Fu l’uomo più completo del suo tempo
J.-P. Sartre
di Antonio Moscato, dal sito Movimento operaio
1. Presentazione – Perché “ritorna” Che Guevara
Perché si parla ancora tanto di Guevara, che pure è morto cinquant’anni fa, mentre tanti altri protagonisti di quegli anni sono stati pressoché dimenticati? In realtà non si tratta solo della “persistenza di un mito”, ma piuttosto di un ritorno di interesse, cominciato venti anni dopo la sua scomparsa, mentre il “socialismo reale” che egli aveva criticato lucidamente stava avviandosi al suo crollo.
Dopo la sua tragica fine, che era parsa la sconfitta di una strategia, si erano affermati nuovi miti, che dovevano rivelarsi presto illusori. Da un lato gli Stati Uniti di Kennedy avevano lanciato la cosiddetta “Alleanza per il Progresso”, che doveva assicurare sviluppo e benessere all’America Latina, dall’altra la sinistra era stata affascinata dall’esperienza cilena di Salvador Allende, iniziata appena tre anni dopo la scomparsa del Che in Bolivia. La stampa del mondo comunista, ma anche intellettuali sofisticati come Régis Debray, che in passato avevano teorizzato la moltiplicazione dell’esperienza castrista, contrapponevano la “concretezza” di Allende al presunto “avventurismo” del Che. Guevara era stato poi dimenticato o liquidato sprezzantemente da gran parte della nuova sinistra europea e mondiale affascinata dal mito della rivoluzione culturale di Mao.
Ma l’esperienza di Allende era poi finita presto ben più tragicamente della guerriglia del Che, trascinando con sé molte migliaia di cileni. Le esperienze di riformismo militare in Perù, Ecuador, ecc., si erano concluse senza risolvere nulla dei problemi di quei paesi, e accanto al Cile di Pinochet l’America Latina aveva visto il moltiplicarsi di regimi orribili, dal Brasile all’Argentina, dal Guatemala all’Uruguay, mentre con l’aiuto statunitense sopravvivevano feroci dittature personali nel Nicaragua di Somoza, o nella Haiti di Duvalier.
La durata di questi sanguinari regimi è stata varia, ma sufficiente a distruggere intere generazioni di giovani militanti, cancellando perfino il ricordo degli appassionati dibattiti degli anni Sessanta. E le fragili democrazie che ne prendevano il posto non erano solo corrotte, ma anche condizionate dal permanere della spada di Damocle rappresentata dagli eserciti golpisti, non processati né processabili, e tanto meno epurati. Sconfitti dai loro fallimenti economici e dall’incapacità di conquistare il consenso, ma sempre pronti a riprendere le armi contro il loro stesso popolo e qualsiasi governo che avesse osato mettere in discussione i loro privilegi e quelli dei loro mandanti. Dopo la dictadura, si ironizzava, è arrivata la democradura…
Nonostante tutto, è comparsa in America Latina una nuova generazione di giovani che si sono trovati di fronte compiti difficili e drammatici, nel mondo del “nuovo ordine mondiale”, e hanno riscoperto l’opera e il pensiero di quello che Jean Paul Sartre aveva definito giustamente “l’uomo più completo del nostro tempo”.
Nel primo incontro mondiale (anzi “intergalattico”, come diceva ironicamente il “Subcomandante Marcos”) contro il neoliberismo, svoltosi nel Chiapas nel 1996, erano apparsi molti giovani argentini, uruguayani, o latinos degli Stati Uniti. La maggior parte di loro non conosceva di Guevara neppure il nome. Pochi anni dopo, nell’esplosione della rabbia dei disoccupati e dei ceti medi defraudati che alla fine del 2001 ha fatto cadere in pochi giorni tre governi in Argentina, nelle manifestazioni comparivano bandiere argentine in cui il sole d’oro era stato sostituito dal volto del Che.
Questo cambio di atteggiamento si deve al fatto che, almeno in America Latina, le contraddizioni sociali sono più gravi e stridenti di quanto non fossero venticinque o trenta anni prima, e rendono molto più attuali le diagnosi e le indicazioni di Guevara, per tanto tempo irrise come ingenue; ma si deve anche alla scomparsa di altri punti di riferimento, al tempo stesso mitici e materiali, i “paesi socialisti”. Il crollo dell’URSS ha trascinato con sé la maggior parte dei partiti che facevano capo alla “Chiesa di Mosca”, mentre i partitini maoisti sono rimasti disorientati per le aperture della Cina al capitalismo più selvaggio.
La riscoperta di Guevara, circa venti anni dopo la sua morte, ha coinciso con il distacco di Cuba dall’URSS avviato nel 1986 con la campagna di rectificación. Dopo anni di oblio, in cui anche all’Avana Guevara era stato ridotto a pura icona, mentre il suo pensiero originale era stato dimenticato e sostituito da una grossolana riproduzione del “marxismo-leninismo” degli epigoni, Castro, in un discorso in cui ammetteva che il Che vedendo Cuba sarebbe rimasto inorridito, aveva annunciato che era necessario studiarlo e seguirne le indicazioni.
Per tre o quattro anni c’era stata una fioritura di convegni, che avevano ridato voce ai tanti guevaristi che erano stati emarginati nei quindici anni in cui il dominio ideologico dell’URSS e dei suoi zelanti sostenitori cubani era stato pressoché totale, poi la nuova strada imboccata da Cuba era apparsa così divergente da quelle che erano state le intuizioni e le proposte dell’ultimo Guevara, che non si è fatto più nulla di quanto era stato promesso nel 1987, a partire dalla pubblicazione degli inediti (quasi tutti gli scritti degli ultimi tre anni di permanenza del Che a Cuba). Il Che è diventato una merce di esportazione: simbolo, immagine, celebrazione retorica, al massimo pubblicazione di qualche scritto giovanile di scarso interesse politico.
In questo quadro si inserisce il rilancio commerciale a livello mondiale dell’immagine del Guevara giovane e avventuroso, con il film di Walter Salles sul suo viaggio in motocicletta… Si direbbe che la sua crescente popolarità spinga ad “usarlo” senza contribuire però realmente alla conoscenza del suo pensiero.
L’attrazione per Guevara, anziché ridursi negli anni, è cresciuta al punto di stimolare una straordinaria fioritura editoriale: tra il 1993 e il 1997 sono usciti centinaia di libri, a volte commissionati a persone che non conoscevano né l’argomento né lo spagnolo, e che sono copiati spudoratamente. Invece negli anni precedenti il 1987, ventesimo anniversario della morte e anno della “riscoperta” cubana, i titoli disponibili erano pochissimi.
Come spiegare questo fenomeno? Ci devono essere dei motivi in più rispetto a quelli già indicati: se è vero che molti miti e punti di riferimento sono crollati negli ultimi quindici o venti anni, perché è stato proprio il Che a prenderne il posto, se il suo pensiero era insufficientemente conosciuto?
Anche se non molti conoscono le sue ultime riflessioni, in particolare la sua critica al “socialismo reale” (tenuta sostanzialmente nascosta a Cuba per non dover spiegare ai cubani perché non se ne è tenuto conto per decenni) e la pubblicazione dei suoi scritti è in quasi tutto il mondo – salvo poche e meritorie eccezioni – lacunosa e casuale, Guevara anche da poche e sommarie letture appare indubbiamente antagonista e “alternativo” rispetto a quanto c’è in circolazione…
In primo luogo per la sua etica: la coerenza tra pensiero, parola e azione (“diceva sempre quello che pensava, e faceva quello che diceva”, ha osservato Eduardo Galeano, aggiungendo che i potenti questo “difetto” non glielo hanno mai perdonato…) appare in totale contrapposizione con le pratiche politiche della maggior parte della stessa sinistra.
Anche la sua esposizione in prima persona (che aveva tuttavia un precedente illustre e ugualmente amato nell’apostolo della rivoluzione cubana José Martí) lo rende caro ai giovani di un mondo pieno di politici che predicano “armiamoci e partite”.
Certo le circostanze della sua morte suscitarono una grande emozione, ma neppure questa è una spiegazione sufficiente: la morte tragica dei leader dei movimenti di liberazione è frequente in tutto il terzo mondo (si potrebbe fare un elenco lunghissimo, da Emiliano Zapata a Patrice Lumumba, da Maurice Bishop a Thomas Sankara, senza dimenticare lo stesso Salvador Allende). Nessuno di loro è tuttavia oggetto di un culto e di una venerazione fuori del proprio paese paragonabile a quella del Che.
