di Fabrizio Burattini
Lo sport ha sempre funzionato da potente diversivo. L’operaio juventino e padron Agnelli (o gli Elkan) accomunati dal sostegno alla squadra bianconera, i cittadini di ogni collocazione sociale unificati dal tifo agli “azzurri” nel calcio e in ogni altra disciplina. In quest’ultimo anno, i successi degli atleti italiani (le numerose medaglie conquistate alle Olimpiadi di Tokio e in altri campionati delle più diverse specialità) sono stati utilizzati per glorificare l’Italia del “governo dei migliori”. Anche se le medaglie non sono bastate ad evitare la crisi e le elezioni anticipate.
Il mito dello sport estraneo alla politica
E’ una vecchia storia. D’altra parte il mito “decubertiniano” dell’atleta “dilettante” forse non funzionava neanche al tempo delle Olimpiadi dell’antica Grecia. Il successo sportivo il più delle volte, soprattutto negli sport più popolari, si traduce rapidamente in ricchi profitti sia diretti (per gli atleti e per le società che li hanno ingaggiati con lauti premi) sia indiretti (sponsorizzazioni e pubblicità).
Ma non è solo questione di soldi. Gli atleti sono sempre stati dei “modelli” per buona parte dell’opinione pubblica. E la politica e i partiti (di ogni colore) li utilizzano. Sono numerosissimi i nomi delle o degli sportive/i che al termine della carriera agonistica sono “scesi in campo” in politica, adescati dai più vari partiti per sfruttarne la popolarità e la presunta autorevolezza; solo per citarne alcuni, Damiano Tommasi, nuovo sindaco PD di Verona, Gianni Rivera, a lungo parlamentare e poi sottosegretario, Valentina Vezzali, deputata e sottosegretaria di Forza Italia… E l’elenco potrebbe continuare per pagine, anche a livello internazionale: con Pelè, la storica mezz’ala brasiliana che fu ministro, per non parlare dell’ex calciatore milanista George Weah divenuto nel 2018 presidente della Liberia.
E non sono solo le/gli atlete/i ad essere utilizzate/i politicamente, ma anche e, per certi versi ancor di più, gli eventi sportivi. E’ risaputo come Hitler cercò di utilizzare le Olimpiadi berlinesi del 1936 per sostenere l’immagine del regime nazista e la presunta “superiorità della razza ariana”, e come quel disegno sia stato polverizzato clamorosamente dalla vittoria dell’altrettanto clamorosamente “non ariano” Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore nero del Sud degli Stati Uniti, nei 100 metri, nei 200 metri, nel salto in lungo, e nella staffetta 4×100.
Dunque, non sempre la volontà dei governi e del potere di utilizzare lo sport per rafforzarsi trova il successo.
Le Olimpiadi del 1968
Nel 1968, nel clima di straordinaria radicalizzazione internazionale, le Olimpiadi si svolsero a Città del Messico. Protagonisti, per certi versi più degli atleti ne furono le studentesse e gli studenti messicani. Era l’anno del maggio francese ma anche dell’assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy, dell’escalation della guerra in Vietnam, dei carri armati sovietici a Praga. Il governo del PRI, l’immarcescibile partito populista di estrema destra allora guidato Gustavo Díaz Ordaz, accusò gli studenti di voler sfruttare i Giochi per denunciare la repressione che colpiva da mesi il loro movimento e che aveva causato già 8 morti sotto le pallottole della polizia. Effettivamente, gli studenti chiedevano, cercando di cogliere l’attenzione mediatica che convergeva sul Messico olimpico, la soppressione del corpo dei granaderos. Dal 10 settembre un imponente corteo studentesco di oltre 100.000 partecipanti occupò il centro della capitale. L’occupazione pacifica continuò per settimane, ma il 2 ottobre, quando la cerimonia di apertura dei giochi si avvicinava (mancavano 9 giorni ma le delegazioni straniere e i giornalisti al seguito erano già arrivati dato che l’altitudine della città – oltre 2.000 metri sul livello del mare – imponeva un lungo periodo di acclimatazione), il governo ordinò alla polizia e all’esercito di farla finita con la manifestazione. Il bilancio fu di oltre 400 morti e di migliaia di feriti (compresa la giornalista italiana Oriana Fallaci che stava seguendo i fatti da un balcone). Quella strage, avvenuta in gran parte nella piazza delle Tre Culture e nei dintorni, passò alla storia del Messico (e, attraverso la cassa di risonanza olimpica, a quella internazionale) come il “massacro di Tlatelolco”. O meglio il “secondo massacro di Tlatelolco”, visto che in quello stesso spazio, in quello stesso piazzale nel 1521 vennero massacrati in un sol giorno oltre 40.000 aztechi dai conquistadores di Hernán Cortés.
