L’apartheid di Israele contro i palestinesi

da pungolorosso.wordpress.com

Ha prodotto sorpresa, perfino scandalo, un rapporto di Amnesty International presentato nei giorni scorsi a Gerusalemme Est in cui, per la prima volta, questa organizzazione ha ammesso che in Israele esiste, per i palestinesi, una condizione di apartheid. Ed in cui, altra novità, si riconosce che questo stato di cose non è recente, non risale alla guerra del 1967, bensì alla costituzione stessa dello stato di Israele. In Israele, infatti, anche i palestinesi con cittadinanza (sui documenti) israeliana non sono cittadini con pieni diritti, essendo discriminati e inferiorizzati in tutti gli ambiti della vita sociale. Come, del resto, ha riconosciuto nel marzo 2019 Netanyahu senza infingimenti: “Israele non è uno stato di tutti i suoi cittadini… [ma piuttosto] lo stato-nazione degli ebrei, e soltanto di essi”.

Il titolo del rapporto è insolitamente chiaro: “L’apartheid di Israele contro i palestinesi: un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità”. Nel testo, esistente in cinque lingue (inglese, arabo, francese, ebraico, spagnolo, e ne esiste anche una sintesi in italiano), la parola apartheid ricorre 390 volte, tanto per non lasciare dubbi. E quali dubbi, poi?

Secondo Amnesty l’atto iniziale del processo di dispersione, oppressione (e super-sfruttamento – aggiungiamo noi) del popolo palestinese ha avuto luogo nel 1948 attraverso la “pulizia etnica” che ha portato all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case, senza però ammettere in seguito la possibilità di un loro ritorno in quanto rifugiati. Il “diritto internazionale” riconosce il diritto al ritorno, così pure la risoluzione 194 dell’Onu (una delle infinite risoluzioni Onu in questa materia rimaste carta straccia), lo stato di Israele no.

L’inchiesta è piena di dettagli (quasi tutti noti) sull’occupazione militare israeliana e i suoi strumenti preferiti: frammentazione dei territori abitati dai palestinesi, segregazione, demolizione delle case, confisca delle terre, delle fonti d’acqua e dei beni, restrizioni alla circolazione, divisione dei nuclei familiari, privazione dei diritti economici e sociali, detenzione amministrativa, tortura, uccisioni “illegali”, arresti arbitrari, uso “sproporzionato” della forza nelle azioni di repressione, ecc. Anche nei “territori occupati” della cosiddetta West Bank, formalmente sotto il controllo dell’“autorità nazionale palestinese”, i palestinesi, considerati dalla legge israeliana privi di cittadinanza perché privi di un proprio stato, sono sottoposti ad oltre 1.800 ordini militari israeliani permanenti che riguardano i loro mezzi di sussistenza, l’accesso alle risorse naturali, il loro status, i loro spostamenti, la loro incriminazione e detenzione (dal 1967 ad oggi sono stati arrestati 800.000 palestinesi, tra uomini, donne e bambini), la loro attività politica.

Com’è abituale in documenti del genere, c’è poco sullo sfruttamento del lavoro. Ma di passaggio si registra che il risultato delle politiche discriminatorie che hanno prodotto un enorme gap socio-economico tra i cittadini ebrei israeliani e i palestinesi, dentro e fuori i confini di Israele, è che i palestinesi siano “fonte di lavoro a basso costo per preservare gli interessi della maggioranza ebrea”. Altrettanto poco, o nulla, c’è sullo schiacciamento nel sangue di tutte le sollevazioni di massa palestinesi, risalenti e recenti – un “buco” clamoroso. E’ comunque insolito leggere in un documento para-istituzionale le seguenti affermazioni:

