di Fabrizio Burattini
Nelle elezioni italiane del 25 settembre, tutto come previsto. La destra ha vinto a mani basse, mentre il PD ha perso miserevolmente e la partecipazione al voto non riesce a raggiungere il 64%. Il fatto che tutto ciò non ci sorprenda non toglie nulla al carattere dirompente di questi risultati.
Certo la destra, con i suoi 12 milioni di voti, tenendo conto anche di coloro che si sono astenuti, rappresenta solo il 26,6% del corpo elettorale, ma, grazie alla divisione dello schieramento opposto e a una legge elettorale antidemocratica e distorta, elegge quasi il 60% di deputati e senatori. La sua vittoria ha un valore simbolico inedito nella storia della Repubblica. L’Italia finisce nelle mani di una coalizione egemonizzata dagli eredi di Mussolini, di Almirante e di Rauti.
La crisi di credibilità della democrazia
La vittoria di Giorgia Meloni si colloca nel contesto di un ulteriore incremento della non partecipazione al voto. 17 milioni di cittadine e cittadini non hanno votato (il 36% dell’elettorato, un altro record storico). La crisi della democrazia continua e si approfondisce, assieme al discredito, alla percezione della inutilità sociale delle istituzioni elettive.
Dove si collochi più precisamente questa crisi di credibilità della democrazia borghese e della democrazia tout court ce lo diranno gli studi statistici che verranno prodotti nelle prossime settimane.
Ma qualche sguardo ai dati disaggregati ci fornisce già alcuni elementi. Il fenomeno si consolida e dilaga soprattutto al Sud e nei quartieri popolari. Nelle regioni del Sud l’astensione è dovunque superiore al 40% (in Calabria sfiora il 50%). Nei quartieri popolari della periferia di Napoli e di Roma, ad esempio, si registra rispettivamente il 44% e 56%, mentre nei municipi del centro delle due città si raggiunge il 61% e il 72%.
E anche la composizione politica del voto si articola su base territoriale. Sempre ad esempio, nei municipi del centro di Roma il PD è il primo partito (27%), FdI con il 23% è sotto la media nazionale e Azione di Calenda raccoglie il 16%, mentre nella periferia Sud Est, FdI raggiunge il 32%, il PD è sotto la media nazionale e Azione non arriva al 6%. Si conferma come la “sinistra” social-liberale abbia perso ogni legame con il disagio sociale.
Secondo una ricerca dell’istituto SWG, tra gli operai l’astensione ha raggiunto il 45% e le liste più votate sono state quelle di FdI e del M5S e quella meno votata (tra le liste principali) è stata quella di Azione, il “partito dei Parioli”. Analogamente, sempre secondo la stessa ricerca, anche nell’elettorato “che ha più difficoltà economiche” l’astensione ha toccato il 46%, i partiti più votati sono stati FdI (29%) e il M5S (21%) e il meno votato Azione (2%).
Una destra “stagnante” ma trionfante
Il successo della destra è stato definito “folgorante” da qualche commentatore. Esso però non nasconde la sua dimensione “stagnante” (la coalizione raccoglie solo 200.000 voti in più di quelli di 5 anni fa). Ma, come dicevamo già all’inizio, grazie alla legge elettorale, con i suoi 12 milioni di voti avrà una rappresentanza parlamentare di quasi il 60% dei seggi.
Il successo di Fratelli d’Italia (FdI) si basa sul suo cannibalismo a danno degli alleati: Giorgia Meloni in 5 anni quintuplica i consensi, mentre Berlusconi li dimezza e Salvini ne mantiene solo 2 ogni 5. Solo due anni fa il presidente leghista del Veneto Luca Zaia venne rieletto con 1,9 milioni di voti e il 77%. Questo 25 settembre la Lega in quella regione ha raccolto solo 360.000 voti, pari al 14,5%, mentre FdI ne rastrella 820.000, sette volte di più che nel 2018, quattro volte di più che nel 2020. Di fronte a questa sconfitta, che ne sarà della leadership di Salvini nella Lega?