Altri hanno attribuito il successo di Guevara all’immagine, in primo luogo a quella della famosa foto di Korda. Se c’è qualche fondamento lo si deve tuttavia al fatto che in quella famosa foto scattata mentre assisteva turbato al funerale dei lavoratori uccisi da un attentato statunitense a una nave belga che aveva portato armi all’isola assediata, dagli occhi traspariva un’indignazione e un’emozione sconosciute nella maggior parte dei leader politici. E comunque ciò non spiega perché questo effetto “magico” non è stato immediato, ma è cresciuto negli anni. Ancor meno fondata la tesi di uno dei suoi biografi, attento e intelligente, ma malevolo, Jorge Castañeda (un “pentito” della sinistra messicana divenuto poi ministro degli Esteri con il presidente Fox), che attribuisce a un “errore tattico” della CIA l’allestimento della camera mortuaria con un Che ripulito e modellato come il Cristo deposto del Mantegna, che lo avrebbe trasformato in oggetto di culto…
In realtà se conoscere bene il pensiero di Guevara non è facile, proprio per la mole di paccottiglia sfornata negli ultimi anni (ancora nel 1987 nelle librerie si trovava solo, e non facilmente, il Diario di Bolivia), non è neppure impossibile. Molte delle antologie dei suoi scritti sono mal curate, e spesso zeppe di errori ricopiati da un’edizione all’altra, ma comunque consentono di percepire qualcosa di diverso e di ben più attraente di qualsiasi scritto politico di contemporanei.
Il segreto è semplice: Guevara si riallaccia a una tradizione del movimento operaio che in passato aveva caratterizzato tutti i suoi principali esponenti, da Marx a Gramsci, ma che era stata poi accantonata, quella di ritenere che “la verità è rivoluzionaria”. Da questa convinzione discende il suo stile semplice e diretto, senza i sofisticati termini a cui siamo oggi abituati, e che sono finalizzati non all’esposizione ma all’oscuramento del pensiero. Il Che scrive e parla per essere capito, e da questo dipende la grande comprensibilità del suo messaggio, e la sua radicale differenza da tutto il linguaggio dei politici attuali, anche della sinistra.
Per giunta Guevara è un autodidatta che ha avuto pochi anni, febbrili e densissimi, ma sempre pochi, per la sua preparazione politica. Il Che non è un pensatore originale come Lenin, Kautsky, Rosa Luxemburg, Trotskij o Gramsci: è un “riscopritore del marxismo” su molte questioni: dal giudizio sulla “borghesia nazionale” alla natura e compiti della rivoluzione cubana (“O rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione”). Ma è un riscopritore coraggioso, che va controcorrente, staccandosi dalla vulgata stalinista ma anche da quella socialdemocratica. Un compito molto difficile dopo decenni di mistificazioni, ma le sue conclusioni appaiono subito affascinanti per la chiarezza e l’incisività. Per questo, appena cominciano a leggerlo, i giovani lo amano.
2. La formazione culturale e politica di Guevara
Ernesto Guevara aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza segnate dalla fragilità della sua salute. Era stato colpito all’età di due anni da una forma di asma così grave che la sua famiglia aveva dovuto trasferirsi dalle zone subtropicali dell’alto Paranà (dove il padre aveva una piantagione di yerba mate, la bevanda nazionale argentina) a una zona collinare e secca per migliorare le sue condizioni di salute. I genitori avevano soprattutto ritardato il suo invio a scuola, e molto spesso, anche negli anni successivi, egli era stato costretto a rimanere a casa per lunghi periodi e ne approfittava per leggere moltissimo.
La sua biblioteca conteneva ogni tipo di romanzi, libri di avventure e di viaggi: vi si trovavano Salgari, Stevenson, Giulio Verne, Alessandro Dumas e in genere tutti quegli autori che erano stati di svago e di guida a molte generazioni.
Ernesto Guevara Linch, il padre del Che, ha detto una volta con modestia di avere imparato tutto dal figlio, e ha fornito anche esempi concreti delle proprie ingenuità e incomprensioni politiche (sul peronismo, o sulla valutazione dei governi radicali in Argentina…). Ma è bellissimo lo scatto di orgoglio con cui il vecchio (molti anni dopo la morte del figlio) ha aggiunto: in verità qualcosa gli ho insegnato anch’io, che a mia volta lo avevo imparato da mio padre: di avere tre principi inderogabili, non mentire, non rubare, non avere paura. Tre consigli apparentemente banali, ma che hanno lasciato una traccia profonda nel Che.
Il non mentire è un principio praticato e ribadito pubblicamente durante tutta la sua breve vita politica: ad esempio, il Che raccomanderà sempre di non nascondere errori e deficienze nel lavoro, di non esagerare la portata delle difficoltà oggettive (dal blocco americano ai cicloni) e di mettere in primo piano l’esame dei propri errori.
Il non rubare è per lui non accettare neppure una briciola di privilegio: subito dopo la rivoluzione, ad esempio, rifiuterà perfino un’auto dallo Stato e si farà aiutare dal padre a comprare con i suoi soldi una due cavalli Citroën, la più piccola delle utilitarie allora disponibili. Rifiuterà sempre anche ogni privilegio per la famiglia, e lo ribadirà nella lettera di addio a Fidel: “Non lascio a mia moglie e ai miei figli niente di materiale ma questo non è per me ragione di pena; mi rallegro che sia così; non chiedo niente per loro perché lo Stato gli darà il necessario per vivere e per educarsi”.
Il non avere paura, nel caso del Che, non avrebbe bisogno di commenti, se non per sottrarre la frase a una visione banalizzante. Per il Che, ma probabilmente già per il padre e il nonno, non avere paura vuol dire che la stessa vita di un uomo ha un senso solo se è messa al servizio di qualcosa che la trascende, di qualcosa di infinito, che è l’umanità e la causa della sua liberazione. È a partire da questa identificazione che è possibile l’eroismo del Che, che non era un eroismo astratto, fine a sé stesso, ma l’eroismo al servizio di una causa.
Dalla famiglia, tuttavia, Guevara ha ricevuto qualcosa in più di quei principi etici semplici e al tempo stesso solidi che abbiamo appena ricordato. Dai suoi genitori, in origine non marxisti ma senza dubbio sinceri democratici, ha cominciato, fin da ragazzo, a conoscere gli echi della Guerra di Spagna, di cui seguiva su una carta geografica le battaglie che riproduceva poi con i coetanei assaltando fortini improvvisati. Sempre da suo padre Ernesto aveva cominciato a conoscere la guerra del Chaco, combattuta tra il 1931 e il 1934 dai soldati boliviani e paraguayani per conto di due diverse multinazionali del petrolio, come tante altre guerre combattute per conto terzi: era troppo piccolo per poterne avere un ricordo diretto, ma le descrizioni ricevute lo colpirono al punto che più volte ricorderà quella vicenda accostandola a un altra tragedia della dipendenza, quella del Congo ex belga, che lo aveva profondamente segnato negli anni della maturità.
2.1. I viaggi di studio
La passione per la conoscenza aveva spinto Guevara a seguire i corsi più disparati e, al tempo stesso, egli aveva cominciato a lavorare per periodi più o meno lunghi in un’impresa di lavori stradali, mentre si accingeva allo studio dell’ingegneria, che poi lascerà improvvisamente per la medicina. In ogni caso, il tipo di formazione culturale del giovane Ernesto da un lato gli permetteva di esercitare un notevole fascino sui coetanei, dall’altro lo rendeva irrequieto e refrattario nei confronti dello studio puramente scolastico. Da vari accenni suoi e del padre si comprende che il suo curriculum era abbastanza atipico, che l’impegno nello studio era irregolare, con punte di altissimo impegno e periodi in cui si accontentava semplicemente di ottenere il minimo indispensabile per essere promosso.
Fece anche gli studi medici con disordine e un mediocre profitto iniziale, anche perché appena compiuti i primi esami riuscì a ottenere un posto di infermiere sulla flotta mercantile argentina, che gli consentì diversi viaggi, ma gli rese più difficili gli esami che richiedevano una frequenza continuativa alle lezioni e alle esercitazioni pratiche.
Scheda
Il “viaggio in motocicletta”
Al momento del primo grande viaggio panamericano, Ernesto aveva fatto solo la metà degli esami, e gliene rimanevano quindici, che tuttavia superò in soli sette mesi al suo ritorno. La passione per i viaggi lo aveva già spinto negli anni precedenti a esplorare durante le vacanze l’Argentina con i più diversi mezzi di fortuna, tra cui una bicicletta a cui aveva applicato un motorino e con cui percorse migliaia di chilometri, ottenendo con questa impresa le congratulazioni della ditta produttrice e la apparizione del suo nome e della sua foto sulle pagine dei giornali. Erano le prime manifestazioni di quella sfida permanente alle costrizioni imposte dal suo fisico, che lo caratterizzerà per tutta la vita e lo porterà ad affrontare senza esitazioni imprese durissime anche per uno sportivo, come l’ascensione del Popocatepetl in Messico, compiuta per prepararsi alle lunghe marce sulla Sierra Maestra.
