di Emanuele Leonardi
L’Antropocene non è solo una nuova era geologica ma un certo tipo di dispositivo di governo: una modalità di governance del clima basata su una nuova ondata di mercificazione della natura. Questa è almeno la tesi difesa qui da Emanuele Leonardi, che mostra come questo dispositivo sia stato messo in crisi negli ultimi anni, sia dal movimento per la giustizia climatica che dalla pandemia.
Nelle scienze sociali, il recente e ricchissimo dibattito intorno alla nozione di Antropocene sembra trovare un punto di accordo solo nel riconoscimento della sua profonda polisemia. Se, da un lato, produce confusione e malintesi, dall’altro, amplia lo spettro analitico e mette in evidenza le questioni politiche che sottendono l’interazione e il confronto delle posizioni in questo campo. Più che un evento , l’Antropocene può quindi essere definito come un sintomo del sociale contemporaneo, dei suoi conflitti e delle sue violenze: uno stato che, secondo la prospettiva sintomatologica proposta da Paolo Vignola (nel suo “L’attenzione altrove”), richiede sia una critica radicale che una pratica collettiva di cura per essere prima consapevolmente agito e, infine, trasformato.
In particolare, è un sintomo della crisi delle scienze sociali, o piuttosto del modo in cui si sono concentrate sul rapporto moderno – cioè internamente mediato – tra natura e società. In particolare, come ha mostrato Pierre Charbonnier (2020), il fatto che i moderni si percepiscano come esseri viventi organizzati in società sulla natura comincia a porre un problema. La condizionalità mono-naturalistica della proliferazione multiculturale ha prodotto nel tempo l’emergere di un sapere riflessivo il cui scopo è proprio quello di renderlo politicamente visibile e quindi potenzialmente trascendibile.
L’Antropocene segnala che questa trascendenza è in corso, implicando la crisi delle due principali linee di pensiero sulla forma moderna della relazione natura-società – quella centrata sul materialismo limite (Martinez-Alier 1991) e quella basata sul costruttivismo del rischio (Beck 2000). Non è chiaro (ancora) se la via d’uscita da questa impasse teorica sia superare la decennale indifferenza reciproca tra queste scuole di pensiero o sviluppare un nuovo approccio onto-epistemologico. Quello che oggi possiamo dire con certezza è che l’Antropocene può diventare una razionalità storico-sociologica solo nella misura in cui prende la dimensione politica del rapporto natura-società come perno del suo asse gravitazionale, cioè come chiave dell’analisi del presente.
In linea con questo approccio, la sezione seguente si allontana dalla cosiddetta controversia “classica” sull’Antropocene – quella dell’origine: quando inizia l’Antropocene? – per studiarlo piuttosto come un dispositivo governativo (con particolare riferimento al riscaldamento globale). Vengono poi esaminati due fattori di crisi di questo paradigma – le mobilitazioni ecologiche del 2019 e la pandemia globale del 2020 – e infine delineo alcuni possibili sviluppi del complesso scenario che abbiamo davanti.
L’Antropocene come governance del clima: il dogma dello scambio di carbonio da Kyoto (1997) a Parigi (2015)
Da una prospettiva geologica, il concetto di Antropocene (una combinazione dei termini greci anthropos [umano] e cene [nuovo]) si riferisce alla scala globale delle influenze antropogeniche sulla composizione e le funzioni del sistema Terra e le forme di vita che lo abitano. La proposta originale di Paul Crutzen e Eugene Stoermer (2000) si basava su considerazioni essenzialmente ecologiche come l’estinzione accelerata di un gran numero di specie, la graduale riduzione della disponibilità di combustibili fossili e l’aumento delle emissioni di gas serra, in particolare anidride carbonica e metano.
Anche se recente come forza geologica, è ormai assodato che l’attività umana è una causa diretta di questi fenomeni e ha quindi profondamente influenzato il cambiamento ambientale globale (Steffen 2021). La grandezza e la durata dell’impatto umano – si stima, per esempio, che pozzi e trivellazioni saranno chiaramente visibili a ipotetici geologi tra un milione di anni – suggeriscono quindi che l’epoca attuale non dovrebbe essere inclusa nell’Olocene (un’epoca geologica iniziata circa 12.000 anni fa), ma piuttosto dovrebbe essere formalizzata in modo ad hoc per sottolineare la sua specificità.
