riprendiamo questo articolo dal sito Union-net.it
Le ultime rilevazioni sull’inflazione nel nostro paese la fissano al 5,7%, cosa che comporta un incremento di spesa di circa 1.800 euro annui per una famiglia con tre componenti. Se la famiglia è composta da quattro individui la perdita arriva quasi a 2.300 euro annui (elaborazioni Codacons).
Essendo la retribuzione media “ufficiale” un po’ inferiore ai 1.400 euro mensili, questo significa che con questa inflazione, invece di percepire 13 o 14 mensilità, se ne incassano poco più di 12. E’ come se dallo scorso anno a questo fosse stata abolita la tredicesima, e anche un pezzo dello stipendio di dicembre.
E, come abbiamo detto, basiamo questi calcoli sulle cifre “ufficiali”, che, oltre ad essere la media tra quanto percepisce un’operaia o un operaio e lo stipendio di un manager, non tengono conto dei milioni di lavoratrici e lavoratori al nero o “informali” che incassano ancora meno, ma che quando vanno al distributore o al supermercato trovano gli stessi prezzi di tutti gli altri cittadini.
E, tutti gli indicatori stanno a evidenziare che l’inflazione non si sta fermando a quella cifra, ma è destinata a crescere ancora su se stessa. E’ del tutto evidente che crescita dei costi e “economia di guerra” spingeranno ancora di più i prezzi verso l’alto.
Il governo giustifica questa situazione con la crescita dei prezzi delle materie prime (in particolare di quelle energetiche) e, dalla fine di febbraio in poi, con le conseguenze dirette e indirette della guerra (il grano, e dunque il pane e la pasta). Il prezzo della pasta, ad esempio, è cresciuto di circa il 25% in pochi giorni.
Le dinamiche esogene non sono sufficienti a giustificare incrementi di questa dimensione. Dietro di esse ci sono anche le speculazioni criminali di quelli che un tempo si chiamavano gli “squali della guerra”, cioè di coloro che approfittano degli scombussolamenti economici e commerciali dovuti al conflitto militare per intascare ancora più di prima. Non a caso la procura di Roma ha aperto un’indagine per approfondire le responsabilità di questi fenomeni. E non a caso alcune associazioni di consumatori hanno presentato decine di esposti per chiedere l’apertura di altrettante indagini.
Il mercato dei prodotti energetici peraltro è strettamente intrecciato con il mercato finanziario, che usa la dinamica dei prezzi del petrolio, del gas e delle altre materie prime energetiche come parametro per gli investimenti e per le speculazioni. Se dunque noi ci spaventiamo di fronte agli attuali prezzi dei carburanti al distributore o di fronte a bollette del gas o dell’elettricità più che raddoppiate, c’è chi invece per questi incrementi festeggia perché sa che questo si sta traducendo in un balzo in avanti dei propri profitti.
Naturalmente per le famiglie a basso reddito e per certi versi anche per quelle a “reddito medio” tutto ciò si traduce in un taglio drastico dei consumi: il riscaldamento si usa meno, altrettanto si rinuncia a usare l’auto, si evita di andare a mangiare una pizza che prima costava 5 o 6 euro e che oggi veleggia verso i 12 euro…
E oltre alle conseguenze che tutto ciò ha sulle famiglie a reddito fisso (pensionate/i, operaie/i, impiegate/i), questo incremento dei prezzi favorisce ancor più la grande distribuzione ai danni dei piccoli esercenti. I supermercati, ovviamente, hanno rispetto al piccolo bottegaio un potere molto maggiore nell’imporre i prezzi ai fornitori.
Il governo ha adottato il 18 marzo un decreto che riduce provvisoriamente le imposte (accise) sui carburanti e che aumenta un po’ la platea di chi potrà godere dei bonus sociali. Si tratta di misure del tutto insufficienti, perché non intervengono sui meccanismi di formazione dei prezzi dell’energia. Riducono il gettito fiscale di questi prodotti di largo consumo, tagliando così le entrate dello stato che saranno ripianate con le altre imposte dirette e indirette, che, com’è stranoto, gravano quasi unicamente sui salari e sulle pensioni.
Non si registrava un tasso di incremento dei prezzi così alto dalla metà degli anni 90, quando l’inflazione venne soffocata attraverso l’abolizione della scala mobile dei salari e l’adozione da parte dei sindacati confederali di una politica di crescente moderazione salariale. Quelle scelte, adottate in maniera “concertativa” tra i governi dell’epoca e le direzioni sindacali, venivano motivate con la necessità di “entrare nell’euro”, cioè di sintonizzare la dinamica della lira con quella delle altre monete dell’Unione europea nella direzione della “moneta unica”.
