrategico (parte dell’Eurasia, un territorio chiave nell’attualissima teoria di Mackinder) per diventare l’ago della bilancia nella disputa per l’egemonia tra Stati Uniti e Cina, l’UE si è schierata. È diventata così complice di una strategia statunitense che mira a sostenere il proprio ruolo imperiale ad ogni costo, fomentando qualsiasi conflitto necessario per isolare l’Est e proteggere l’atlantismo europeo. L’Ucraina, in questo senso, sarebbe un conflitto condizionato da questa strategia.
La guerra, con il sostegno dell’UE, si impone così sulla ricerca della pace, l’unilateralismo sulla pretesa di un mondo multipolare. La narrazione della guerra spiega le sue ali e si impadronisce del dibattito politico. In questo modo, analisi semplici e dicotomiche della realtà, otto cicli di sanzioni contro la Russia – ora considerata uno “Stato terrorista” – di dubbio impatto ed efficacia, bilanci per la “difesa” che raddoppiano si intrecciano in una pericolosa spirale militarista, l’addestramento di truppe e la vendita di armi pesanti all’Ucraina, un grave e poco chiaro sabotaggio del Nord Stream – anche se tutto fa pensare agli Stati Uniti e/o ai suoi alleati -, l’individuazione della Cina – il principale partner economico dell’Europa – come “sfida strategica”, minacce più o meno velate di attacco nucleare, ecc.
Di fronte alla scelta di porre fine a questa deriva e di imporre un percorso diplomatico risoluto, essa ha deciso di assumere il deplorevole ruolo di “utile idiota” degli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti rafforzano la loro posizione internazionale ed espandono i mercati per la loro industria militare ed energetica – vendendo gas liquefatto all’UE per sostituire il gas russo – è la popolazione europea a sperimentare l’impatto del conflitto in modo esponenziale.
Le priorità della UE restano quelle di sempre
Passando alla sfera macroeconomica, è proprio la supremazia degli interessi del potere aziendale sui diritti dei cittadini ad essere il leitmotiv della politica dell’UE. Sebbene i fondi per la ripresa (NGEU) e la sospensione temporanea del Patto di Stabilità e Crescita siano stati pubblicizzati come una svolta neokeynesiana dal dogmatismo neoliberista, in realtà si trattava di misure direttamente collegate al salvataggio delle grandi imprese europee colpite dalla tempesta perfetta, nonché dal loro ritardo rispetto alle imprese cinesi e statunitensi nelle principali nicchie del capitalismo verde e digitale.
Questa mutazione nell’acquisizione corporativa delle istituzioni continentali non ha quindi alterato le priorità, come stiamo già osservando: si dà priorità alla lotta all’inflazione – anche se questa ha origine nell’offerta e non nella domanda – aumentando i tassi di interesse anche a rischio di approfondire l’orizzonte della recessione; si annuncia una revisione della politica fiscale che riporti nel medio termine ai limiti del deficit (3%) e del debito pubblico (60%), in un quadro di riforme dettate dalla Commissione e dal Consiglio; si assumono come premesse l’aumento delle spese militari e il pagamento di un debito colossale, ingrassato dal sostegno pubblico alle grandi imprese, così come la natura speculativa della politica monetaria di espansione quantitativa; si rafforzano le alleanze tra pubblico e corporation per lo sviluppo di megaprogetti, un vero e proprio tappeto rosso per le imprese transnazionali; viene impedito qualsiasi anche minimo accenno di attacco ai loro privilegi (controllo dei prezzi, stop ai mercati oligopolistici marginali, fine dei paradisi fiscali), tranne forse la timida e ancora discutibile tassa sugli “extraprofitti caduti dal cielo” delle società energetiche; e si insiste su riforme dannose per la classe operaia (lavoro, pensioni), attraverso il ricatto della negoziazione dei fondi europei.
In breve, la sostanza dell’agenda capitalista è rimasta invariata, sebbene in un nuovo quadro che rafforza il ruolo dello stato nella logica dell’accumulazione, nonché in un contesto politico di riequilibrio della correlazione di forze tra “falchi”, PIGS e paesi dell’Est.
Un futuro peggiore del presente
La società europea si trova quindi già ad affrontare una situazione di inflazione galoppante, tassi di interesse in crescita vertiginosa e un’economia paralizzata. Ma le prospettive sono ancora più oscure, sull’orlo di una recessione – con le sue conseguenze in termini di deindustrializzazione, disoccupazione e austerità – e di fronte a uno scenario di carenza energetica a partire dal 2023, quando le attuali riserve di gas saranno esaurite, nel contesto di una guerra proiettata sul lungo periodo; in un momento in cui le tensioni interne e la priorità delle “uscite individuali” rispetto a quelle collettive sono di nuovo evidenti, fondamentalmente nei paesi più potenti come la Germania; e di fronte a una progressiva dinamica di decomposizione dei diritti, con il neocolonialismo incarnato dai nuovi trattati commerciali e di investimento con il Mercosur e con il Messico, l’avanzamento della “diligenza dovuta”, il rafforzamento della “Fortezza Europa”, l’imposizione di figure come i megaprogetti di interesse comune, ecc.