Da qui la proposta dell’Antropocene – molto discussa dalla comunità scientifica ma non ancora ratificata.
L’idea di una nuova epoca non è senza fondamento: nella classificazione geologica delle scale temporali, le trasformazioni globali dello stato della Terra – dovute a cause disparate che vanno dall’impatto di meteoriti allo spostamento di continenti e ad eruzioni vulcaniche di eccezionale portata – sono effettivamente decisive. Tuttavia, poiché non c’è dubbio che l’attività umana è ora la causa principale del cambiamento ambientale, ne consegue che è iniziata una nuova era.
Va notato, tuttavia, che l’esistenza o la non esistenza dell’Antropocene non è una questione puramente scientifica, ma comporta piuttosto una serie di considerazioni etiche e politiche. Lo stesso Crutzen è convinto che “l’umanità” debba accettare l’enorme responsabilità derivante dal suo potere tecnologico e agire come custode della Terra (Crutzen e Schwägerl 2011), indicando forse la geoingegneria come soluzione al riscaldamento globale (Crutzen 2006).
Sembra chiaro, quindi, che l’Antropocene non è solo il nome di una nuova epoca geologica, ma anche di un regime senza precedenti di governance ambientale globale. Rileggendo con grande originalità la proposta di Mark Fisher (2018), Stefania Barca (2020) evidenzia il ruolo fondamentale giocato dall’Antropocene nell’economia del realismo eco-capitalista che ha informato il rapporto tra crisi ecologica e pratica politica durante i quarant’anni di neoliberismo.
Da parte mia, ho cercato nel mio precedente lavoro di interpretare il sintomo dell’Antropocene come un paradigma di governance del clima (Leonardi 2017). Per “governance del clima” intendo il processo politico globale che, dalla nascita nel 1994 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si è progressivamente sviluppato attraverso il “sistema COP” (Conferenze delle Parti). In effetti, un filo comune lega il Protocollo di Kyoto (firmato nel 1997 [COP 3], ratificato nel 2005) all’Accordo di Parigi (firmato nel 2015 [COP 21]): è l’idea che, sebbene il riscaldamento globale sia stato un fallimento del mercato – storicamente incapace di tenere conto delle esternalità negative (in questo caso le emissioni di anidride carbonica) – esso può essere rimediato solo da una nuova ondata di mercificazione.
Questa mercificazione può assumere due forme: “dare un prezzo alla natura” (trasformando la base materiale della riproduzione biosferica in capitale naturale) o creare nuove merci da scambiare su mercati esclusivamente dedicati (per esempio permessi/crediti di emissione nel circuito del mercato del carbonio). Ho proposto di chiamare questa idea il dogma del commercio del carbonio, per sottolineare la sua estrema robustezza – una straordinaria persistenza che ha portato l’élite del clima globale a concepire l’eccesso di CO2 come una merce da valorizzare piuttosto che come un fastidio da eliminare.
Vale la pena soffermarsi su questo aspetto per apprezzare appieno l’origine neoliberale di questo stile di governo del clima: quando la crisi ecologica è diventata una questione altamente politica (alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70, stimolata da forti conflitti sociali), il principio che il capitalismo potesse prosperare sui problemi ambientali, non nonostante essi, era semplicemente impensabile. A riprova di ciò, possiamo ricordare il momento originario del dibattito sul cambiamento climatico (a metà degli anni Settanta, sia in URSS che negli USA): non si parlava affatto di mitigazione, mentre l’interesse di scienziati e politici era tutto rivolto all’adattamento (Felli 2016). Non è difficile capire perché: con la guerra fredda in pieno svolgimento, era certamente più facile immaginare la fine del mondo che la fine dei blocchi egemonici che si confrontavano sul terreno – tutt’altro che “tecnico” o “neutrale” – del produttivismo.