La destra, pure se non è maggioranza nel paese, dominerà in maniera incontrastata il nuovo parlamento, tanto che le forze di opposizione almeno per ora per simulare una partita ancora aperta cercano di consolarsi sperando in fratture nella nuova maggioranza reazionaria. Ma Berlusconi, con i suoi 86 anni, resterà finché vivrà il leader indiscusso e indiscutibile di Forza Italia. Quanto alla leadership di Salvini si può facilmente prevedere che sarà al centro di un dibattito difficile nella Lega. In quel partito esiste da sempre una corrente nordista autonomista ostile al progetto del leader di custruire una forza di destra a livello nazionale. Ed è inoltre presente, e intrecciata con la precedente, una corrente molto legata al progetto di normalizzazione neoliberale che era rappresentato dal governo Draghi.
Ma, vista la forza parlamentare della coalizione e, al suo interno, il dominio incontrastabile di Giorgia Meloni, è improbabile che queste discussioni possano mettere in pericolo la maggioranza di destra almeno nel breve-medio periodo.
La debacle del centrosinistra
Il Partito democratico raccoglie 5.350.000 voti, 800.000 in meno di quelli ottenuti nelle elezioni del 2018, che venne all’epoca ritenuto il peggiore risultato nella storia del partito. Infatti nel partito si è già aperta una fase congressuale per ridefinire l’identità politica e rinnovare il gruppo dirigente. Il PD ha riscosso i miseri frutti della sua sciagurata politica: nel 2017 ha fatto passare una legge elettorale (il “Rosatellum”) ritenendo che agevolasse la sua permanenza al potere mettendo in difficoltà il Movimento 5 Stelle; e il mostro gli si è rivoltato contro. Infatti oggi, con il 19% dei voti non ha più del 16% dei seggi parlamentari (al pari della Lega, che però ha avuto meno della metà dei voti del PD).
D’altra parte le responsabilità del PD non si limitano alla pessima legge elettorale. Il PD ha anche una pesantissima responsabilità nella crescita della destra e della destra più estrema. Ha una responsabilità storica per le aperture di credito “democratico” che ha fatto verso i post-fascisti nei decenni scorsi. Risuona ancora il discorso che fece nel 1996 Luciano Violante, allora dirigente dei “Democratici di sinistra”, che equiparò i partigiani alle “ragazze e i ragazzi della Repubblica di Salò” e che una decina di anni dopo omaggiò Giorgio Almirante (il massimo dirigente del MSI, il precursore di FdI) per la sua “scelta di democrazia”, rimuovendo il fatto che costui era stato l’artefice delle leggi fasciste antiebraiche e che era riuscito a riunire nel suo partito perfino le frange più violente del postfascismo.
Ma il PD ha anche una responsabilità politica perché, al fine di riproporre come modello il governo Draghi e il suo programma, ha fin dall’inizio escluso ogni possibilità di alleanza con il Movimento 5 Stelle, decretando così l’inevitabilità della vittoria della destra e rendendo assolutamente inattendibile la sua campagna per il “voto utile”. E non solo: ha sempre cercato di circoscrivere la sua presa di distanza dalla destra a questioni identitarie (il “rispetto per la Resistenza”, il riconoscimento della festività del 25 aprile) e ad una fiacca difesa dei “diritti civili” (diritti delle donne, diritti della comunità LGBT, un fragile diritto al “testamento biologico”, la necessità di una limitata apertura all’immigrazione…) senza mai mettere a tema le questioni sociali, per un motivo molto semplice, perché su queste c’era e c’è una larga convergenza con i programmi della destra.