Il viaggio con Alberto Granado è decisivo per la scoperta della miseria in Cile, in Bolivia, in Perù, ecc., che Ernesto non aveva potuto conoscere prima, dall’interno di un ambiente familiare relativamente privilegiato. Eppure l’osservazione delle condizioni sociali non era l’obiettivo principale dell’esplorazione.
Nelle prime pagine del Diario si intrecciano la curiosità per i paesaggi insoliti e le avventure picaresche, le descrizioni delle località archeologiche e quelle delle condizioni sanitarie, con solo qualche accenno abbastanza ingenuo ai problemi politici dei paesi attraversati. Archeologia e medicina sono forse gli scopi prevalenti, per i due giovani. Alberto Granado è già laureato in biologia, Ernesto è appunto a metà degli esami di medicina, ma si lasciano credere esperti di lebbra, per poter visitare alcuni dei lazzaretti nella selva amazzonica, e a volte per poter scroccare un pasto negli ospedali in cui arrivavano con lettere di presentazione di qualche medico già incontrato (erano sempre affamatissimi e senza un soldo). In realtà lo studio della lebbra li appassionava veramente, spingendoli alle prime considerazioni sulla funzione sociale del medico, che il Che penserà di sviluppare in seguito, e di cui resta solo (inedito) l’abbozzo di un capitolo.
Presentati dal dottor Pesce, uno specialista di lebbra che a Lima li ha ricevuti cordialmente (e che fu probabilmente il primo intellettuale comunista incontrato da Guevara, che ne rimase affascinato), visitano diversi lebbrosari. Il Che osserva compiaciuto: “il nostro viaggio acquista un significato eccezionale per il personale dei lebbrosari della zona”, ma soprattutto per i malati, che spesso li colmano di piccoli doni: ad esempio i lebbrosi di Lima fanno una colletta di cento soles (che “nelle loro condizioni economiche sono un’enormità”) per regalare ai due giovani un fornello a petrolio, e li salutano con le lacrime agli occhi.
“Tanto affetto dipende dal fatto che eravamo stati con loro senza fare gli schizzinosi e avevamo dato loro la mano come a persone qualsiasi, e ci eravamo seduti fra di loro a parlare e avevamo giocato al calcio con loro. A te sembrerà una bravata inutile, ma è incalcolabile il beneficio psichico che per questi malati, trattati come bestie selvagge, rappresenta il fatto che la gente si comporti con loro come con gli esseri normali, e il pericolo che si corre è assolutamente minimo”.
Il soggiorno più lungo è quello nel sanatorio di San Pablo, su un affluente del Rio delle Amazzoni, dove dopo appassionate partite di calcio, grandi sbornie di pisco (l’acquavite peruviana) e una festa in onore del ventiquattresimo compleanno di Ernesto, i lebbrosi costruirono per i due argentini una rudimentale zattera con cui essi avrebbero dovuto proseguire il viaggio per via fluviale (ma dopo pochi giorni di navigazione si incagliò irreparabilmente). Il viaggio proseguì con altri mezzi di fortuna fino a Caracas, passando per Bogotà. Di tutta questa parte del viaggio ci sono appena accenni fugaci nelle lettere del Che ai genitori; è evidente comunque che l’interesse per la politica è ancora del tutto marginale e occasionale. Ma sono stati gettati i semi che daranno ben presto i frutti, al momento del secondo viaggio e dell’incontro con la rivoluzione boliviana e soprattutto con quella guatemalteca.
2.2. Il giudizio sul peronismo
Quando il giovane Ernesto comincerà ad avere esperienze politiche dirette, il conflitto con le idee paterne si svilupperà soprattutto a proposito del peronismo (su cui gli accenni nel Diario del primo viaggio erano invece ancora generici, scherzosi e non impegnati).
Il vecchio “don Ernesto” non aveva avuto mai dubbi su Perón. Era infastidito dalla demagogia, dalla ipocrisia, dalla rozzezza con cui il generale populista trattava le opposizioni conservatrici e la stessa Chiesa cattolica, e quindi nel 1955 aveva simpatizzato per il colpo di Stato militare fallito del giugno e per quello riuscito di settembre. Con sua grande sorpresa il figlio (arrivato in Messico dopo la caduta del regime riformista guatemalteco di Jacobo Arbenz) gli scrive attaccandolo per le sue illusioni sulla Revolución Libertadora (come si autodefinivano i militari che abbatterono Perón e che in un modo o nell’altro avrebbero spadroneggiato in Argentina nei decenni successivi).
Egli contestava l’entusiasmo dei suoi genitori, con un giudizio particolarmente lucido, anche perché prescindeva dalla figura di Perón in quanto tale, di cui diceva anzi: “è caduto come cade la gente del suo genere, senza dignità”.
Il padre, nel 1980, ammetteva che Ernesto “vide il fenomeno peronista molto meglio di tutti noi antiperonisti”, chiedendo a sua unica scusante le ambiguità dello stesso Juan Domingo Perón. In realtà il figlio aveva scavalcato il padre, perché aveva acquisito in quegli anni non solo i primi elementi di una formazione marxista, ma aveva vissuto dall’interno l’esperienza rivoluzionaria del Guatemala.
2.3. Il Guatemala di Jacobo Arbenz
Il Che ha sempre fatto riferimento all’esperienza del Guatemala di Arbenz come decisiva per la sua formazione. A quel paese è dedicato il suo primo articolo politico, nel vivo di quella esperienza ricava alcuni punti fermi del suo orientamento successivo (ad esempio la sfiducia nella cosiddetta “borghesia nazionale”, cavallo di battaglia tanto dei comunisti filosovietici che di quelli che si ispireranno a Mao (che estenderà le ipotesi di alleanza perfino ai “prìncipi patriottici”, come il re Sihanuk in Cambogia).
Guevara era arrivato in Guatemala alla fine di dicembre del 1953. Era il suo secondo viaggio nell’America Latina, e il suo progetto non era più quello di esplorare il continente come un viaggiatore curioso, ma di lavorare mettendo a frutto la laurea in medicina appena conseguita.
Jacobo Arbenz Guzmán, ex ministro della Guerra, era divenuto presidente dal marzo 1951 su un programma di riforme democratiche: suffragio universale, una legislazione a protezione del lavoro salariato e della libertà sindacale, lotta all’analfabetismo e riforma agraria. Quest’ultima era molto moderata: non investiva tutte le grandi proprietà ma solo quelle non coltivate. Tuttavia colpiva gli interessi della grande multinazionale americana United Fruit (quella della “Banana Chiquita”), che aveva accaparrato gran parte delle terre del paese, molte di più di quante servissero alla sua produzione, per lasciarle incolte e impedire ai contadini di produrre per conto loro. L’obiettivo era quello di mantenere alti i prezzi della frutta (ma i contadini avrebbero avuto comunque enormi difficoltà a commercializzazione i loro prodotti), e soprattutto di evitare che su quelle terre si sviluppasse un’economia di sussistenza, che consentisse ai contadini di sopravvivere senza dovere accettare i salari di fame della grande multinazionale.
Arbenz venne denunciato come “comunista” non solo dalla Casa Bianca (l’avvocato della United Fruit era il Segretario di Stato Foster Dulles), ma dalla stessa Conferenza dei paesi americani riunita a Caracas nel marzo 1954, che diede il suo assenso alla distruzione violenta dell’esperimento riformista. L’attacco venne sferrato con un’invasione di mercenari (partiti dall’Honduras sotto la guida del colonnello Carlos Castillo Armas), con importanti complicità interne. Guevara era ancora entusiasta di Arbenz, che in una lettera alla madre definiva “un duro, senza dubbio disposto a morire al suo posto se è necessario”. Si era offerto anche per il servizio di pronto soccorso medico e per le brigate giovanili che avrebbero dovuto addestrare militarmente i sostenitori del presidente. Ma la disillusione era stata rapidissima. Arbenz dapprima confida nell’esercito da cui egli stesso proviene, e che si schiera invece con i traditori (che dispongono perfino di aerei e navi evidentemente fornite dagli Stati Uniti), mentre rifiuta di fornire armi al popolo, a cui continua, anche nell’ultimo discorso, a raccomandare la calma… Invece che al popolo, Arbenz si appella alle Nazioni Unite, che naturalmente, allora, come pochi anni prima in Corea e come accadrà sei anni dopo nel Congo, sono utilizzate tranquillamente dagli Stati Uniti per avallare la loro politica. Anche questo rimarrà ben impresso nella coscienza del giovane Guevara, che non lo dimenticherà mai.