Un cambiamento significativo è avvenuto alla fine degli anni ’80, quando la retorica dello sviluppo sostenibile ha cominciato a diffondersi. Questo concetto si basava sull’idea che, attraverso una politica prudente, sarebbe stato possibile tenere insieme tre obiettivi a priori contraddittori: l’espansione economica, la salute del pianeta e il diritto all’abbondanza per le generazioni future.
Ma la rottura radicale, che trasforma il danno ecologico da una necessità scomoda – una sorta di “prezzo da pagare per lo sviluppo” – in un’attraente opportunità di business, è la cosiddetta crescita verde, cioè l’internalizzazione dei vincoli ambientali come una strategia di accumulazione senza precedenti. In questo contesto, la natura cessa di funzionare come una limitazione del processo di valorizzazione e diventa invece una forza motrice.
Si tratta di una grande mutazione politico-epistemica che potrebbe essere spiegata sulla base delle trasformazioni storiche del lavoro. Per quanto riguarda il lavoro, la riflessione di McKenzie Wark in Molecular Red (2015) è importante nella misura in cui propone di assumere l’Antropocene non come una retorica da rifiutare ma come un terreno di lotta su cui costruire una nuova “prospettiva del lavoro sui compiti storici del nostro tempo”. Un sintomo sociale da riconoscere per riorientare il suo potenziale. Ecco perché, piuttosto che “mettere in discussione l’Antropocene […], è meglio prenderlo per quello che è: un trucco; un espediente che ci permette di introdurre il punto di vista del lavoro – nel senso più ampio del termine – nella geologia”.
Un buon modo di pensare alla specificità del lavoro nel presente dell’Antropocene è quello di chiedersi come vediamo la nuova era geologica, cioè da quale regime di visibilità è governata: qual è la base dell’insieme di regole che governano la rappresentazione del riscaldamento globale? Ci sembra ragionevole ipotizzare che sia il General Intellect, divenuto un’astrazione reale e quindi un principio organizzatore della produzione contemporanea, a porre le condizioni di possibilità per la visibilità politica del cambiamento climatico. In altre parole, il regime di visibilità che ci permette di renderci conto che stiamo vivendo nell’Antropocene è basato sul capitalismo cognitivo, cioè sullo sfruttamento generalizzato del lavoro-conoscenza. Questo è il sintomo. Ed è particolarmente pericoloso perché, nonostante le sue potenzialità, non fa nulla per ridurre gli impatti ambientali: come afferma Carlo Vercellone,
“Lungi dall’emanciparsi dalla logica produttivista del capitalismo industriale, il capitalismo cognitivo la sussume, la riproduce e la estende, causando una drammatica rottura dell’equilibrio necessario alla riproduzione dell’ecosistema.
Non è una coincidenza, inoltre, che sebbene il cambiamento climatico sia noto dal XIX secolo, è diventato una questione pubblica e politicamente visibile solo a partire dagli anni ’80, cioè quando la razionalità neoliberale ha permesso di prevedere una strategia di sviluppo del capitale nel quadro di una “crisi della riproduzione” creata dal capitale stesso. Da allora – quando le élite globali possono affermare che il riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di internalizzare i costi ambientali) che tuttavia può essere risolto solo da una nuova ondata di mercificazione (del carbonio e della natura) – l’Antropocene può finalmente diventare l’orizzonte di una presunta accumulazione “sostenibile”.
Quindi questo cambiamento politico-epistemologico – incapsulato nelle formule gemelle del capitalismo cognitivo e della crescita verde – è molto importante ma non sorprendente dato il ruolo fondamentale giocato dai dispositivi digitali nel produrre dati e simulazioni del riscaldamento globale. Come ha dimostrato lo storico Paul Edwards, nessuno ha un’esperienza planetaria o atmosferica senza il supporto della scienza del clima. Per stabilire un legame tra un evento meteorologico – per quanto estremo – e il riscaldamento globale, è assolutamente necessario mobilitare su larga scala l’intelligenza generale nelle sue varie forme (cioè tutte le fabbriche del sapere: università, think tank, controargomenti dei movimenti sociali, ecc. Ovviamente, tale dipendenza dalla conoscenza non riduce la materialità concreta del cambiamento climatico, sia per quanto riguarda l’identificazione delle sue molteplici cause che per l’impatto distruttivo dei suoi effetti eterogenei. Resta il fatto che, come spiega Matteo Pasquinelli,
“la percezione politica dell’Antropocene è possibile solo grazie a una rete globale (apparentemente neutrale) di sensori, centri dati, supercomputer e istituzioni scientifiche.