Ma la drammaticità delle Olimpiadi del 1968 non finì alla piazza delle Tre Culture. Il 12 ottobre, nell’Estadio Olimpico Universitario, durante la cerimonia di apertura, gli studenti fecero volare un uccello e un aquilone a forma di colomba nera, sopra il palco presidenziale, come una protesta silenziosa per la repressione. Ma la strage fu rimossa e i giochi si svolsero nella più totale “normalità”, anche con la complicità del presidente ultraconservatore americano del Comitato olimpico, Avery Brundage.
Però solo pochi giorni dopo, il 16 ottobre, durante la premiazione dei 200 metri piani di atletica, sul podio olimpico, gli afroamericani Tommie Smith (medaglia d’oro) e John Carlos (medaglia di bronzo) abbassarono la testa e alzarono entrambi il pugno avvolto in un guanto nero in segno di misconoscimento dell’inno statunitense e della bandiera a stelle e strisce che svettava sul pennone più alto, e come messaggio di solidarietà con i Black Panthers, l’organizzazione rivoluzionaria che lottava contro la discriminazione razziale e sociale dei loro fratelli afroamericani.
Un gesto analogo avvenne all’Auditorium Nazionale, durante la premiazione della ginnastica a corpo libero femminile. La ginnasta ceca Věra Čáslavská, una delle più grandi atlete a livello mondiale di questa disciplina, conquistò la medaglia d’oro a pari merito con una collega russa. Durante l’esecuzione dell’inno sovietico, abbassò la testa, in segno di rifiuto verso i responsabili della recentissima invasione di Praga.
Sia Smith sia Carlos sia la Čáslavská furono penalizzati con l’espulsione dalle loro rispettive squadre e conclusero con quegli atti la loro folgorante carriera sportiva, dimostrando al mondo come la protervia autoritaria non avesse confini.
La strumentalizzazione degli eventi
Così, molto più recentemente, è da ricordare la solidarietà espressa dalla squadra di calcio del Barcellona nei confronti della vittime della repressione madrilena dopo la rivolta autonomistica del 2017. D’altra parte, la squadra blaugrana del Barça, già durante la dittatura franchista, quando ogni riferimento regionalistico e autonomistico era represso con la massima durezza ed era vietato qualunque uso della lingua catalana, era rimasta l’unica bandiera a cui aggrapparsi. In quei lugubri decenni, in Catalogna si produsse un’evidente per quanto anomala partizione politica e per certi versi sociale tra la tifoseria dei Culés del Barcellona e quella dei sostenitori dei Periquitos dell’altra squadra della città, l’Español, che già nel nome richiamava l’odiato centralismo madrileno.
Nel 2018, si decise di far partire il Giro ciclistico d’Italia da Gerusalemme come omaggio allo stato sionista e come assoluzione verso la sua politica di annessione della Palestina e di repressione del popolo palestinese. Si accettò perfino, sotto il ricatto israeliano di impedire in extremis la manifestazione, di definire il punto di partenza della prima tappa come “Gerusalemme” e non come inizialmente deciso “Gerusalemme Ovest”, per sottolineare che la capitale dello stato sionista era l’intera città, occupata e mantenuta militarmente e illegalmente dal 1967.
Il mondiale di calcio in Qatar
In questi giorni, si sta avvicinando la Coppa del Mondo di calcio che si svolgerà in Qatar, ma il tutto, per il momento, avviene in silenzio, offuscato sui media dalle notizie (buone? cattive?) sulla pandemia, dalla guerra in Ucraina e dalle elezioni anticipate. Ma ancora una volta non si tratta solo di sport.
La “festa del calcio” si svolgerà in un paese dove la realtà è tutt’altro che festosa.
In realtà la situazione politica istituzionale del Qatar non è molto diversa da quella delle altre monarchie vicine. Una qualunque parvenza democratica, anche nella versione molto risicata in cui la conosciamo anche noi, non esiste in nessuno dei paesi del Golfo Persico. Reporters sans frontières classifica il Qatar al 128° posto quanto a libertà di stampa. Nel paese gli omosessuali sono perseguitati. I partiti politici vietati.
