Trotsky, da vicino e all’interno, in viaggio e in ritorno

“Babelia” (il supplemento libri del quotidiano madrileno “El Pais”) pubblica il prologo dello scrittore cubano Leonardo Padura a “La fuga de Siberia en un trineo de renos” (La fuga dalla Siberia in una slitta trainata da renne, Editorial Siglo XXI & Clave Intelectual), il libro in cui Trotsky racconta la sua condanna a nord del Circolo Polare Artico, pubblicato per la prima volta in spagnolo. Il libro non è pubblicato in Italia, dove, dello stesso periodo è stato solo pubblicato il “Rapporto della delegazione siberiana” (Edizioni Vecchia Talpa, 1970), nel quale Trotsky polemizza sulla concezione del partito proletario presentata da Lenin al II Congresso del POSDR. La rara foto (@ Tate Images) è relativa al primo esilio siberiano di Leon Trotky (1901-1902). Lui è il quarto da sinistra.

di Leonardo Padura, da elpais.com/babelia

Nell’agosto 2020, nell’ottantesimo anniversario dell’assassinio di Lev Davidovich Bronstein, Trotsky, per mano dell’agente stalinista Ramón Mercader, ho ricevuto un numero sorprendente di richieste di interviste, di inviti a scrivere articoli e anche di inviti a partecipare a tavole rotonde su quell’evento storico. Allo stesso tempo, ho ricevuto da diverse parti del mondo, ma soprattutto dai Paesi dell’America Latina, vari rapporti dedicati a ricordare e valutare, con la prospettiva del tempo trascorso, il crimine del 20 agosto 1940 nella casa del profeta esiliato, nella delegazione messicana di Coyoacán.

Trotsky sul letto di morte

Quale curiosità storica, quale rivendicazione del presente avrebbe potuto suscitare questo rinnovato e intenso interesse per la figura di Trotsky a quasi un secolo dalla sua morte? In un mondo globalizzato, digitalizzato, polarizzato nel peggiore dei modi, dominato da un liberismo dilagante e trionfante e, come se non bastasse, colpito da una pandemia di proporzioni bibliche che stava (e sta tuttora) minacciando le sorti dell’umanità, che senso aveva una tale aspettativa di recuperare la sorte di un rivoluzionario sovietico del secolo scorso che, tra l’altro, era stato il perdente in una disputa politica e personale destinata a concludersi con il suo assassinio? Cosa possono dirci, in questa fase delle coordinate storiche e sociali, il delitto del 1940 e la figura della vittima di un furioso colpo di piccozza ordinato dal Cremlino sovietico? Trotsky e il suo pensiero erano ancora attuali, capaci di trasmettere qualcosa di utile per il nostro turbolento presente, tre decenni dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica che aveva contribuito a fondare?

La consapevolezza che alcuni settori del pensiero, della politica e dell’arte del nostro tempo si sentono ancora interpellati dalle vicende della vita e dai contributi filosofici e politici di Lev Davidovich Trotsky può essere stata un primo motivo (assieme a molti altri). E questa prima delucidazione forse ribadisce (almeno io la penso così) che, sconfitto nella contesa politica, l’esule si è rivelato un vincitore malconcio nella contesa storica proiettata nel futuro; da quest’ultima, a differenza dei suoi assassini, è emerso come simbolo di resistenza, di coerenza e, per i suoi seguaci, anche come incarnazione di una possibilità di realizzazione dell’utopia. E questo peculiare processo si è verificato non solo per il modo in cui è stato assassinato, ma, ovviamente, per le stesse ragioni che hanno portato Iosif Stalin a liquidarlo fisicamente e gli stalinisti di tutto il mondo a cancellarlo persino dalle foto, dagli studi storici e dai resoconti accademici. Uno Stalin e degli stalinisti che – bisognerà sempre ripeterlo – non solo hanno giustiziato Trotsky e hanno cercato di farlo con le sue idee, ma hanno anche liquidato, con l’autoritarismo socialista, la possibilità di una società più giusta, democratica e libera che uomini come Lev Davydovich si erano proposti di fondare. Lo stesso uomo che, da giovane, appena uscito dal partito menscevico, nel 1905 arrivò a dire che

“per il proletariato la democrazia è in ogni circostanza una necessità politica; per la borghesia capitalista è, in certe circostanze, un’inevitabilità politica”

una frase chiave che, se fosse stata messa in pratica, avrebbe forse cambiato il destino dell’umanità.