Queste scommesse macroeconomiche a favore del potere aziendale vengono coerentemente trasferite al settore strategico dell’energia. La narrativa verde e gli obiettivi di zero emissioni nette, che hanno dominato l’agenda dei media nella fase di ripresa della pandemia, sono stati in pratica trafitti e limitati dalla scommessa egemonica sull’accesso ai combustibili fossili del programma RepowerEU, la risposta dell’UE all’impatto della guerra e la spirale delle sanzioni.
La tassonomia europea che considera il gas e l’energia nucleare come puliti definisce chiaramente le priorità erratiche dell’UE: sviluppo delle infrastrutture e delle dinamiche di mercato che garantiscono l’accesso ai combustibili fossili (soprattutto al gas), resurrezione del dibattito sul nucleare e progressi nelle iniziative rinnovabili – comprese bolle come l’idrogeno verde o la cattura del carbonio – come nuovi spazi di capitalizzazione.
Il tutto, secondo uno schema d’azione simile: la promozione di strategie diverse con obiettivi molto ambiziosi, senza alcun tipo di contrasto democratico; lo sviluppo, sulla base di queste, di modelli energetici centralizzati su scala continentale, collegati da nuove infrastrutture di interconnessione per l’elettricità e il gas; la proliferazione di megaprogetti di ogni tipo, articolati attraverso queste infrastrutture di interconnessione, comprese le iniziative al di fuori del territorio dell’UE, nella piena attuazione di una dinamica coloniale di depredazione delle risorse; il protagonismo assoluto delle imprese transnazionali attraverso alleanze pubblico-privato, data la portata delle strategie energetiche promosse, e con un peso specifico molto significativo delle società del gas; infine, il mantenimento di mercati oligopolistici e marginali, dominati da queste imprese.
Un mercato che “non funziona più”
Queste sono, in sintesi, le caratteristiche del modello che si sta imponendo, sia per i combustibili fossili che per le rinnovabili. Gas, petrolio, carbone, idrogeno, eolico e fotovoltaico, tutto è possibile, anche se i loro obiettivi sono contraddittori e anche se questo modello è inefficiente e consuma un’enorme quantità di energia e materiali. Il modello rimane inalterato: accumulo di capitale, interessi aziendali e riconversione di settori in crisi, al di là dei bisogni collettivi. Visione continentale centralizzata, in contrapposizione alla pianificazione democratica decentrata che definisce le priorità sociali. Sviluppo aziendale in contrapposizione a quello pubblico e/o comunitario. I megaprogetti, rispetto allo sviluppo di altre formule che prevedono anche la possibilità di iniziative di una certa portata, sviluppano un quadro più ampio di strumenti (autoconsumo, autoproduzione, progetti di piccole e medie dimensioni, iniziative urbane, ecc.)
L’avanzare della tempesta perfetta e la guerra in Ucraina fanno sì che questa strategia e questo modello energetico-corporativo stiano già mostrando le loro crepe. A causa della forte dipendenza del continente dai combustibili esterni e fossili, la scarsità e l’aumento dei prezzi si stanno già ripercuotendo sulle tasche della classe lavoratrice, sulle prospettive di settori industriali chiave (come la metallurgia) e, in ultima analisi, sull’economia nel suo complesso, soprattutto attraverso la recessione e la futura carenza di gas.
In risposta, l’UE ha chiesto un “intervento di emergenza”, che inizialmente ha assunto la forma di cinque misure complementari: un limite proporzionale al consumo di gas per paese, tenendo conto della cosiddetta “eccezione iberica” (un sistema di limitazione al prezzo del gas utilizzato per la produzione elettrica adottato da Spagna e Portogallo, ndt); l’approvazione di un sistema continentale di acquisti congiunti; l’istituzione di un tetto al prezzo del gas, nel quadro di un nuovo indice alternativo alla TTF di Amsterdam (che rifletta meglio la crescente forza del gas naturale liquefatto); l’imposizione di una tassa temporanea sugli extraprofitti delle società energetiche; l’accelerazione dei progetti di energia rinnovabile. Tutte queste misure sono state imposte da una situazione critica, ma in nessun caso avrebbero alterato la logica di un mercato che, secondo la stessa Von der Leyen, “non funziona più”.
Ebbene, dopo il passaggio di testimone tra Commissione, Consiglio e altre strutture dell’UE negli ultimi mesi, non c’è ancora un accordo su una questione così urgente, soprattutto per quanto riguarda il tetto del prezzo del gas. Mentre paesi come la Germania e l’Austria stanno spingendo per l’assenza di un tetto massimo per evitare la chiusura dei mercati, facendo affidamento sul loro particolare potere d’acquisto sui mercati, 15 stati membri stanno spingendo per un tetto massimo. La palla passa ancora una volta al Consiglio europeo del 13 e 14 dicembre, mentre il tetto proposto come fulcro del dibattito dalla Commissione (275 euro per megawatt) è considerato uno “scherzo” da alcuni paesi, data la sua impraticabilità. L’Unione Europea, come il capitalismo, è nel suo stesso labirinto.