Il Qatar è noto per lo sfruttamento dei lavoratori (tutti immigrati, prevalentemente provenienti dal subcontinente indiano). Si calcola che i residenti nel paese, anche grazie alle opere colossali realizzate per ospitare i campionati, siano arrivati a quasi tre milioni; ma solo 280.000 di essi sono quatarioti che, in misura variabile ma non irrilevante, godono delle briciole, a volte anche consistenti, dei privilegi dell’élite dominante; infatti il 90% dei residenti è immigrato, una percentuale che non ha confronto in nessun altro paese. Fino agli anni 90, la maggior parte degli immigrati era di lingua araba e proveniva dall’Egitto, dallo Yemen e dalla Palestina. Ma poi il governo del Qatar ha cambiato impostazione, scegliendo di far arrivare immigrati dall’Asia meridionale, dall’India, dal Bangladesh o dal Pakistan.
Una società duale
Così, il Qatar, come gran parte dei regimi della regione, è riuscito a concretizzare il sogno di tanti reazionari, quello di costruire una società sostanzialmente e perfino formalmente “duale”, nella quale c’è uno strato superprivilegiato e contraddistinto dalla cittadinanza nazionale, uno strato a cui nessuno proveniente dagli altri strati può accedere, e una grande maggioranza di lavoratrici e lavoratori poveri e “importati”, isolati culturalmente e perfino dal punto di vista linguistico, mantenuti in una condizione semischiavistica e che possono essere espulsi in ogni momento. Cosa che rende impensabile che si sviluppi nel paese una mobilitazione del tipo di quelle delle “primavere arabe”. Senza dimenticare che questi stati, nonostante la loro ostentata “modernità”, si caratterizzano con regimi medievali, per le violazioni sistematiche dei diritti umani, la discriminazione a danno delle donne, la persecuzione degli omosessuali, il divieto dei partiti politici, l’integralismo religioso.
Sono questi immigrati che hanno pagato un tragico prezzo per l’organizzazione dei campionati nell’emirato. Si calcola che i morti sul lavoro siano stati oltre 7.000 nel corso dei dieci anni durante i quali sono state eseguite le “grandi opere” destinate ad ospitare il mondiale.
Il calcio come chiave per entrare nell’aristocrazia capitalistica
Il Qatar ha subito negli ultimi anni una sorta di ostracismo da parte dell’Arabia “saudita” e degli altri paesi della penisola non certo per queste caratteristiche, che anzi lo accomunano a tutti i suoi vicini, ma perché accusato di aver flirtato con l’Iran, con Hamas, con i Fratelli musulmani egiziani, con le forze islamiche in Tunisia, in Libia e in Siria. E, soprattutto, di aver rifiutato di sostenere la guerra saudita nello Yemen.
Il poter organizzare l’imminente Coppa del mondo rappresenta un tassello fondamentale della politica dell’emiro Tamim bin Hamad Al Thani e del suo entourage volta ad accreditarsi nel consesso imperialista. Lui ha ereditato dal padre la “nuova politica qatariota”. Il padre dell’attuale emiro, nel 1995, rovesciò il proprio padre con un colpo di stato. Il nuovo monarca invertì subito lo stile di dominio e di governo del genitore: iniziò da subito una politica di “modernizzazione”, volta tra l’altro a prendere le distanze dall’Arabia Saudita. Il primo e principale passo fu quello di creare il canale news Al Jazeera e di imporre un’ampia apertura verso gli investitori internazionali. Fino ad allora il capitalismo mondiale aveva considerato tutti i paesi del Medioriente (escluso Israele, naturalmente) come territori neocoloniali, nei quali era impensabile l’instaurazione di una vera partnership con i potentati locali.
Il calcio è stato un importante elemento per dare forza a questa manovra dell’elite dell’emirato per integrarsi nel Gotha del capitalismo internazionale. Sono noti l’acquisto della squadra francese del Paris-Saint Germain (PSG) da parte del qatariota Nasser Al-Khelaifi e i legami tra la Qatar Airlines e il Club del Barcellona. Il tutto è stato sanzionato con la “partita di giro” record di 222 milioni di euro pagati e incassati praticamente dalle stesse mani per il trasferimento del giocatore brasiliano Neymar dal Barcellona controllato dalla compagnia “di bandiera” Qatar Airlines al Paris Saint-Germain proprietà del corrotto oligarca qatariota Al-Khelaifi.