Tra gli sconfitti possiamo anche annoverare la lista di “Azione”, presentata congiuntamente da Carlo Calenda, da Matteo Renzi e dalle parlamentari scissioniste di Forza Italia, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Volevano avere un risultato che impedisse la formazione di una chiara maggioranza per poter assumere il ruolo di “ago della bilancia” tra il PD e la destra. Invece i loro 30 parlamentari (20 alla Camera e una decina al Senato, raccolti con il 7,8% dei voti) saranno largamente ininfluenti nella formazione del nuovo governo.
La sconfitta “vittoriosa” del Movimento 5 Stelle
Numericamente c’è un altro soggetto politico sconfitto e in modo pesante: il Movimento 5 Stelle (M5S) perde 6,5 milioni di voti rispetto agli oltre 10 milioni conquistati 5 anni fa e la sua percentuale si dimezza (da 32,7% a 15,42%). Ma fino a pochi mesi fa veniva ritenuto sostanzialmente polverizzato nei sondaggi. Poi la “discesa in campo” del suo “nuovo” leader, Giuseppe Conte, forte della popolarità acquisita come presidente del consiglio tra il 2018 e il 2020 e rinvigorito da un tardivo ma determinante passaggio all’opposizione, l’ha rivivificato, consentendo ai suoi supporter di considerare quel risultato, formalmente disastroso, un sostanziale successo.
La “resurrezione” del M5S, che tutti davano per morto, è anche il frutto dell’essersi presentato come l’ideatore del “reddito di cittadinanza” e oggi il suo più strenuo difensore di fronte alla volontà di buona parte del mondo politico di abolirlo o almeno di ridimensionarlo drasticamente. E di essere apparso come una sorta di “partito del Sud”, un Sud che ha vissuto un declino economico ancora più marcato rispetto al resto del paese, tanto più di fronte a governi che, in forza della loro ideologia liberale, hanno da tempo cessato ogni sforzo per colmare il divario. Nelle regioni del Sud e in Sicilia il M5S raccoglie risultati oscillanti tra il 35% e il 42%.
Un altro sconfitto
C’è poi, fuori dall’agone elettorale, un altro importante sconfitto: Draghi e il suo governo. Messo al potere nel febbraio 2020 con l’obiettivo di rilanciare una gestione governativa squisitamente neoliberista e di mettere all’angolo il populismo dei 5 Stelle, in realtà è riuscito a far crescere nel paese un populismo ancora più insidioso come quello di Giorgia Meloni e del resto della sua coalizione. I due partiti che in misura diversa avevano riproposto il programma politico sociale dell’ex presidente della BCE (il PD e Azione) escono entrambi sconfitti dalla prova, raccogliendo insieme, attorno alla cosiddetta “agenda Draghi” solo il 25% dei voti.
Tutto ciò fa giustizia di tutti coloro (Confindustria, mass media, ma anche sindacati confederali…) che hanno pianto calde lacrime per la caduta del governo del banchiere “che tutto il mondo ci invidiava”. Il paese ha premiato tutti coloro che hanno preso le distanze da quel governo.
Una destra capace di mobilitare
Così, la destra è riuscita a fornire al proprio elettorato un obiettivo mobilitante, facendolo apparire come un progetto di governo nuovo, e riuscendo a nascondere il fatto che buona parte del personale politico di FdI è riesumato dalle compagini dei governi berlusconiani.
Al contrario il PD non è riuscito a motivare l’elettorato, neanche con la bufala del “voto utile” contro la destra, e ha ottenuto solo il voto stanco del suo elettorato più fedele.
Qui vale la pena di segnalare anche le gravissime responsabilità dei principali sindacati che hanno lasciato la popolazione lavoratrice del tutto indifesa contro l’offensiva restauratrice della classe dominante e che a volte, in nome della concertazione, hanno perfino collaborato con quella offensiva. Cosicché le lavoratrici e i lavoratori hanno perso ogni fiducia nella possibilità di migliorare le cose, hanno ceduto di fronte allo stritolamento di tutti i meccanismi di solidarietà e hanno cominciato a dar credito sempre di più alla demagogia reazionaria della destra.