“L’insieme del regime di leggi, politiche, pratiche [amministrative, di polizia, militari, etc.] descritte da Amnesty International dimostra che Israele ha stabilito e consolidato un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione a beneficio degli ebrei israeliani – un sistema di apartheid – in tutti i luoghi in cui ha esercitato il suo controllo sulla vita dei palestinesi a partire dal 1948. Amnesty International è arrivata alla conclusione che lo stato di Israele considera e tratta i palestinesi come un gruppo razziale non ebreo inferiore. La loro segregazione è realizzata in una forma sistematica e istituzionalizzata attraverso leggi, politiche, pratiche, tutte finalizzate a impedire che i palestinesi possano rivendicare e godere di diritti eguali a quelli della popolazione ebrea israeliana sia dentro il territorio di Israele che nei “territori occupati”, e in questo modo intente ad opprimere e dominare il popolo palestinese. Tutto ciò è stato integrato da un regime giuridico che controlla (negandoli) i diritti dei rifugiati palestinesi che risiedono fuori da Israele e dai territori occupati a fare ritorno ].nelle loro case. (…) Amnesty International chiama Israele a rimuovere tutte le misure di discriminazione, segregazione e oppressione attualmente esistenti contro la popolazione palestinese” [che configurano, si è detto prima, “crimini contro l’umanità” da impugnare davanti alla Corte internazionale di giustizia (?) dell’Aia].

Poiché non ci aspettiamo da documenti e da istituzioni del genere un’analisi di classe della società israeliana e del popolo palestinese, sarebbe ozioso stare qui ad obiettare che i cittadini israeliani non beneficiano tutti nello stesso modo di questo sistema di apartheid; che ci sono stratificazioni razziali anche tra gli ebrei israeliani (immancabilmente gli ebrei neri di origine etiope sono collocati nel fondo della scala dei cittadini di serie A); che c’è tra i palestinesi un set di strati sociali e clan proprietari, affaristici, di sottogoverno, di dirigenti di apparati di repressione, che partecipano anch’essi della sopra descritta macchina di oppressione senza confini, nella quota prevista per intermediari e kapò di infimo, medio e alto rango. Rimangono, invece, tre questioni: le ragioni di questa insolita alzata dei toni, la reazione di Israele, e quella dei palestinesi.

La giustificazione fornita al sito israeliano +972 da Saleh Hijazi [vicedirettore regionale di Amnesty International per la regione del Medio Oriente e del Nord Africa] è duplice: la pressione di organismi palestinesi e di alcune sezioni (la greca, la spagnola) di Amnesty International a rompere il silenzio, e la constatazione che nel mondo le situazioni di apartheid si vanno espandendo. Il che fa pensare che, forse, per bilanciare il coraggio di una aperta denuncia contro lo stato di Israele, sono in arrivo altri documenti relativi a qualche paese del campo avverso a quello occidentale.

E’ da aggiungere un terzo elemento, probabilmente di peso maggiore: la preoccupazione di tenere aperti dei canali giuridico-istituzionali in cui orientare e cercare di imbrigliare l’indignazione dei palestinesi per i quotidiani soprusi e vessazioni, un’esigenza tanto più impellente quanto più lo stato di Israele è passato nei mesi scorsi alla soppressione di una serie di ong palestinesi attive nella difesa dalle discriminazioni e dai processi di spossessamento e di immiserimento che non finiscono di abbattersi sui più oppressi tra i palestinesi.

La reazione di Israele è stata immediata e scontata: “tesi antisemite”, caratterizzate da “un doppio standard, demonizzazione e delegittimazione” di Israele, che è invece uno stato che rispetta il diritto internazionale. Tesi che peraltro stonano, ha sostenuto il portavoce del governo, con i più recenti sviluppi delle relazioni arabo-israeliane, dal “patto di Abramo” fino alla visita molto amichevole del presidente israeliano Herzog negli Emirati, e con la ripresa dei colloqui tra l’autorità nazionale palestinese e il governo Bennet.