In breve, l’agenda energetica promossa dall’UE è un indicatore fedele della sua azione generale negli ultimi anni: si incoraggia una pericolosa spirale bellicista con enormi conseguenze per i cittadini, si sviluppano strategie erratiche di natura antagonista nella lotta contro la tempesta perfetta e si lega il destino del continente agli interessi privati delle imprese transnazionali, in un quadro di crescente autoritarismo e conflitto.
Cambio di rotta
È quindi indispensabile un profondo cambiamento di rotta. La transizione eco-sociale sta per avvenire e il dibattito sulla sua direzione è aperto. Di fronte alla spirale di conflitti eco-sociali e geopolitici in cui ci sta portando la tempesta perfetta, dobbiamo impegnarci per un superamento emancipatorio del capitalismo. E l’Europa ha un ruolo fondamentale da svolgere in questo senso.
Concludiamo delineando una serie di chiavi di lettura che vadano in questa direzione, concentrandoci proprio sulle tre aree di analisi prioritarie. Pertanto, in termini geopolitici, l’Europa dovrebbe utilizzare tutte le sue capacità politico-diplomatiche – che non sono poche – per forzare, insieme a una comunità internazionale largamente non allineata, un negoziato di pace definitivo tra Russia e Ucraina. Un negoziato che assume le massime di giustizia, verità, riparazione e garanzie di non ripetizione, evidenziando le responsabilità di tutti gli attori nella violazione dei diritti umani e nella commissione di atti criminali. Disinnescare la guerra e il bellicismo – non solo in Ucraina, ma anche a Taiwan e in altri conflitti in corso -, porre fine alla trappola di Tucidide (la tendenza per la quale le tensioni politiche per la supremazia sfociano in guerre vere e proprie, ndt) in cui ci stanno portando gli Stati Uniti, progredire in termini di mondo multipolare, è la condizione fondamentale per affrontare la tempesta perfetta.
Per quanto riguarda l’agenda economica, lo smantellamento dell’egemonia dei mercati e delle imprese transnazionali dovrebbe essere una priorità. Se la pandemia ci ha mostrato la fragilità di un capitalismo globalizzato, l’attuale fase bellica della tempesta perfetta rende evidente la sua mancanza di direzione, così come l’antagonismo tra il potere aziendale e la classe operaia. La revisione dell’intera architettura (Trattato di Lisbona, Patto di Crescita e Stabilità, autonomia della Banca Centrale Europea) dovrebbe quindi essere posizionata nel nostro orizzonte continentale. A breve termine, l’intervento pubblico nei mercati (porre fine agli oligopoli energetici e ai mercati a termine, stabilire tetti massimi e minimi di prezzo per i prodotti alimentari, la casa, l’energia, ecc.) potrebbe diventare una pratica democratica comune, che ci permetterebbe di passare alla pubblicizzazione – in un’alleanza pubblico-comunitaria – dei settori strategici. A sua volta, è essenziale una radicale redistribuzione della ricchezza, dei posti di lavoro e dei modelli interni di sviluppo, dando priorità alla tassazione progressiva e al riequilibrio territoriale.
Per quanto riguarda l’energia, e in linea con le proposte precedenti, si dovrebbe porre fine al modello aziendale e centralizzato. Lungi dal rispondere alle esigenze di solidarietà interna, questo modello risponde a una logica di accumulazione di solida matrice neocoloniale nei confronti dei paesi impoveriti. Per questo motivo, la pianificazione democratica delle risorse e dei bisogni a livello statale e sub-statale è una premessa fondamentale per affrontare le conseguenze della tempesta perfetta. Di conseguenza, il protagonismo della proprietà e del controllo pubblici e comunitari del settore, in contrapposizione al controllo aziendale, è la via indiscutibile da seguire, definendo una serie ampia e diversificata di strumenti attraverso i quali raggiungere gli obiettivi fissati dalla pianificazione. L’energia non può essere una merce: questa è la principale lezione da trarre dalle attuali disastrose azioni dell’UE.
In ogni caso, è necessario fermare anche l’offensiva politica autoritaria che accompagna la tempesta perfetta, denunciando i trattati commerciali e di investimento esistenti, eliminando l’eccezionalità giuridica che accompagna i megaprogetti, promuovendo la creazione di organismi di regolamentazione e di norme internazionali per le grandi imprese e, infine, reinterpretando dal basso il diritto internazionale dei diritti umani.
Un ultimo punto politico: questo cambiamento di rotta sarà impossibile senza un aumento significativo del volume e dell’audacia della mobilitazione sociale. Stiamo entrando in uno scenario molto incerto, non solo per l’eccezionale grado di sviluppo della tempesta perfetta, ma anche per le mutazioni e la portata della risposta sociale. Bisognerà articolare formule vecchie e nuove per posizionare, dal livello locale a quello continentale, un’agenda di transizione eco-sociale come quella che abbiamo tratteggiato, sostenuta nelle strade e nei conflitti. Un’agenda che trascende la tiepida trincea che l’alleanza social-liberale rappresenta di fronte al neofascismo e al potere delle imprese. Una sfida, senza dubbio, al culmine della tempesta perfetta.