Alla sinistra del PD
Anche Sinistra Italiana, in coalizione con il PD, esce insoddisfatta dalla prova. Raccoglie un milione di voti, circa 100.000 meno di 5 anni fa, ma in comune con i Verdi. Il suo essersi coalizzata con il PD, e con la sua “agenda Draghi”, ha sostanzialmente annullato il valore della sua opposizione al “governo dei migliori”.
Molto deludente anche il risultato di Unione popolare; la lista comune costruita nelle ultime settimane prima del voto dal Partito della rifondazione comunista, da Potere al popolo, da 4 parlamentari transfughe del M5S e da Luigi de Magistris ha raccolto 400.000 voti, pari all’1,43%, solo 90.000 più di quanto raccolse la lista di Potere al Popolo nel 2018, restando così parecchio al di sotto dello sbarramento del 3%.
UP paga certamente il suo carattere estemporaneo e elettoralista, che il precipitare verso le elezioni anticipate ha reso ancora più evidente. Gli errori della sinistra dei decenni scorsi, la scelta dei gruppi dirigenti delle forze principali di far naufragare nel 2018 l’esperienza del fronte elettorale costruito appena un anno prima, l’intestardirsi a “ricominciare ogni volta da capo”, senza nessuna progettualità strategica, cercando ogni volta un “deus ex machina” (alle europee il richiamo a Tsipras, alle politiche prima il magistrato Ingroia, oggi l’altro giudice De Magistris), la miscela di identitarismo e di movimentismo: sono tra le cause di un declino della sinistra “radicale” italiana che appare sempre più irreversibile, a meno di profonde svolte politiche e di un improbabile ma indispensabile e drastico cambio di gruppi dirigenti.
Una svolta storica
Con la virtuale elezione di Giorgia Meloni a presidente del consiglio nelle votazioni svoltesi domenica 25 settembre nel nostro paese è stato rotto il “tetto di cristallo” relativo all’accesso di donne alle più alte cariche dello stato.
Ma è stato anche eliminato un altro tabù che aveva sempre messo il partito erede del fascismo ai margini del mondo istituzionale italiano, anche in forza della disposizione costituzionale che “vieta la riorganizzazione del Partito Nazionale Fascista”. Nel 1960 il Movimento sociale di Arturo Michelini e poi di Giorgio Almirante (diretto erede del partito di Mussolini) fu improvvidamente coinvolto in una maggioranza governativa dalla destra democristiana e la reazione di piazza fu talmente forte da indurre il MSI a rinunciare al suo tentativo di incidere nel gioco politico del paese.
Da allora venne coniata la formula politica “arco costituzionale”, che alludeva al complesso dei partiti che avevano partecipato alla redazione della Costituzione, dalla Dc e dal Partito liberale al PCI.
Successivamente, gli epigoni del MSI, guidati da Gianfranco Fini, per legittimarsi come partito di governo al fianco di Berlusconi, dovettero passare nel 1995 attraverso un congresso “rifondativo” e la creazione di un partito nuovo, Alleanza nazionale, che dichiarò “solennemente” che “l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”.
Al di là di ogni considerazione sulla genuinità di quella “rifondazione”, il partito di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni è composto e diretto da tanti militanti che a quella svolta non credettero o addirittura ad essa si opposero, come ad esempio Isabella Rauti, ex dirigente del movimento esplicitamente neofascista “Fiamma tricolore”, figlia di Pino Rauti, più volte inquisito per reati commessi da gruppi terroristici di estrema destra.
Lo ripetiamo, si tratta di una svolta di dimensioni storiche, che colloca al potere in Italia un partito erede del fascismo. E questo, beffa della storia, avviene giusto a 100 anni dalla presa del potere del fascismo novecentesco (28 ottobre 1922).