Non sorprende quindi che il recupero e la pubblicazione, per la prima volta in spagnolo, di un testo di Lev Davidovich (o Leon Trotsky) susciti un giustificato interesse. Perché, all’interno della rigogliosa bibliografia dell’uomo che scrisse persino una meticolosa autobiografia (La mia vita, pubblicata nel 1930, opera che si chiude con l’episodio dell’esilio nell’Unione Sovietica orientale, inizio del suo esilio definitivo), le pagine de La fuga de Siberia en un trineo de renos (titolo originale, Tudá i obratno; Viaggio in e dalla Siberia) servono a fornirci le armi di un giovane scrittore e rivoluzionario la cui immagine, così nota, viene ulteriormente completata da questa curiosa opera.

La Fuga dalla Siberia, che Davydovich pubblicò nel 1907 con lo pseudonimo di N. Trotsky per i tipi dello Shipovnik, è un libretto che, per la vicinanza tra gli eventi narrati e la sua stesura – per la congiuntura storica in cui si svolsero, per l’età e per il grado di impegno politico del suo autore nel momento in cui visse ciò che narrava e decise immediatamente di scriverlo – ci restituisce un giovane Trotsky quasi allo stato puro. E questo in tutte le sue sfaccettature: come politico, come scrittore, come uomo di cultura e, soprattutto, come essere umano.

Per questo motivo, sembra necessario sottolineare che le pagine de La fuga dalla Siberia raccontano la storia personale e drammatica del secondo esilio di Davydovich nelle colonie penali della Siberia (la prima deportazione, tra il 1900 e il 1902, era stata un periodo di crescita politica e filosofica da cui era uscito rafforzato e addirittura con lo pseudonimo di Trotsky con cui sarebbe stato poi conosciuto) e le tremende vicissitudini della sua quasi immediata fuga, questa volta nell’inverno del 1907. L’intera avventura nasce dal cosiddetto “Caso Soviet”, quando l’autore, insieme ad altri quattordici deputati, fu processato e condannato alla deportazione a tempo indeterminato e alla perdita dei diritti civili (solo due o tre anni prima era stata abolita la pena aggiuntiva di quarantacinque frustate per i condannati) in seguito agli eventi di San Pietroburgo relativi alla creazione e al funzionamento del Consiglio o Soviet dei delegati dei lavoratori, che Trotsky stesso guidò durante le sue settimane di esistenza, negli ultimi mesi del turbolento anno 1905.

Il testo, dunque, ci riporta a un’epoca in cui la vita politica e filosofica del suo autore era al centro dei dibattiti che avrebbero definito le direzioni in cui si sarebbero mossi in seguito il suo pensiero e la sua azione rivoluzionaria, accesi da quella vertiginosa esperienza del primo Soviet della storia, nel 1905, maturati nel fecondo esilio che avrebbe vissuto a partire dal 1907 e concretizzati nella Rivoluzione d’Ottobre del 1917, di cui sarebbe stato nuovamente protagonista. E da questa traiettoria è emerso come una delle figure centrali del processo politico che ha portato alla fondazione dell’Unione Sovietica e alla sempre controversa istituzione di una dittatura del proletariato.

Il Lev Davidovich di questi momenti è il rivoluzionario impulsivo e selvaggio che, secondo le parole del suo famoso biografo Isaac Deutscher, incarnava il più alto grado di “maturità” che il movimento rivoluzionario aveva raggiunto fino a quel momento nelle sue aspirazioni più ampie: nel formulare gli obiettivi della rivoluzione, Trotsky si spinse più in là di Martov e di Lenin, ed era di conseguenza meglio preparato a svolgere un ruolo attivo negli eventi. Un istinto politico infallibile lo aveva condotto, nei momenti giusti, ai punti nevralgici e ai punti focali della rivoluzione (da Isaac Deutscher, Il profeta armato: Trotskij 1879-1921, Pgreco, 2011).

In questo passo, vediamo anche il pensatore che presto scriverà Bilanci e prospettive (ll testo in italiano si può trovare in questo volume). Le forze motrici della rivoluzione, la sua opera principale del periodo, in cui presenta le affermazioni fondamentali del futuro trotskismo, compresa la teoria della Rivoluzione Permanente. In queste pagine, Trotsky stesso avverte, con la lucidità politica che spesso (non sempre) lo accompagna:

Nell’epoca della sua dittatura, […] la classe operaia dovrà ripulire la sua mente dalle false teorie ed esperienze borghesi, ed epurare dalle sue file i ciarlatani politici e rivoluzionari che guardano solo all’indietro… Ma questo intricato compito non può essere risolto ponendo al di sopra del proletariato poche persone scelte… o una sola persona investita del potere di liquidare e degradare.