Da quella esperienza Guevara esce determinato ad agire e soprattutto impegnato a conoscere meglio il marxismo, a cui fino al 1954 si riferiva in termini assai generici e imprecisi. In Guatemala ha conosciuto un gruppo di intellettuali comunisti, ed aveva inizialmente pensato di iscriversi al PGT (Partido Guatemalteco del Trabajo, comunista), di cui ammirava l’appoggio deciso alla riforma agraria. Tuttavia esitò, per timore di dovere sottostare a una rigida disciplina e per diffidenza nei confronti del dogmatismo del PGT, mentre successivamente fu deluso dall’incapacità di questo partito di avere una tattica diversa e indipendente da quella rinunciataria di Arbenz. Comincia così la sua battaglia nei confronti dei partiti comunisti latinoamericani, di cui criticherà implacabilmente l’opportunismo e l’orizzonte esclusivamente istituzionale.
In un secondo momento riuscirà anche a comprendere come dietro quella politica ci fossero non solo errori soggettivi, ma l’influenza sovietica mediata da Earl Browder, il segretario del Partito comunista degli USA, che per anni aveva avuto grandi responsabilità nel Comintern, soprattutto nel continente americano, teorizzando alleanze con i più incredibili rappresentanti della “borghesia nazionale” (a Cuba, negli anni Quaranta, venne considerato tale perfino Fulgencio Batista, nel cui governo entrarono in nome “dell’unità antifascista” due ministri comunisti). Ma questa comprensione è ovviamente ancora da venire nel 1954, quando si rifugia in Messico e comincia il suo apprendistato teorico sotto la guida di Hilda Gadea, che sarà poi sua moglie, e quello politico a fianco e insieme ai militanti del 26 luglio.
2. 4. Hilda Gadea e le prime letture marxiste
Hilda Gadea era una giovane peruviana militante dell’ala marxista dell’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana), il movimento riformista fondato nel 1923 da Raúl Haya de la Torre. In un libro di memorie Hilda ha descritto le letture comuni: “Entrambi avevamo letto i romanzi precursori della rivoluzione russa: Tostoj, Gor’kij, Dostoevskij e Le memorie di un rivoluzionario di Kropotkin. I nostri temi abituali di discussione ricadevano anche sul Che fare? e L’imperialismo di Lenin, l’Antidühring, Il manifesto comunista, L’origine della famiglia e altri lavori di Marx ed Engels, oltre a Il socialismo dall’utopia alla scienza di Engels, e Il Capitale di Marx, con cui ero io ad avere maggiore familiarità per i miei studi di economia”.
Ernesto Guevara è stato il miglior allievo di tutti i suoi maestri: lo riconobbero Hilda Gadea, Fidel Castro, Salvador Vilaseca (che nel 1959 gli insegnò matematica, ma lo guidò anche nel suo studio sistematico del Capitale), i suoi consiglieri economici sovietici e cecoslovacchi. All’origine di questa sua straordinaria capacità di apprendimento, che lo porterà in pochissimi anni (meno di dieci tra i primi passi e la sua piena maturità!) a superare i suoi maestri in tutti i campi, ci sono indubbiamente le sue doti intellettuali, il suo fortissimo impegno di studio, la sua straordinaria tenacia e forza di volontà, ma anche le caratteristiche fin dall’inizio antidogmatiche del suo pensiero.
Così Guevara in Messico comincia a impartire dei corsi su Marx per i cubani del Movimento 26 di luglio, alcuni dei quali ha conosciuto già in Guatemala. Era stato lui a scegliere i testi marxisti che la polizia messicana ha trovato e sequestrato nel rancho Santa Rosa in cui gli esuli stavano addestrandosi per lo sbarco a Cuba. Nel corso del 1955 e del 1956, nelle lettere alla famiglia, si infittiscono gli accenni a San Carlos (come chiama Marx scherzosamente, anche per eludere la censura). Poco dopo Guevara scriverà: “Prima mi dedicavo più male che bene alla medicina e il tempo libero lo dedicavo allo studio non organico di San Carlos. La nuova fase della mia vita esige anche un mutamento di organizzazione: ora San Carlos è al primo posto, è al centro, e lo sarà per gli anni in cui lo sferoide mi ammetterà nella sua fascia più esterna”.
2. 5. L’incontro con la rivoluzione cubana
In Guatemala Guevara aveva già incontrato alcuni dei cubani che si erano rifugiati in quel paese dopo il fallimento dell’assalto al Cuartel Moncada, la caserma di Santiago che il 26 luglio 1953 doveva dare il via all’insurrezione nazionale contro il dittatore Fulgencio Batista, che nel 1952 aveva sospeso la Costituzione alla vigilia delle elezioni. Attraverso le loro descrizioni ha cominciato a conoscere la personalità di Fidel Castro, ammirandone il coraggio e la volontà di lotta senza compromessi. Sa che dopo l’autodifesa in tribunale Fidel è divenuto un eroe popolare, le cui ingenuità giovanili (e la stessa approssimazione organizzativa che aveva portato alla sconfitta del tentativo insurrezionale) sono passate in secondo piano, per la coerente determinazione con cui al processo pubblico ha preannunciato la volontà di continuare la lotta contro la dittatura e la dipendenza dagli Stati Uniti, nel famoso discorso pubblicato poi col titolo La Storia mi assolverà.
In Messico Ernesto ha conosciuto molti altri partecipanti all’impresa, tra cui Raúl Castro, e ha cominciato a pensare di legare la sua vita alla loro causa. Nel novembre 1955 incontra lo stesso Fidel: ricorderà quel momento perfino nella lettera di commiato scritta al momento della sua partenza da Cuba per la sua missione internazionalista. Ernesto sente innegabilmente il fascino di Fidel, che a sua volta apprezza moltissimo il giovane argentino, al quale propone di partecipare allo sbarco a Cuba. Il suo ruolo dovrebbe essere quello di medico della spedizione, ma il Che intanto partecipa come gli altri all’addestramento militare sotto la guida del generale repubblicano spagnolo Alberto Bayo nel rancho Santa Rosa, e diviene anche istruttore politico dei militanti.
A quanto pare, Guevara ricavò il massimo profitto dalle lezioni di Bayo e, durante i primi durissimi giorni di lotta, si rivelerà un guerrigliero validissimo, soprattutto un grande trascinatore. L’impresa era cominciata male: l’imbarcazione acquistata per la traversata dal Messico a Cuba, il Granma, era del tutto insufficiente per 82 persone, e priva di strumentazione adeguata. Così il viaggio durò più a lungo del previsto e, quando i guerriglieri arrivarono sulla costa orientale dell’isola, erano stati dati per morti dai sostenitori che li avevano attesi per tre giorni, mentre esercito e polizia, che avevano represso una insurrezione di Santiago che doveva servire da diversivo per facilitare lo sbarco, li attendevano al varco. La maggior parte di loro in quei primi giorni cade in combattimento o è vittima di esecuzioni sommarie. Solo una dozzina di rivoluzionari raggiungono l’interno dell’isola, dove vengono accolti con simpatia da un gruppo di contadini che ha riconosciuto in Castro l’uomo che ha sfidato Batista.
In quella prima fase in cui il piccolo nucleo di rivoluzionari aveva dovuto ritirarsi in condizioni molto difficili e in un sentiero impervio, il Che fu costretto a scegliere tra la cassetta dei medicinali e quella delle munizioni. Scelse la seconda. Da allora diventò un combattente a tutti gli effetti e presto il principale comandante, insieme a Fidel Castro e a Camilo Cienfuegos.
Scheda
Le ragioni di una straordinaria vittoria
Il Granma era partito dal Messico con 82 combattenti, e dopo una sola settimana ne rimanevano dodici, con pochissime armi leggere. Sembra incredibile che un nucleo così piccolo sia sopravvissuto a tutte le avversità e sia riuscito a vincere in appena due anni.
Il confronto che viene subito in mente è quello con la spedizione dei mercenari anticastristi che nell’aprile 1961 sbarcarono a Playa Girón. Erano più di 1.600, con mezzi anfibi e armi pesanti, appoggiati da navi ed aerei. E sono stati sconfitti. Poche decine di carbonai e pescatori armati di vecchi fucili li avevano bloccati per alcune ore, fino all’arrivo dei rinforzi dall’Avana. I mercenari combattono bene solo contro gente inerme.