Giorgia Meloni e l’Unione europea
Ma questa svolta è politicamente traumatizzante solo per la sinistra. Il mondo imprenditoriale è tutt’altro che spaventato dall’arrivo dell’estrema destra al governo. D’altra parte Giorgia Meloni, nonostante l’opposizione formale, ha condiviso la sostanza del programma di Draghi, semmai accusandolo di aver fatto poco nella direzione del “rilancio economico del paese”, ben sintetizzato nello slogan centrale di FdI: “pronti a risollevare l’Italia”. E sono molte le indiscrezioni che rivelano come Mario Draghi abbia già avviato un confronto con la leader postfascista per arrivare ad un “passaggio di poteri non traumatico”. E anche i “mercati” sembrano non essere particolarmente scossi dalla svolta politica italiana. Standard & Poor’s ha comunicato: “non prevediamo imminenti rischi di bilancio dalla transizione al nuovo governo”.
D’altra parte, occorre sottolineare che, dopo aver mostrato una malcelata speranza perché venisse rinnovato il mandato a Draghi (vedi le dichiarazioni di Ursula Von Der Leyen, che ha minacciato una “procedura di infrazione” contro il nuovo governo italiano, e l’esplicito endorsement del cancelliere tedesco Olaf Scholz a favore del PD), la UE ha scelto, com’era inevitabile, di riconoscere il nuovo governo.
In fondo è sbagliato descrivere la presidente di FdI e il suo partito come “antieuropeisti”. Giorgia Meloni, anche in passato e non solo in queste ultime settimane quando si era impegnata a presentare il suo volto più moderato e “compatibile”, ha più volte parlato di un suo “europeismo anomalo”, di un “modello confederale” in cui l’Europa si dovrebbe occupare dei “grandi temi” sui quali gli stati nazionali si dimostrano “insufficienti in un mondo globalizzato”, mentre di tutto resto si occuperebbero gli stati nazionali stessi, in una sorta di “principio di sussidiarietà”. Il suo è un richiamo esplicito a Charles De Gaulle, che d’altra parte nel 1958 fu preso come punto di riferimento dal suo padre politico Giorgio Almirante.
Anche quanto alla fedeltà alla NATO, Giorgia Meloni si colloca pienamente nel solco che fu già dal dopoguerra in poi quello del Movimento sociale italiano, che, dopo una breve stagione di “terzaforzismo” (“né con l’URSS né con gli USA”), aderì pienamente all’atlantismo, mettendo persino il suo viscerale anticomunismo al servizio della CIA.
In Italia, i mass media si rifiutano di usare la definizione di “fascista” o “postfascista” nei confronti di Giorgia Meloni, comprendendo bene che tale definizione usata nei confronti della futura premier entrerebbe platealmente in contraddizione con il dettato costituzionale. Ma il moderatismo usato da Giorgia Meloni durante la campagna elettorale non riesce a far dimenticare le sue sfuriate razziste degli scorsi anni o lo sguaiato discorso pronunciato a giugno a Marbella a sostegno delle liste dei postfranchisti di Vox nelle elezioni andaluse.
Vale la pena di citare il fatto “curioso” ma estremamente indicativo accaduto nella notte tra il 25 e il 26, quando affluivano i risultati delle elezioni. FdI ha singolarmente evitato in quella notte di organizzare la tradizionale cerimonia di festeggiamento con cui il partito vincitore celebra il suo successo e si è limitata ad organizzare in un hotel romano solo una riunione con tantissimi giornalisti ma poche decine di selezionati supporter. Il motivo di quella scelta è stata la paura, o meglio la certezza che in un raduno più esteso una parte significativa del pubblico si sarebbe lasciata andare ai saluti romani a braccia tese e a cori fascisti, scoprendo in modo imbarazzante le carte.