A proposito di buone relazioni arabo-israeliane, poco importa che a fine ottobre Gantz, il ministro della difesa, abbia messo fuorilegge sei storiche ong palestinesi in quanto “organizzazioni terroristiche” – l’accusa che i poteri dispotici, maestri del terrorismo di stato, abitualmente scaricano sui propri oppositori più o meno pericolosi. Fatto sta che da qualche mese Al-Haq, che stila rapporti sulle violazioni dei diritti umani, e di recente ne ha redatto uno sui lavoratori palestinesi negli insediamenti; Addameer, che assiste i detenuti palestinesi; Defence for Children-Palestina, che fornisce assistenza legale ai bambini imprigionati e nelle cause davanti ai tribunali militari; L’Unione dei comitati per il lavoro agricolo, che promuove “la fermezza degli agricoltori [nel resistere alle tante violenze e arbitrii dei coloni e dello stato] e i mezzi di sussistenza sostenibili”; il Bisan Center for Research & Development, vicino al Fronte Popolare, che denuncia l’impoverimento dei palestinesi per mano di Israele e delle politiche ‘neo-liberiste’ dell’ANP; l’Unione dei comitati delle donne palestinesi, che si batte contro le discriminazioni di genere; tutte organizzazioni esistenti da decenni, sono state messe sotto chiave dalla “democrazia più avanzata del Medio Oriente”. Antisemiti i critici, terroristi gli oppositori: lo stato di Israele si pone al di sopra di tutto e di tutti, godendo dell’incondizionata protezione dei suoi vecchi (Stati Uniti, Europa) e nuovi (un numero velocemente crescente di stati arabi) amici. L’indomita resistenza dei proletari e degli oppressi palestinesi, che è tornata a farsi sentire con una forza inattesa nella scorsa primavera, è di disturbo a molti…

Lo conferma il modo in cui hanno reagito a questo rapporto, che per loro non è quella bomba di cui si parla nella stampa italiana ed europea. Che cosa cambia per noi che siamo stati espulsi dalla nostra casa a Sheikh Jarrah, hanno chiesto i membri della famiglia Salhiyeh presenti alla conferenza stampa di presentazione del rapporto? Perché non avete parlato del colonialismo dei coloni? Saleh Hijazi e Agnès Callamard hanno dovuto ammetterlo: non ci saranno dei cambiamenti immediati per le famiglie come quella di Sheikh Jarrah. È prevedibile che le espulsioni e le demolizioni delle case continueranno, e che la situazione del Negev peggiori ulteriormente; ma intanto, rivendicano, invece che parlare dei sintomi, abbiamo puntato il dito sulle cause identificate con l’apartheid – in realtà l’apartheid è uno strumento, un mezzo di affermazione del colonialismo capitalistico-imperialistico in Medio Oriente.

Per venire a capo delle cause vere di una situazione sempre più intollerabile, e spazzarle via, sarà necessario, però, molto più di un rapporto di Amnesty o di una montagna di simili rapporti. Le risoluzioni di condanna di Israele coprono la distanza dalla terra alla luna, disse una volta il vecchio Arafat, quando era ancora capace di sarcasmo verso l’Onu e la “comunità internazionale” (dei pescecani in sembianze umane). La grande Intifada araba del 2011-2012, le nuove sollevazioni popolari e proletarie del 2018-2021, la resistenza dei palestinesi di Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme, della diaspora, hanno indicato la via della rivoluzione sociale e politica che sola può far saltare in aria tutto l’attuale assetto di potere capitalistico-imperialistico in Medio Oriente e Nord Africa, a cominciare dal pilastro costituito dallo stato di apartheid israeliano e dai suoi sempre più stretti partners globali (Usa, Ue) e locali (le monarchie del Golfo, il regime egiziano) fino a tutta la restante impalcatura di sfruttamento e di oppressione che va da Teheran a Rabat. Ci sbaglieremo, ma siamo convinti che a questa futura esplosione rivoluzionaria non mancherà l’apporto dei settori non sfruttatori dell’attuale società israeliana – lo sbaraccamento totale dello stato iper-militarista e razzista di Israele, sarà un evento liberatorio anche per loro.

C’è chi lo vede e lo sa da tempo: Fermate l’apartheid di Israele! – Un appello di centinaia di ebrei israeliani – per non parlare delle Pantere nere (in ebraico הפנתרים השחורים, HaPanterim HaShhorim) all’acme della loro attività politica.

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