In termini di politica ambientale, la conseguenza di questo passaggio – dalla natura come ostacolo al valore alla natura come strategia di accumulazione – è stato l’abbandono dell’approccio sanzionatorio e di controllo – che ha ispirato i primi interventi pubblici negli anni Settanta, e che consiste nel punire gli attori che superano soglie massime – in favore dell’approccio preventivo (Pellizzoni 2021a) che punta all’integrazione diretta degli obiettivi ecologici nella produzione industriale attraverso un sistema di aiuti economici e agevolazioni fiscali. Nel campo del clima, questo approccio darà origine al dogma del commercio del carbonio che, come detto sopra, è stato la pietra angolare concettuale della governance del clima a livello globale – almeno fino alla COP 24 del 2018. È interessante notare che, in questo contesto, il mercato funziona come un locus di veridicità – secondo la formula proposta da Michel Foucault nelle sue lezioni sulla biopolitica. Nel caso del riscaldamento globale, il regime di verità del mercato produce un’equazione dogmatica – tanto indiscutibile quanto empiricamente fragile – che può essere riassunta come segue
stabilità del clima = riduzione delle emissioni di CO2 = scambio di carbonio [mercati del clima] = crescita economica sostenibile
La forza di questo dogma è dimostrata non solo dall’insistenza con cui le politiche climatiche si innestano sui mercati del carbonio nonostante la loro performance ecologicamente irrilevante – o addirittura dannosa – ma anche dalla crescente difficoltà degli attori del mercato a giustificare la retorica della crescita verde o dello sviluppo sostenibile. La struttura circolare di questo dogma rende impensabile qualsiasi alternativa. Come tutte le credenze religiose, la conferma della verità delle proposizioni è già contenuta nell’assunto iniziale: poiché i mercati definiscono la portata delle politiche efficaci, il cambiamento climatico può essere controllato solo nella misura in cui si possono ottenere profitti da questo controllo. L’equazione “stabilità del clima = creazione di valore” è una verità evidente.
Tuttavia, ciò che è diventato sempre più chiaro dopo la COP 21 di Parigi è che il dogma dello scambio di carbonio non sta mantenendo le sue promesse; infatti, è emerso un cortocircuito tra il (presunto) scopo ecologico e i (reali) mezzi economici dello scambio di emissioni (Yoomi et al 2020). E anche se nessun miglioramento ambientale è stato raggiunto attraverso la governance del clima, una quantità significativa di valore è stata creata e generalmente trasferita alle cosiddette aziende “ad alta intensità di fossili” (ad esempio l’industria petrolifera) attraverso un meccanismo di affitto climatico senza precedenti – affitto trasformato in profitto, ovviamente.
Crisi dell’Antropocene e giustizia climatica: il 2019 “ecologico” e il 2020 “pandemico
Fino a dicembre 2018, questo cortocircuito ha permesso di misurare l’estrema forza sociale del dogma: nonostante la sua inutilità fosse stata dimostrata innumerevoli volte a livello pratico/empirico, il postulato di una compatibilità armoniosa tra stabilità climatica e crescita economica ha continuato a guidare le azioni dei legislatori e degli attori del mercato. Tuttavia, alla COP 24 in Polonia, questa particolare forma di incanto neoliberale è crollata.