Con il successo della destra italiana e in particolare del partito di Giorgia Meloni (che arriva pochi giorni dopo l’analoga storica vittoria della destra svedese), si consolida il peso politico della destra a livello internazionale e in particolare nell’Unione europea e appare più evidente la crisi delle forze storicamente centrali nel progetto della UE, il Partito popolare (a cui in Italia fa riferimento Forza Italia di Berlusconi) e il Partito socialista europeo (a cui aderisce il PD italiano). Questo progressivo spostamento di asse traspare nettamente dalle dichiarazioni entusiastiche del premier polacco Mateusz Morawiecki e di quello ungherese Viktor Orban. Mentre Marine Le Pen (Rassemblement National francese) e Santiago Abascal (Vox spagnola) colgono dal successo di Giorgia Meloni un evidente segnale di incoraggiamento.
Il cambio di governo e le sue vittime designate
I migranti troveranno sempre più difficoltà a raggiungere le coste italiane. Potrebbe essere perfino peggio di quel che accadde nel 2018-19, quando le navi piene di rifugiati venivano tenute ancorate fuori dai porti e veniva loro negato l’ingresso e lo sbarco. Ma anche i migranti già installati nel paese avranno ancor maggiore difficoltà per accedere ai servizi sociali. Tutto ciò verrà gettato in pasto alla base elettorale della destra.
Altra vittima designata sarà il reddito di cittadinanza, che secondo l’ISTAT ha tolto dalla povertà un milione di persone. Il RdC verrà ridimensionato e forse addirittura abolito, o limitato ai casi più gravi. I 7 miliardi di euro (meno dello 0,5% del PIL) destinati al reddito di cittadinanza verranno dirottati verso le imprese, ritenute da tutti quelle che “producono lavoro e ricchezza”. La destra ha ripetuto a tutto spiano che il reddito di cittadinanza è responsabile della “carenza di manodopera” nel settore terziario.
Certamente verrà ulteriormente indebolita la lotta all’evasione fiscale, perdonando le frodi ampiamente usate da un settore sociale nel quale la destra è molto forte: i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori.
Altro bersaglio della destra al governo saranno i diritti civili, la possibilità per i giovani figli di immigrati di ottenere la cittadinanza italiana, i diritti delle persone LGBT, i diritti delle donne, il diritto di ciascuno di decidere sulla propria vita.
E verranno inasprite le norme sul diritto di manifestazione. I decreti Salvini (ottobre 2018) che sanzionano pesantemente l’occupazione di edifici, il “blocco stradale”, l’accattonaggio, che dispongono il divieto di accesso a determinati luoghi per soggetti ritenuti “pericolosi” (il cosiddetto Daspo), mai abrogati dai governi Conte 2 e Draghi, verranno ulteriormente applicati e induriti.
Anche il diritto di sciopero è a rischio. Le misure vigenti di forte limitazione del diritto di sciopero, adottate nel periodo della maggiore “concertazione” tra sindacati e governo (anni 90), saranno aggravate.
Sul piano ambientale, come già prospettato da Draghi, la destra consentirà alle imprese petrolifere di trivellare ovunque alla ricerca dell’oro nero, costruirà ovunque rigassificatori e inceneritori per i rifiuti, riutilizzerà il carbone e riaprirà all’uso delle centrali nucleari messe fuorilegge dal referendum del 1987. Con il governo della destra avremo il “negazionismo climatico” al potere.
Infine, sul piano istituzionale, la destra, tutta, propone una riforma “presidenzialista”, cioè una modifica costituzionale che riduca ulteriormente le prerogative del parlamento e che affidi, appunto sul modello della Quinta repubblica francese, più poteri al presidente della Repubblica che, fino ad oggi, ha quasi esclusivamente un potere di controllo sull’attività degli altri organi istituzionali. E verrà accelerato l’iter di applicazione della “autonomia differenziata”.
Ma l’ipotesi di un sistema politico presidenzialista non è stata patrimonio esclusivo della destra. Negli anni novanta, venne prospettata persino dai Democratici di sinistra “postcomunisti” di D’Alema. Così come “trasversale” è il sostegno al progetto di autonomia differenziata.