Invece nel dicembre 1959 i dodici sopravvissuti al disastroso sbarco hanno trovato contadini ben disposti, che li hanno sfamati e guidati in posti sicuri. Ci vorrà del tempo perché decidano di unirsi alla loro lotta, ma intanto li hanno protetti e nascosti. Quando i contadini cominciano a entrare nella guerriglia, l’esercito di Batista colpisce a casaccio i villaggi col risultato di spingere soprattutto i giovani a combattere per difendersi. I rivoluzionari, quasi tutti intellettuali urbani, imparano molte cose dai contadini, e inseriscono nel loro programma anche la riforma agraria.
I contadini saranno la base essenziale della apparente invincibilità del piccolo “esercito ribelle”, che diventa una leggenda. Protette e ospitate dai contadini, le due colonne di poche centinaia di uomini guidati da Guevara e Cienfuegos, braccati da aerei e autoblindo, arrivano alla fine del 1958 nella Sierra dell’Escambray, nella parte centro-occidentale dell’isola e da lì partono all’attacco della città più importante che blocca la via verso la capitale, Santa Clara. Qui sarà l’appoggio incondizionato della popolazione a permettere di battere una guarnigione di 5.000 soldati, ben asserragliati in diverse caserme e che hanno a disposizione un treno blindato. Questo viene sabotato dai ferrovieri e incendiato da giovanissimi armati di bottiglie Molotov, mentre i 300 guerriglieri guidati dal Che arrivano di sorpresa vicino alle caserme, perché la popolazione non esita ad abbattere i muri divisori tra una casa e l’altra. Il loro successo getta nel panico Batista, che fugge negli Stati Uniti col suo tesoro. Arrivare all’Avana per i barbudos sarà una passeggiata trionfale.
3. Come si forma il marxismo di Guevara
Il pensiero di Guevara è stato alimentato da diverse fonti: indubbiamente alcuni testi di Marx, conosciuti attraverso la lettura non dogmatica proposta da Hilda Gadea, lo hanno almeno parzialmente vaccinato dalla riproposizione delle semplificazioni schematiche diffuse dai partiti comunisti filosovietici. Ma già in Messico Guevara ha cominciato a studiare le matrici ideologiche originali della rivoluzione cubana: lo si sente dai frequenti accenni a José Martí e Antonio Maceo nelle lettere alla madre, e alcune frasi di Martí saranno da allora in poi ricorrenti negli scritti e nei discorsi del Che, fino al suo stesso “testamento spirituale”, la lettera di congedo dai figli: “Ricordatevi che l’importante è la rivoluzione, e che ognuno di noi, da solo, non vale niente. Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo: è la qualità più bella di un rivoluzionario”.
Con un brano durissimo di un articolo di Martí (“Chi parla di unione economica, parla di unione politica. Il popolo che compra comanda, il popolo che vende, serve”) Guevara aveva cominciato il suo sferzante discorso alla riunione del Consejo Interamericano economico y social a Punta del Este, in Uruguay, e con un bel verso di Martí inizia il Messaggio alla Tricontinentale, il suo “testamento politico”.
È evidente che in Guevara c’è una intensa assonanza, una profonda analogia di impostazione con Martí. La rapidità con cui l’argentino Guevara sceglie Martí come riferimento costante si deve probabilmente a punti di contatto significativi anche nell’approccio alla scelta rivoluzionaria e internazionalista. Martí è prima di tutto un osservatore attento, un grande giornalista, che si forma politicamente attraverso la sua esperienza negli Stati Uniti, essenziale per la sua radicalizzazione e per il suo antimperialismo tenace e coerente. Il suo itinerario è molto simile a quello di Guevara, che si forma e diviene un rivoluzionario a partire dal suo viaggio attraverso l’America Latina, iniziato come studente curioso del mondo in cui vive. Ma le analogie sono ancora più numerose e sostanziali: già nel Martí giovanissimo c’è un’etica del sacrificio, considerato la forma più alta di servizio, che ha profonde consonanze con quella che spingerà Guevara alla sua ultima missione: “Il primo dovere del talento consiste nell’adoperarlo a beneficio dei derelitti. Da questo si misurano gli uomini. Si è padroni esclusivi soltanto di ciò che si crea. Il talento è qualcosa che ci viene dato, e comporta l’obbligo di servire con esso il mondo, e non noi che non ce lo siamo dati. Adoperare a nostro esclusivo beneficio ciò che non è nostro, è un furto”.
D’altra parte Martí, come Guevara, pensava che la rivoluzione significa cambiare non un nome ma l’uomo, e avrebbe voluto essere ricordato per una “collezione delle sue azioni” più che per una raccolta dei suoi versi e dei suoi scritti, ed è certamente il suo esempio la prima ragione della sua influenza sui giovani che si erano raccolti intorno a Fidel per l’impresa del Cuartel Moncada.
Martí (come d’altra parte lo stesso Guevara) è uno scrittore generoso e originale, ma senza un’opera organica. Il suo pensiero è contenuto in scritti frammentari, appunti, articoli, pamphlet, discorsi, e soprattutto nelle “collezioni di azioni”. Ma il “profeta della rivoluzione cubana” è stato sempre un convinto internazionalista. La sua visione è sempre latinoamericana e non solo cubana, e l’attenzione è costantemente rivolta alle vicende degli sfruttati di ogni parte del mondo, a partire dagli Stati Uniti, su cui scrive pagine bellissime dedicate alle vicende degli operai anarchici di Chicago condannati a morte o alle minoranze discriminate o perseguitate (compresa quella italiana vittima di un pogrom a New Orleans).
Ricordare questo debito di Guevara verso Martí non significa sminuirne l’importanza. Paradossalmente essere internazionalista era più semplice per Martí. Egli era l’ultimo esponente di quella generazione di democratici che nell’Ottocento aveva sentito naturale la dimensione sovranazionale della rivoluzione, non solo nel senso dell’unità latinoamericana, ma come battaglia di tutti gli uomini per la libertà. Il XIX secolo aveva avuto l’impronta di un Bolívar, di un San Martín, di un Sucre, di un Garibaldi. Era il secolo in cui polacchi, ungheresi, italiani combatterono a fianco della Comune di Parigi, e in cui la Prima Internazionale organizzava concrete azioni di sostegno agli scioperi da una parte all’altra della Manica.
In effetti per Guevara è stato più difficile riscoprire l’internazionalismo, dopo i decenni in cui nel movimento operaio era rimasto un puro orpello retorico, che copriva una realtà di negazione concreta del suo spirito. Quella realtà con cui Guevara si scontra in Bolivia, quando discute con Mario Monje sulle prospettive della rivoluzione latinoamericana, e si sente porre come condizione per il sostegno alla guerriglia che i dirigenti siano boliviani.
Guevara non riuscirà neppure a capire, lui argentino divenuto cubano, e che si era sempre sentito un “cittadino di America”, la logica che spingeva gli inesperti dirigenti del debole partito comunista boliviano a pretendere di dirigere una lotta che doveva solo iniziare in Bolivia ma era concepita come continentale.
La sua evoluzione non era stata facile o automatica. In realtà, nel corso dei decenni che separano Guevara e Castro da Martí, e ancor più dai Bolívar e dai San Martín, c’erano stati cambiamenti profondi, si erano sviluppati nazionalismi accesi quanto infondati che avevano portato paesi fratelli (e che nel progetto dei libertadores ottocenteschi avrebbero dovuto essere almeno federati tra loro) a combattersi ferocemente “per conto terzi”. E se le borghesie di ciascun paese erano diventate scioviniste al punto di prendere a pretesto una partita di calcio per scatenare una guerra col paese vicino, gran parte dello stesso movimento comunista latinoamericano aveva accantonato progressivamente il suo internazionalismo, a mano a mano che si adattava a un rapporto stretto e privilegiato con la borghesia del proprio paese.
Per questo la riscoperta dell’internazionalismo concreto da parte di Guevara è fortemente innovativa nel contesto del movimento operaio latinoamericano degli anni Cinquanta e Sessanta, e non a caso fu fortemente contestata anche a Cuba dal gruppo stalinista di Aníbal Escalante, il quale – secondo l’atto di accusa di Raúl Castro alla “microfrazione” – tentava di contrapporre Guevara a Fidel Castro, presentandolo come “trotskista” per la sua linea di “esportazione della rivoluzione”, e per aver “tentato di imporre la linea cubana agli altri partiti comunisti” (ossia per le critiche che tutta la direzione cubana, a partire da Castro, muoveva all’opportunismo e alla collaborazione di classe dei partiti “fratelli”).