Questa tattica, dopo le prime prese di distanze, è invece stata imitata anche dagli altri governi monarchici del Golfo: il Newcastle United è così stato acquistato da un fondo di investimenti legato alla monarchia saudita, il Manchester City è di proprietà dello sceicco Mansour degli Emirati Arabi Uniti e lo Sheffield United del “principe reale” saudita Abdullah bin Mosaad bin Abdulaziz al-Saud. Senza contare le ricche sponsorizzazioni (che si evidenziano con le scritte sulle maglie dei giocatori) di molte compagnie aeree arabe, come Emirates, Etihad Airways e la già menzionata Qatar Airways.
E questi sono gli investimenti nelle squadre europee, ma i vari emirati hanno investito ingentissime somme anche su squadre di calcio americane, australiane e, conoscendo la nuova centralità dell’Asia, indiane e cinesi.
Naturalmente, tutti questi non sono investimenti benevoli o a fondo perduto. Puntano a sollecitare e sostenere altri ben più cruciali settori economici, come il turismo, il commercio, i trasporti, le costruzioni, ecc.
Non a caso, sono soprattutto grandi imprese edili cinesi ad aver ottenuto l’appalto per la costruzione dello stadio per la finale della Coppa del Mondo 2022.
Il calcio e l’industria delle armi
E lo sport gioca un ruolo cruciale non solo nella politica e nell’economia, ma anche sul mercato militare.
Guardiamo meglio ai prossimi Mondiali di calcio 2022 che si svolgeranno nel prossimo autunno appunto in Qatar. Come è noto la nazionale italiana non parteciperà ai mondiali, essendo stata eliminata nelle fasi preparatorie. Resta che tra Italia e Qatar sussistono strettissimi rapporti economici, energetici (accordi siglati da ENI e Qatargas), politici.
E, se pure l’Italia sarà assente dal campo di gioco, sarà al contrario ben presente – guarda un po’ – sul terreno militare. C’è da anni una consolidata partnership militare tra l’Italia e l’emirato: le esercitazioni congiunte con i missili Nasr, l’addestramento dei piloti dell’Aeronautica del Qatar e di cadetti qatarioti da parte delle scuole militari italiane, le ingenti commesse ottenute dall’industria militare italiana (ad esempio, le armi costruite su licenza Beretta in Qatar per le locali forze terrestri), da quella cantieristica (corvette, pattugliatori e navi anfibie costruite da Fincantieri e armate da Leonardo, Elettronica ed MBDA), e da quella aeronautica (elicotteri AW139 ed NH90, aerei da addestramento avanzato M346).
Grazie a questa pluriennale partnership strategica e al sostegno delle istituzioni del nostro paese affinché i mondiali si svolgessero nell’emirato, l’Italia (assieme a Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Turchia) è stata invitata a fornire uomini e mezzi per supportare le esigue forze armate del Qatar nella gestione della sicurezza dei campionati.
La “missione militare” italiana consisterà in particolare nello schieramento per tutta la durata dell’evento in Qatar e nelle acque internazionali prospicienti di 560 militari, dotati di 46 mezzi terrestri, di 1 nave e di 2 mezzi aerei e di altri strumenti idonei a contrastare le minacce “CBRN” (Chimici Biologici Radiologici e Nucleari), quelle “IED” (ordigni esplosivi improvvisati), e quelle “UAS” (droni ed altri ordigni volanti non identificati).
Dunque i militari italiani saranno utilizzati anche per far collaborare a far rispettare la legge dell’emiro che impone 5 anni di carcere per chiunque (qatariota o straniero) osi organizzare o partecipare a manifestazioni di protesta durante l’evento calcistico.
La tifoseria e il mondo del calcio “azzurri”, forse indispettiti e distratti dall’esclusione della nazionale, sembrano voler rimuovere tutto questo, al contrario di quanto accade in giro per il mondo. Ricordiamo ad esempio come Philipp Lahm, ex del Bayern Monaco, componente dell’équipe tedesca che vinse il mondiale nel 2014, ha pubblicamente dichiarato: “Non farò parte della delegazione, seguirò il torneo da casa. I diritti umani dovrebbero svolgere un ruolo importante nell’assegnazione dei tornei. Se si assegna il campionato ad un paese che va male nel campo dei diritti umani, capisci su quali criteri si basa questa decisione”.