Le pagine de La fuga dalla Siberia, però, non diventano un’allegoria politica o un’opera di propaganda o di riflessione: raccontano soprattutto la storia personale e drammatica (raccolta molto sinteticamente ne La mia vita) che ci consegna un Trotsky osservatore, profondo, umano, a tratti ironico, che si guarda intorno ed esprime uno stato d’animo o fotografa un ambiente che, senza dubbio, si rivela estremo, esotico, quasi disumano.


Concepita in due parti perfettamente differenziate (“La partenza” e “Il ritorno”), la testimonianza di queste esperienze segue l’intero processo di Trotsky e degli altri quattordici condannati per il loro ruolo di primo piano nella rivoluzione del 1905. Il racconto copre infatti il periodo che va dalla partenza dalla prigione della Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo il 3 gennaio 1907 (dove aveva trascorso tutto il 1906 a scrivere) all’arrivo nel villaggio di Beryzov il 12 febbraio 1907, penultima tappa di un viaggio che doveva concludersi nel luogo in cui doveva scontare la sua pena, il remoto villaggio di Obdorsk, un luogo situato alcuni gradi a nord del Circolo Polare Artico, a più di 1.600 chilometri dalla stazione ferroviaria più vicina e oltre 800 da una stazione telegrafica, secondo lo stesso scrittore.

Poi, con un visibile cambio di stile e di concezione narrativa, il libro racconta, sempre in prima persona, la cronaca della fuga di Trotsky da Beryzov (dove riesce a rimanere, fingendosi malato, mentre i compagni si allontanano). Con la sua grottesca guida, parte da lì verso sud-ovest, alla ricerca della prima stazione ferroviaria nella zona mineraria degli Urali, per fare ritorno a San Pietroburgo, da dove parte per l’esilio dove, pochi mesi dopo, avrà il primo incontro – quello che forse fin dal primo momento avrebbe definito il suo destino – con l’ex-seminarista Giuseppe Stalin.

Il primo elemento che contraddistingue la concezione de La fuga dalla Siberia è che la prima metà si basa sulle lettere che Trotsky scrisse alla moglie, Natalia Sedova, nel corso di quaranta estenuanti giorni, mentre lui e i suoi compagni intraprendevano il viaggio verso l’esilio. Questa strategia epistolare, quasi un diario di viaggio scritto al volo, definisce lo stile e il significato del testo, perché la narrazione riflette una realtà vissuta da poco in cui non è possibile conoscere il futuro, come sarebbe stato con la scrittura evocativa di ciò che è già noto.

Il racconto, che inizia con la lettera del 3 gennaio 1907, quando Trotsky e i suoi compagni di prigionia vengono trasferiti nella prigione provvisoria di San Pietroburgo, si estende fino all’epistola del 12 febbraio, scritta a Berozov, dove, su consiglio di un medico, l’autore finge un attacco di sciatica per rimanere lì e tentare la fuga.

Per tutto il tempo e il viaggio, che inizia in treno e (dalla fine di gennaio, nel villaggio di Tyumen) prosegue su slitte trainate da cavalli, Trotsky e gli altri condannati sono all’oscuro della loro destinazione finale e di quando la raggiungeranno, creando un senso di suspense e di attesa. Come ci si potrebbe aspettare dalla corrispondenza che potrebbe essere esaminata, in nessun punto l’autore rivela i suoi piani di fuga, anche se parla delle prevedibili fughe dei condannati, che si verificano con grande frequenza. “Per avere un’idea della percentuale di fughe, basta sapere che dei quattrocentocinquanta esiliati in una certa zona di Tobolsk ne sono rimasti solo cento. Gli unici che non fuggono sono i fannulloni”, osserva a un certo punto. Tuttavia, Trotsky non manca di notare i livelli di sorveglianza a cui sono sottoposti i prigionieri, con un rapporto fino a tre guardie per prigioniero, che rende quasi impossibile qualsiasi tentativo di fuga.

La fuga dalla Siberia appare come una crepa inaspettata che ci offre uno sguardo sull’intima personalità dell’uomo politico e rivoluzionario a tempo pieno e sui suoi rapporti con la condizione umana. È anche un esempio delle sue capacità letterarie (non per niente fu soprannominato per un certo periodo “La Penna”) e, a coronamento di tutto ciò, la sua pubblicazione, per la prima volta in spagnolo, può essere un omaggio alla memoria di un pensatore, scrittore e combattente assassinato più di ottant’anni fa e che, nel mondo incredulo di oggi, fa ancora pensare a qualcuno che l’utopia sia possibile. O, almeno, necessaria.