Ma la “scoperta” di Martí non è l’unica traccia dell’impegno di Guevara per ricollegarsi al movimento operaio cubano, studiando a fondo le premesse della rivoluzione e la storia dei primi tentativi di incamminarsi sulla strada del Moncada, del Granma, della Sierra.
È significativo che sia stato proprio Guevara a ricordare alcune figure di precursori quasi dimenticati. Una delle figure a cui egli dedica particolare attenzione, quella di Antonio Guiteras, era stata oggetto di un lungo ostracismo da parte del PSP. Il partito comunista cubano, per settarismo, aveva diffidato di quel giovane rivoluzionario che, alla testa del Directorio estudiantil revolucionario, nel 1927 aveva iniziato all’Avana la lotta contro il dittatore Machado, e aveva proseguito la sua azione organizzando gruppi armati nella provincia di Oriente (la stessa scelta da Martí nel 1895 e poi da Castro nel 1956).
Non lo aveva sostenuto neppure nel 1935 nel suo sfortunato tentativo insurrezionale contro Batista, dopo il rovesciamento del governo di Grau San Martín a cui Guiteras aveva partecipato come ministro degli Interni, e quindi aveva rimosso perfino il ricordo di quella scomoda figura di rivoluzionario, coerente ma non inquadrato, che con la sua morte aveva smentito ogni insinuazione sul suo conto.
Il riferimento frequente e puntuale ai predecessori “eretici” della rivoluzione cubana e latinoamericana, dunque, ci fornisce anche una testimonianza preziosa sul metodo e sull’itinerario di studio che portarono il Che, in pochi anni, a una capacità politica e teorica eccezionale per il suo tempo. Riallacciarsi a quelle radici, studiare tutte le esperienze rivoluzionarie dell’America Latina, nella loro concretezza, con le loro rare vittorie temporanee e le tante sconfitte, significava gettare le basi per il futuro.
Bisogna sottolineare a questo proposito che Guevara fu sempre contrario a ogni generalizzazione arbitraria e a ogni imitazione pedissequa della rivoluzione cubana. Sappiamo ad esempio che, durante la campagna di Bolivia, egli aveva criticato il libro di Régis Debray Revolución en la revolución, probabilmente così efficacemente che la CIA si è ben guardata dal rendere pubbliche le note appuntate sulla copia trovata nel zaino del Che al momento della sua uccisione a La Higuera. D’altra parte, contrariamente a uno dei più tenaci luoghi comuni della sinistra italiana vecchia e “nuova”, il Che aveva denunciato a chiare lettere già in un discorso del 1962 il pericolo delle scorciatoie estremistiche che si illudevano di ripetere meccanicamente l’esperienza cubana.
In un altro scritto di notevole importanza, di poco precedente, Guevara aveva anche affermato che seguire l’esempio di Cuba in altri paesi sarebbe stato arduo, perché l’imperialismo aveva imparato bene la lezione, e non poteva più essere colto di sorpresa. Al tempo stesso, tuttavia, sferzava i tanti “eccezionalisti” (sia borghesi, sia appartenenti a partiti comunisti dogmatici e opportunisti) che si affannavano a definire “la rivoluzione cubana un avvenimento unico e inimitabile, guidata da un uomo il quale può avere o no difetti, a seconda che l’eccezionalista sia di destra o di sinistra, ma che, evidentemente, ha portato la rivoluzione per sentieri aperti unicamente ed esclusivamente perché vi marciasse la rivoluzione cubana”. Guevara considerava completamente falsa questa concezione, giacché “nella rivoluzione cubana ci sono stati fattori eccezionali che costituiscono la sua peculiarità e fattori comuni a tutti i popoli d’America, che esprimono la necessità interna di una tale rivoluzione”. Per certi aspetti più difficile, per altri (la coscienza acquisita da larghi strati di massa, della necessità e della possibilità della rivoluzione) più facile; in ogni caso ineludibile come compito, in un mondo che aveva di fronte “giorni neri”.
3. 1. L’evoluzione del marxismo del Che e il giudizio sullo stalinismo
Già durante la guerriglia sulla Sierra Maestra il Che non solo si dichiarava marxista, ma faceva un esplicito riferimento positivo ai “paesi socialisti”. È interessante seguire le fasi della sua conoscenza e l’evoluzione dei giudizi su quei paesi, sul ruolo dello stalinismo nella loro vicenda, ecc..
Negli anni della prima formazione politica e teorica di Guevara, dal 1954 al 1956, gli accenni epistolari a quei paesi sono scarsi e vaghi, non solo per questioni di censura. In realtà, nonostante il frequente accenno allo studio delle “dottrine di San Carlos” (cioé Marx), le sue conoscenze erano ancora molto modeste. Nel 1956-1959 e negli anni immediatamente successivi alla vittoria della rivoluzione), quasi nessuno dei dirigenti del 26 Luglio aveva idee chiare sulla crisi latente del sistema staliniano e sulle sue origini storiche (anche se da alcuni accenni del Che sembra che almeno la tragedia ungherese avesse lasciato qualche traccia su di lui).
Karol, nel suo libro La guerriglia al potere, riferisce un colloquio con Guevara avvenuto il 19 maggio 1961, poche settimane dopo lo sbarco dei contras a Playa Girón. In quel periodo i legami di Cuba con l’URSS si sono stretti, e si sono estesi al “campo ideologico”: le librerie cubane sono piene di traduzioni di manuali sovietici di derivazione staliniana, rigidi, dogmatici, grigi. Karol, che in URSS ha vissuto gli anni decisivi per la sua formazione, del passaggio dall’adolescenza alla maturità, è preoccupato di vedere i manuali di Lisenko, di Mitin, di Konstantinov sugli scaffali delle librerie cubane. Ma Guevara stenta a capire le preoccupazioni del suo interlocutore, dapprima rivendicando il “diritto-dovere di assicurare la formazione politica e ideologica del popolo”, dichiarando che in un paese esposto a rischi e compiti immani, “sarebbe criminale e assurdo lasciare alla gente il diritto di esitare tra le buone e le cattive ideologie”. Alle pazienti spiegazioni di Karol, che descriveva i difetti di quelle opere, Guevara rispondeva su un terreno più pragmatico: “vogliamo formare i nostri giovani il più rapidamente possibile nell’ideologia socialista e siamo ovviamente costretti a utilizzare i manuali dei paesi socialisti. Ne avete altri da consigliarci?”.
Si sarebbe ricreduto presto, grazie ai contatti diretti con il sistema sovietico, e agli sforzi per capire le ragioni della sua involuzione, cercandone le radici nei grandi dibattiti degli anni Venti, anche grazie all’incontro con Ernest Mandel.
In uno degli ultimi colloqui bimestrali al Ministero dell’Industria, nel marzo 1965, dirà amareggiato che a Mosca lo accusavano di trotskismo personaggi che usavano “come Bibbia non Il capitale, ma il Manuale di economia politica dell’Accademia delle scienze”. Proprio di quel Manuale di economia politica, nella pausa forzata in Tanzania dopo il ritiro dal Congo e prima che fosse possibile il suo trasferimento a Cuba e poi sul nuovo fronte di lotta in America Latina, Guevara portò a termine una critica severa, in un Diccionario económico il cui manoscritto si è fortunatamente conservato, anche se è rimasto inedito finora, pur essendo da anni preparato per la pubblicazione. Il lavoro – che ho avuto la fortuna di leggere integralmente pur essendo autorizzato a trascriverne solo alcune parti – è tanto più significativo in quanto portato a termine in un rarissimo momento di riposo obbligato, che gli consentiva di dedicare allo studio un tempo maggiore di quello concesso dai ritmi tremendi di lavoro che si era imposto negli anni trascorsi alla guida dell’economia a Cuba. Guevara è severissimo nei confronti delle teorizzazioni di quel manuale, che commenta più volte con la frase significativa “Questo riguarda l’URSS, non il socialismo”.
Inoltre, a forza di sentirsi etichettare come trotskista, soprattutto per la sua identificazione della burocrazia come causa principale dell’involuzione dei paesi socialisti, comincerà a sentire il bisogno di conoscere meglio quel movimento (a cui tra l’altro negli ultimi anni della sua vita aveva aderito in Argentina sua madre). Tra i libri che porta nel suo zaino in Bolivia, ci sarà la Storia della rivoluzione russa di Trotsky, e tra i suoi appunti ritrovati molti anni dopo in un quaderno che non era stato reso pubblico insieme al Diario ci sono note su molti libri che affrontano il grande dibattito sul socialismo in un paese solo.