Per procedere in maniera rapida ad una riforma della Costituzione in senso presidenzialistico ci vorrebbe una maggioranza di almeno il 66% del parlamento e questo obiettivo potrebbe essere raggiunto dalla destra attraverso un compromesso con i parlamentari “liberali” di Azione.
Che prospettive?
Molti commentatori minimizzano quel che è accaduto. “I consensi elettorali sono fluidi dopo la fine dei partiti di massa” dicono. E si consolano prevedendo che in capo a pochi anni il successo di Giorgia Meloni si sgonfierà, come accadde con il PD di Renzi, con il Movimento 5 Stelle, con la Lega di Salvini.
L’affermazione ha un fondamento. E’ chiaro che i milioni di consensi che ha riunito FdI non corrispondono a milioni di “postfascisti”. Tantissimi hanno votato per quel partito perché l’hanno malauguratamente ritenuto la risposta più adeguata alla crisi politica che il paese conosce da anni. Ma Fratelli d’Italia non è un partito comparabile con la Lega di Salvini, con il M5S di Grillo, e neanche con il PD che fu di Renzi.
E’ un partito che per la sua natura utilizzerà i 5 anni di potere e il suo controllo sulle istituzioni per cambiare l’Italia. Tanto più in assenza di qualunque progettualità seria sul fronte opposto, con una “sinistra” sempre più distante dalle sofferenze e dai movimenti dei soggetti sociali che dovrebbero essere al centro della sua politica. Con un “centro politico” (il PD e Azione) privo di ogni autorevolezza, obbligato da decenni ad affidare il futuro del paese a “tecnici” cresciuti nei consigli di amministrazione delle banche (Dini, Ciampi, Monti, Draghi).
Sperare che la demagogia di Meloni entri in crisi da sola per dare luogo a un nuovo governo tecnico guidato da un ennesimo banchiere non appare come un’alternativa particolarmente attraente. Ma è l’unica che il PD è oggi capace di mettere in campo.
Quanto al Movimento 5 Stelle non ci si può nascondere che tra i partiti principali è stato l’unico a toccare le questioni sociali più brucianti, la perdita di potere d’acquisto, la disoccupazione, il Sud, la povertà, il diritto alla casa… Ma non va neanche dimenticato che una cosa è parlare di queste cose nei comizi, altra è organizzare movimenti di lotta per ottenerle.
Per il momento le iniziative in campo sono poche, quasi che questo nuovo contesto non fosse già scritto nelle cose. La Cgil ha convocato a Roma una manifestazione per sabato 8 ottobre, con lo slogan “Italia Europa, ascoltate il lavoro”. E’ prevedibile una grande partecipazione, che raccoglierà il disappunto di una larga fetta di democratici di fronte ai risultati elettorali. Ma è una manifestazione senza una chiara piattaforma, solo una dimostrazione di esistenza.
I sindacati di base, per una volta tutti insieme, hanno indetto una giornata di sciopero generale per il 2 dicembre, una scadenza tutta da costruire che metterà alla prova la capacità delle tante sigle di costruire un progetto di convergenza reale.
E’ in atto nel paese la campagna nonpaghiamo.it contro lo straordinario incremento dei costi dell’energia per le famiglie e per i ceti popolari, un po’ sul modello del movimento britannico Don’t Pay. Si stanno moltiplicando le adesioni e si stanno costruendo un po’ ovunque collettivi di attivisti impegnati in questa campagna.
Infine, un grande successo hanno avuto le manifestazioni che venerdì 23 settembre hanno radunato in 70 città decine di migliaia di giovani di Fridays for Future, per rivendicare dalle istituzioni la presa in carico della crisi climatica e delle sue conseguenze. Il negazionismo climatico della destra di governo dovrà misurarsi con questo movimento.