Il momento simbolico che certifica la crisi dell’Antropocene come dispositivo climatico governativo si trova nel rifiuto di Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait di riconoscere i rapporti dell’IPCC come base comune per i negoziati. Affinché il mercato sia in grado di gestire il riscaldamento globale, non solo deve essere riconosciuto dalla comunità, ma anche che ogni parte percepisca la sua esistenza allo stesso modo. Questo ruolo di “collante scientifico” storicamente svolto dall’IPCC era semplicemente fondamentale: la sua contestazione ha già avuto potenti ripercussioni, e non è certo che l’elezione di Joe Biden sarà sufficiente a ripristinare lo status quo ante.
C’è però un’altra causa del crollo della governance climatica dell’Antropocene – una causa esogena, per così dire. Mi riferisco ai disillusi del sistema COP, cioè coloro che hanno creduto nelle promesse della crescita verde e che, dopo venti o più anni di attuazione, sono stati “costretti” a riconoscere il suo fallimento. L’emblema di questa riconfigurazione politica è Greta Thunberg, diventata famosa nel 2018 a Katowice, con il suo triplice messaggio: delegittimare le élite; invertire il rapporto tra economia ed ecologia; incoraggiare l’azione diretta.
Prendo tre estratti da alcuni dei suoi discorsi per evidenziare un approccio radicale che è stato spesso oscurato dai media a favore dell’immagine un po’ rassicurante della moralista che striglia il potere e poi torna alla sua vita quotidiana:
1/ “Negli ultimi venticinque anni, innumerevoli persone hanno manifestato fuori dalle conferenze ONU sul clima, chiedendo ai leader delle nostre nazioni di fermare le emissioni. A quanto pare, non ha funzionato, perché le emissioni continuano ad aumentare. Quindi non chiederò nulla ai politici” (17);
2/ “No, l’aumento delle emissioni non è un incidente. È una scelta consapevole, e lo sarà finché non decideremo che il nostro unico obiettivo non è più la crescita economica, ma una riduzione radicale delle emissioni: chiudere i rubinetti del petrolio il più presto possibile e adattarsi alla realtà che i ricercatori di tutto il mondo continuano a segnalare” (114-115);
3/ “È vero, abbiamo bisogno di speranza, certamente. Ma più che di speranza, abbiamo bisogno di azione. Quando cominceremo ad agire, la speranza sarà ovunque. Invece di affidarci alla speranza, cerchiamo di agire. Allora, e solo allora, verrà la speranza” (9).
Questo è un messaggio radicalmente incompatibile con l’Antropocene come governance del clima. Un messaggio che possiamo definire come un appello alla giustizia climatica e che, in Italia e nel mondo, è stato rilanciato da Fridays for Future (FFF) ed è risuonato con forza in tutto l’anno “ecologico” del 2019 (quattro scioperi climatici globali, innumerevoli campi climatici, il proliferare ovunque di quella fragile ma onnipresente composizione di conflitti socio-ambientali che Naomi Klein ha definito blockadia).
La giustizia climatica è caratterizzata dal presupposto che al centro del riscaldamento globale come questione politica c’è un elemento di disuguaglianza, da giocare sia lungo l’asse planetario Nord-Sud – “è davvero un paradosso di questa crisi che coloro che hanno contribuito meno a generarla probabilmente pagheranno il prezzo più alto” (Thunberg 2021, 21) – e lungo la divisione “sociale” della ricchezza e della proprietà dei mezzi di produzione – “solo 100 grandi aziende sono responsabili del 70% delle emissioni globali di gas serra negli ultimi 20 anni. E l’1% più ricco della popolazione è responsabile del 50% delle emissioni. Non si può chiedere a tutti di contribuire allo stesso modo alla soluzione. È una questione di buon senso” (Thunberg 2021, 21).
Cosa sarebbe successo alla crescente forza dei movimenti per la giustizia climatica se il mondo non fosse stato colpito dalla pandemia Sars-Covid-2 nel 2020? Questa è una domanda politicamente legittima, certamente, ma anche analiticamente oziosa. Più promettente, credo, è la constatazione che la pandemia è stata una grande battuta d’arresto non solo in termini di ovvia interruzione delle mobilitazioni, ma anche in termini di sviluppo teorico e di formazione degli attivisti. In particolare, a livello internazionale, i movimenti – e i loro volti più noti, Greta Thunberg in primis – sono stati un po’ troppo lenti a cogliere il profondo legame tra riscaldamento globale e Covid-19 (Malm 2020).