4. Perché Guevara lascia Cuba
Sulle circostanze della morte di Guevara, sulle responsabilità dirette del governo boliviano e dei consulenti della CIA nell’assassinio a freddo di un uomo che in tutti i combattimenti aveva curato i prigionieri feriti prima di rilasciarli senza condizioni, si sa praticamente tutto, ormai. Si sa che il Che era stato colpito a un braccio mentre si attardava per proteggere i compagni in cattive condizioni di salute, invece di imboccare la via di uscita dal canalone che aveva indicato ad altri guerriglieri. Era poi stato crivellato di colpi mentre era inerme, e il suo corpo era stato fatto sparire.
I responsabili della sua morte hanno raccontato tutto, alcuni, come il generale Gary Prado, manifestando anche sincera simpatia. Hanno aiutato anche a localizzarne i resti, che sono stati portati all’Avana e scortati da una folla enorme fino a Santa Clara.
Ma non importano molto i dettagli dell’ultimo scontro. Molto più importante è chiarire alcuni punti su cui, da più parti e per motivi diversi, sono state presentate spiegazioni non convincenti. Prima di tutto, le ragioni per cui il Che aveva lasciato Cuba. Spirito di avventura? Ricerca della bella morte?
Queste interpretazioni molto diffuse sorvolano su molti dati concreti: fino a pochi giorni prima di lasciare Cuba per il Congo, Guevara non pensava affatto di doversene andare, tanto meno così presto (si unì appena tre giorni prima della partenza, unico bianco, ai circa 200 cubani che dovevano fornire consulenza militare all’esercito rivoluzionario lumumbista). Dell’arrivo dei consiglieri cubani egli aveva parlato a Dar es Salam con i leader congolesi e con il governo della Tanzania, ma non aveva accennato alla sua partecipazione neppure all’ambasciatore Pablo Rivalta, che era un suo fraterno amico dai tempi della Sierra Maestra, ed era stato scelto per quella carica proprio per preparare la “missione internazionalista”. In realtà Guevara ha lasciato il popolo che amava e che lo amava perché doveva andarsene, per evitare che l’ostilità di Mosca nei suoi confronti penalizzasse Cuba, come approfondiremo più avanti.
L’impresa del Congo, alla quale il Che non pensava di dover partecipare, era mal preparata, sia per le insufficienti informazioni sulla situazione del paese – dove un anno prima i ribelli erano sul punto di vincere ma, dopo l’intervento dell’ONU, erano ormai allo sbando – sia per i criteri con cui erano stati selezionati e formati i partecipanti all’impresa. Inoltre, molti dei cubani entrarono in crisi alle prime difficoltà, mettendo a rischio la disciplina. Quando si rese conto che la situazione non consentiva di realizzare il compito previsto e che invece di fare i consiglieri militari i cubani dovevano sostituirsi ai congolesi nei combattimenti contro i mercenari che stavano imponendo il potere di Mobutu, Guevara decide di ritirarsi. Altro che avventurismo e ricerca della bella morte!
Oggi si sa tutto anche su quella vicenda, perché nel 1994 è uscita in quattordici paesi (tranne Cuba!) un’edizione non completa del testo di bilancio di quella esperienza che il Che aveva preparato per la pubblicazione col titolo Passaggi della guerra rivoluzionaria: Congo. Era stata curata da Paco Ignacio Taibo II insieme a due giornalisti cubani: anche se c’erano alcuni tagli e un montaggio con i materiali più diversi, in genere senza indicare precisamente le fonti, quella prima edizione aveva rotto un silenzio durato quasi trenta anni e sbloccato la situazione. Alla fine è uscita un’edizione completa, anche a Cuba. Una così lunga censura si spiega probabilmente con il giudizio severo che il Che esprimeva sui dirigenti dei movimenti di liberazione africani, corrotti anche dagli “aiuti” concessi da sovietici e cinesi, e che vivevano nel lusso all’estero senza partecipare alle sofferenze e alle lotte dei loro popoli. Le raccomandazioni del Che a questo proposito non furono ascoltate dai dirigenti cubani.
Dopo una breve pausa di riflessione prima a Dar es Salam, poi in incognito a Praga (in quel periodo il Che scrive il bilancio del Congo e la sua critica più severa del manuale di economia politica sovietico) Guevara accetta di ritornare per qualche mese a Cuba, dove vive nuovamente in incognito. Come si spiega questa assoluta clandestinità, se non con la necessità di non provocare la reazione dei sovietici, che lo detestavano non meno degli Stati Uniti?
A Cuba il Che si dedica a preparare la sua ultima impresa boliviana. Parte questa volta non con un contingente di duecento combattenti, come per la spedizione africana, ma con una ventina di uomini selezionati tra i migliori che ha sperimentato sulla Sierra, e anche nel Congo. Tra questi alcuni neri, ben riconoscibili come stranieri in Bolivia, dove ci sono solo indigeni e bianchi: è la prova che non andava a calare dall’alto una guerriglia in quel paese, ma a organizzare una scuola politico-militare per guerriglieri boliviani, peruviani, argentini (e dovevano esserci anche brasiliani), e per questo aveva scelto gli uomini dotati delle caratteristiche politiche e morali necessarie per evitare i problemi che si erano verificati nel Congo.
Guevara si appoggia al Partito comunista boliviano filosovietico, che a parole si dice favorevole alla lotta armata ma in realtà non lo è affatto. È una scelta praticamente obbligata: Guevara ha rinunciato alla cittadinanza cubana, ma accetta la guida di Castro, che nel frattempo ha cominciato il suo avvicinamento all’URSS attaccando pesantemente la Cina e i trotskisti, forti in Bolivia e in diversi paesi limitrofi. Il PCB guidato da Mario Monje delude subito il Che: lo lascia solo in una zona che non ha scelto lui e che, se è adatta per un addestramento, non lo è per la guerriglia perché praticamente disabitata e lontana dalle zone in cui è più radicata la sinistra boliviana.
Nel 1968, nell’introduzione al Diario di Bolivia del Che, Fidel Castro parlò apertamente di tradimento da parte del PCB, anche se nei lunghi anni di collaborazione col blocco sovietico questo giudizio si è attenuato fortemente (ad esempio nelle interviste a Minà), limitandosi a una critica del solo Monje. Quest’ultimo, intervistato da Jon Lee Anderson nel 1997 nella Mosca di Eltsin, dove continuava a fare affari come in quella di Breznev, ha detto apertamente di avere scelto la zona di Ñancahuazú per spingere Guevara verso l’Argentina, perché non ne condivideva i progetti e voleva allontanarlo dalla Bolivia.
In quella zona il Che, una volta scoperto e braccato da forze preponderanti, è costretto a combattere per sei mesi. Vince tutti i primi combattimenti, ma rinvia il tentativo di uscire da quella trappola perché continua a cercare di riprendere i contatti con una seconda piccola colonna guidata dal cubano Joaquín, in cui ci sono malati e feriti e la famosa Tania, argentina di origine tedesca che doveva solo assicurare i collegamenti, ma ha dovuto unirsi ai combattenti perché identificata.
I due gruppi arrivano fino a pochi chilometri gli uni dagli altri, ma non si trovano, perché non hanno radio trasmittenti. Solo alla fine di agosto, saputo da comunicati delle emittenti governative che gli altri sono finiti in un’imboscata e sterminati, Guevara si decide a uscire da quella regione inospitale dove è impossibile qualsiasi reclutamento. Deve però attraversare una zona più abitata ma fortemente influenzata dal governo militare, e durante lo spostamento viene intercettato e poi catturato e ucciso con tutti, meno sei che riescono a rompere l’accerchiamento.
Di essi uno morirà nei primi giorni di scontri, gli altri (tre cubani e due boliviani) sfuggono a lungo alle migliaia di soldati che li braccano. I cubani sono identificabilissimi perché neri, e su di loro c’è una forte taglia, ma appena usciti dalla zona dove erano stati intrappolati da Monje e dalla “cintura” preparata dai militari, trovano una popolazione che li nasconde e li protegge, fino a farli arrivare al sicuro in Cile cinque mesi dopo.
Una prova evidente che la sconfitta non era fatale, ma legata alle condizioni in cui Guevara era stato lasciato senza contatti, senza rifornimenti, senza medicine per l’asma, da chi doveva assicurare i collegamenti e lo ha invece semplicemente abbandonato. Intanto migliaia di minatori e di studenti raccoglievano fondi e volevano unirsi alla guerriglia, senza poterla raggiungere. Nel fallimento dell’impresa il tradimento del PCB ha pesato dunque più di qualsiasi errore fatto dal piccolo gruppo di rivoluzionari.