Come ha ampiamente dimostrato una ricerca dell’OCSE dell’ottobre scorso, le retribuzioni italiane sono quelle che in Europa hanno avuto la dinamica peggiore: mentre in Germania e in Francia i salari dal 1990 a oggi sono cresciuti di oltre il 30%, in Portogallo e in Spagna attorno al 10%, in Italia il potere d’acquisto medio delle lavoratrici e dei lavoratori nello stesso periodo è diminuito del 3%.
Un destino analogo ai salari hanno avuto le pensioni che con vari successivi provvedimenti (già dalla fine degli anni 90) hanno visto prima ridotto e poi sostanzialmente abolito (con la legge Fornero del 2011 che ha mantenuto una qualche tutela solo per le pensioni basse o bassissime) ogni riadeguamento del trattamento previdenziale sulla base della dinamica del costo della vita.
Questa situazione perciò espone i redditi da lavoro italiani alle conseguenze di questi tassi di inflazione molto di più di quanto lo siano i redditi delle lavoratrici e dei lavoratori degli altri paesi europei. A partire dalla definitiva abolizione della “scala mobile” dei salari (nel luglio del 1992), i salari italiani sono definiti esclusivamente attraverso le tabelle dei contratti nazionali che hanno contemporaneamente adottato una politica di “moderazione salariale” ma che concretamente si è tradotta in una politica di progressiva riduzione salariale (come dimostra platealmente la già citata indagine dell’OCSE).
Ci chiediamo che cosa facciano i sindacati CGIL, CISL e UIL. Ovviamente non ci aspettiamo dai loro vertici nessun accenno di autocritica o di ripensamento sulla loro politica salariale degli ultimi 30 anni. Ma che cosa pensano di fare ora?
Se si fa un breve giro sui loro siti, l’unica cosa che si trova è la richiesta avanzata il 17 marzo di un “incontro urgente” con il governo. Ma sul piano dell’azione contrattuale, che lo ripetiamo ancora una volta è l’unico strumento di governo salariale rimasto nelle mani delle organizzazioni sindacali, continuano ad essere sostenute le piattaforme sindacali e le richieste retributive fissate anni fa, quando l’inflazione si collocava su cifre molto minori. Quelle rivendicazioni erano già allora insufficienti a recuperare il potere d’acquisto perduto negli anni precedenti. Ora, di fronte ad un’inflazione quasi al 6% e in ulteriore crescita, risultano drammaticamente irrisorie. Per non parlare del cosiddetto “Patto per la fabbrica” siglato da questi sindacati con la Confindustria nei primi mesi del 2018, che formalizza e generalizza la non presa in considerazione nella perdita del potere d’acquisto dei salari proprio degli effetti della dinamica dei prezzi dei prodotti energetici importati, guarda caso proprio il gas e il petrolio che attualmente stanno trascinando l’inflazione.
Quel che è cambiato dagli anni 70 e 80 del secolo scorso a oggi non è solo la diversa politica salariale, ma anche la fine di ogni controllo pubblico sui prezzi. Con il mito della “liberalizzazione”, i vari governi (e occorre riconoscerlo, soprattutto i governi di “centrosinistra”, persino quelli appoggiati dal PRC di Bertinotti e Ferrero e dal PdCI di Cossutta, Diliberto e Rizzo) hanno via via cancellato ogni forma di intervento politico e sociale sui prezzi, ad esempio con l’abolizione del prezzo amministrato dei carburanti (governo Andreotti nel 1991) e calmierato per il pane e per il latte (governo Ciampi nel 1993). I governi di centrosinistra dalla fine degli anni 90 e dell’inizio degli anni 2000 completarono l’opera con la creazione di nuovi carrozzoni, le “autorità” che non avevano più nessun potere di intervento per frenare o impedire le speculazioni di profittatori grandi e piccoli.
Anche questa operazione di smantellamento di quanto restava dei rapporti di forza tra le classi determinatisi nel dopoguerra ebbe il nulla osta da parte dei vertici di CGIL, CISL e UIL.
Oggi al contrario occorrerebbe reintrodurre un meccanismo automatico di riallineamento delle retribuzioni e delle pensioni e riscoprire il valore del controllo sociale e politico sui prezzi, in particolare di quelli dei generi di più largo consumo e di necessità.
Non sappiamo se l’incontro richiesto dalle organizzazioni sindacali confederali con il governo verrà concesso o meno. Possiamo però stare certi che sul tavolo non ci saranno queste rivendicazioni e, ancor più, possiamo prevedere che nessuna vera azione di mobilitazione verrà preparata.