In diverse occasioni, sono stati visti come entità separate che possono essere affrontate in due fasi: fuori dall’emergenza sanitaria e di nuovo nell’emergenza climatica. Va detto che alcuni nodi locali del FFF non hanno aspettato una svolta dall’alto per proporre una lettura alternativa, basata sull’ecologia politica e molto più ricca, secondo la quale i due fenomeni sono espressioni diverse dello stesso fattore scatenante, ovvero la crisi ambientale indotta da un’organizzazione della produzione fortemente squilibrata (Wallace 2021). Ma ciò non cambia il fatto che questa lenta riflessività ha essenzialmente reso inaccessibile alla giustizia climatica il suo elemento essenziale: la denuncia di una disuguaglianza specifica dovuta all’inazione fraudolenta delle élite.
Lo storico economico Adam Tooze (2021), invece, è colui che ha acutamente colto la minaccia della pandemia dell’Antropocene come paradigma per governare l’azione. È stato Tooze a dare la definizione politicamente più interessante del Covid-19: la prima crisi economica dell’Antropocene. La tesi di Tooze è che, a differenza delle crisi precedenti (da quella del 1929 che fece da sfondo al New Deal di Roosevelt a quella del 2007-2008 che ancora aspetta di essere “risolta”), l’obiettivo politico di un intervento pubblico auspicabile non può più limitarsi a “rimettere al lavoro” le persone che sono state inghiottite dalla disoccupazione. Ciò che è drammaticamente urgente è piuttosto :
1/ l’identificazione di una politica industriale con un criterio di selezione socio-climatica capace di distinguere tra i settori “produttivi” che devono essere rilanciati – o creati ex novo – e i settori “distruttivi” che devono essere abbandonati gradualmente – o immediatamente;
E
2/ il disegno di un quadro globale di politica sociale volto a distribuire equamente i costi (abbondanti a breve termine) e i benefici (abbondanti a medio e lungo termine) della transizione.
È importante sottolineare che il quadro descritto da Tooze è interamente all’interno dello spazio discorsivo della giustizia climatica. Il “problema” stesso del Green New Deal, del ritorno dello Stato e della pianificazione, deve essere letto nel contesto di questo scenario, cioè in un’articolazione senza precedenti della protezione ambientale e della lotta contro la disuguaglianza (sia geopolitica che sociale).
Conclusione
Finora, ho cercato di spiegare come la “solidità” pratica e discorsiva di cui l’Antropocene ha goduto come dispositivo di governance del clima tra gli anni ’90 e la firma dell’Accordo di Parigi sia ora profondamente messa in discussione. Questo non vuol dire che non sia più efficace: più semplicemente, alcune dinamiche osservate alla pre-COP di Milano e alla COP 26 di Glasgow vanno proprio nella direzione di essere messe in discussione – il che non impedisce che venga riproposta nei periodi a venire.
Tuttavia, penso che altri due scenari siano più plausibili. Il primo comporterebbe una riduzione dell’ambizione espressa dal sistema COP: visto il fallimento della mitigazione (che avrebbe comportato la riduzione delle emissioni di gas serra), l’adattamento al cambiamento climatico potrebbe prendere il centro della scena – con l’effetto preoccupante di aumentare le tensioni internazionali. La seconda vedrebbe un’espansione della giustizia climatica in due direzioni: verso l’alto, se le istituzioni mostrano interesse per programmi di Green New Deal non cosmetici; e verso il basso, se le mobilitazioni per il clima riescono a fungere da quadro politico generale per la convergenza delle lotte – in particolare per quanto riguarda le dinamiche sindacali che si trovano sempre più a dover gestire nuove configurazioni del rapporto tra ecologia e lavoro.
In ogni caso, l’Antropocene è più che mai un terreno di conflitto – e promette di rimanere tale per molto tempo.
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