Un ultimo dato: Guevara non era andato in Bolivia per portarvi dall’esterno la rivoluzione (diceva sempre che sarebbe stato l’ultimo paese dell’America Latina a liberarsi), ma la crisi politica in quel paese era effettivamente imminente. Nell’anno successivo alla sua uccisione, due dei generali al potere muoiono in misteriosi incidenti aerei, e tre anni dopo un poderoso movimento di massa liquida il regime militare, anche se per la debolezza e le contraddizioni della sinistra il paese è ricaduto di nuovo più volte sotto dittature reazionarie.
Scheda
Bibliografia essenziale sulla Bolivia
Per ricostruire le vicende qui appena accennate sono fondamentali tre libri di notevole ampiezza: Paco Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza, Saggiatore, Milano, 1997; Jon Lee Anderson, Che Guevara. Una vita rivoluzionaria, Baldini e Castoldi, Milano, 1997, e Jorge Castañeda, Compañero. Vita e morte di Ernesto Che Guevara, Mondatori, Milano, 1997. Sono ispirati a criteri diversi, ma sono ricchi di documentazione preziosa. Inoltre segnalo l’ampia Introduzione di Antonio Moscato a In Bolivia con il Che. Gli altri Diari, a cura di Roberto Massari. vanno segnalati i cinque Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara, e in particolare il secondo, curato da Carlos Soria Galvarro, che riporta preziosi documenti del dibattito interno al PCB nel periodo precedente e immediatamente successivo all’impresa di Guevara. (anno II, 1999, pp. 362)
5. Guevara contro Castro? Una grossolana falsificazione
Chi tentò di contrapporre Guevara a Castro, magari favoleggiando su un risvolto “giallo” della sparizione del Che dalla scena politica cubana nel 1965-1967, prese un abbaglio formidabile. Dagli scritti del Che, fino all’ultimo, con la sola eccezione della crisi di fiducia del novembre-dicembre 1957, quando aveva temuto che Castro si fermasse a metà e che fosse uno dei tanti borghesi di sinistra, traspare un legame politico e perfino affettivo profondo con il “Comandante supremo”, e una straordinaria modestia che escluse in ogni momento che egli si presentasse come capofila di un’opposizione aperta o latente.
Eppure, il corso successivo della politica internazionale della rivoluzione cubana, a partire dal 1968, e lo stesso consolidarsi delle strutture politiche ed economiche ricalcate sul modello sovietico, confermano che non era infondata l’ostilità nei confronti del Che manifestata dai dogmatici filosovietici a Cuba e in tutta l’America Latina. Guevara, se rifiutò in ogni momento qualsiasi tipo di contrapposizione nei confronti di Fidel, privilegiò di fatto una particolare lettura della politica castrista, soprattutto sul terreno di un recupero pieno di un internazionalismo non rituale e non solo statuale, e dell’accentuazione dell’intransigenza classista, che escludeva ogni possibilità di alleanze ambigue.
Se si tiene conto anche della brusca e non diplomatica franchezza con cui si esprimeva, su questioni di ogni genere, e di uno stile di vita che appariva in stridente contrasto con la corsa ai piccoli e grandi privilegi materiali che caratterizzò fin dall’inizio alcuni dei nuovi dirigenti (soprattutto gli arrivisti divenuti “barbudos” all’ultimo momento, ma anche diversi guerriglieri provati e non pochi vecchi militanti del PSP), si comprende perché Guevara fu sempre la bestia nera di chi puntava soltanto al consolidamento di quanto si era raggiunto e temeva che la scelta di considerare Cuba come “primo territorio libero di America” e quindi base per un’estensione continentale della rivoluzione, mettesse in pericolo i risultati acquisiti.
Quello che suscitava ostilità nei suoi confronti era la tenace unilateralità del suo impegno in questa direzione, a livello di scritti, discorsi ed azioni. Quella che per alcuni era un’aggravante era la sua spregiudicata denuncia dei limiti della rivoluzione, che lo sottraeva ad ogni rischio di agiografia per il suo stesso passato eroico (che sarebbe stato facile mitizzare, dato che a poter testimoniare sui suoi difficili inizi erano rimasti ben pochi, e che invece descrisse lucidamente, senza nascondere debolezze, ingenuità, tradimenti, nelle bellissime pagine dei Pasajes de la guerra revolucionaria), e che veniva rimessa in discussione giorno per giorno nelle sue realizzazioni, attraverso i colloqui con i collaboratori, i lavoratori, gli spettatori della televisione, a cui ricorreva frequentemente, a Cuba e fuori, per affrontare i temi più scottanti.
La leggenda della contrapposizione, alimentata dai nemici, era in qualche modo anche il riflesso della sotterranea campagna contro Guevara condotta, negli ultimi anni della sua vita, all’Avana (ma ancor più da Mosca, da Praga, da Bucarest), da parte di chi sapeva di non poter attaccare direttamente Fidel. Lo disse apertamente lo stesso Raúl Castro, pochi mesi dopo la morte del Che, nell’atto di accusa contro la Microfracción filosovietica di Aníbal Escalante.
La campagna era facilitata dal fatto che durante il primo anno della rivoluzione l’ostilità dei borghesi cubani e dell’imperialismo si era concentrata proprio su Guevara, accusato di essere “estremista” e l’ispiratore della trasformazione della rivoluzione, che non si fermava più al solo abbattimento della dittatura, ma diventava socialista. La prima enunciazione del programma che poi la rivoluzione effettivamente adottò era stata fatta dal Che già il 27 gennaio del 1959, meno di un mese dopo l’entrata all’Avana: oltre al rifiuto di sciogliere le formazioni guerrigliere, che dovevano trasformarsi in esercito popolare per presidiare le conquiste della rivoluzione, il Che indicava la necessità di una riforma agraria radicale, della nazionalizzazione dell’industria e dei servizi, e di un aiuto concreto ai movimenti di liberazione in America Latina.
Nei primi mesi Guevara appariva quindi la figura di punta della rivoluzione, mentre Fidel si era ritirato per una certa fase nell’ombra, e gli era stata attribuita perfino l’intenzione di ritirarsi come un Cincinnato.
Tra il 1960 e il 1965, la collaborazione tra i due leader fu strettissima. Guevara partì da Cuba non per dissidi con Castro ma perché convinto che per gli errori iniziali, anche suoi, dovuti all’inesperienza, si finisse per riprodurre meccanicamente il modello sovietico, di cui aveva sperimentato da vicino l’inefficienza. Inoltre, le critiche sempre più precise del Che alla politica estera sovietica (e anche cinese, dopo una effimera simpatia per il maoismo) erano diventate pubbliche nel febbraio 1965, nella II Conferenza afroasiatica di Algeri, alla presenza di dirigenti dei movimenti di liberazione e di centinaia di giornalisti.
La partenza affrettata e senza preparazione adeguata per il Congo fu concordata con Fidel, per evitare che l’ostilità sovietica nei confronti del “trotskista” Guevara arrivasse fino al ricatto della riduzione delle forniture di petrolio.
La convinzione di un dissidio irreparabile tra i due, tuttavia, è molto diffusa a livello popolare a Cuba, e si basa sulla contrapposizione della nostalgia per i primi anni della rivoluzione, in cui il consenso era massimo, e molte scelte successive di Castro: dai legami anche ideologici stretti con l’Unione sovietica a partire dal 1971-1972 alle svolte improvvise e non meditate in economia. Naturalmente non è possibile dire con certezza che il Che le avrebbe disapprovate, ma non c’è dubbio che, contrariamente alla leggenda, Guevara non era un sognatore e un improvvisatore: si basava su un’attenta analisi del rapporto costo-ricavi e puntava a una razionalizzazione della produzione volta a renderla più economica.
Si era inoltre espresso nettamente contro l’ipotesi di una nazionalizzazione generalizzata delle piccole e piccolissime imprese artigiane e commerciali, che invece Castro realizzò nel 1968 (chiamandola “offensiva rivoluzionaria” e sostenendo che era la realizzazione delle idee del Che).
Ma la differenza principale è nel metodo: finché è stato vivo Guevara, e non solo per merito suo, le scelte politiche ed economiche erano il frutto di un’appassionata discussione pubblica sulla stampa, mentre negli anni successivi sono state prese sempre più con criteri che un grande amico della rivoluzione cubana, l’uruguayano Eduardo Galeano, ha definito “monarchici”. E mentre il Che ricercava sempre in primo luogo le sue responsabilità personali, i molti insuccessi di Castro sono stati sempre più attribuiti ad altri dirigenti, bruscamente destituiti per disastri provocati da scelte non loro.